Quello che sarebbe passato alla storia come il “fiasco di Capodanno” fu un disastro per Grachev e un trionfo di Dudaev. Ma soprattutto fu il mito fondativo della resistenza. Più tardi, alla fine della guerra, il governo indipendentista avrebbe istituito un ordine di medaglie dedicato a coloro che avevano combattuto in quei giorni, l’Ordine del Difensore di Grozny[1]. Mentre i ceceni vivevano la loro prima giornata di gloria, a Mosca Grachev iniziava a prendere coscienza di aver fatto fare ad Eltsin una figuraccia planetaria. Davanti alle telecamere il Ministro della Difesa rimase apparentemente ottimista, al punto da dichiarare che l’operazione era stata un sostanziale successo[2]. Non poteva esserci niente di più falso, e lo sapeva bene, perché ancora il 2 gennaio i russi erano impegnati a salvare i loro reparti rimasti assediati in città, e niente faceva pensare ad una risoluzione veloce della battaglia[3]. Se non altro, comunque, la disfatta costrinse il comando russo a cambiare tattica, a cominciare dall’organigramma delle forze in campo. La responsabilità del fallimento venne addossata ai comandanti sul campo, che vennero in gran parte sostituiti, mentre il Gruppo d’Assalto Nord e Nord – Est vennero fusi in un solo Gruppo d’Assalto Nord al comando del Generale Rochlin, l’unico che avesse salvato la faccia in quell’operazione così maldestramente condotta. Le colonne federali furono riorganizzate in piccoli reparti appoggiati da carri armati ed elicotteri, dotate di maggiore mobilità e più prudenti nell’avanzare verso il centro cittadino. Abbandonata l’idea di un rapido blitz vittorioso, il comando del Raggruppamento delle Forze Unite tornò coi piedi per terra, e prima di tutto si occupò di salvare le unità ancora assediate nel centro cittadino. I rinforzi richiamati da tutti i distretti militari poco prima dell’assalto furono inviati a consolidare le posizioni faticosamente conquistate: nel corso dei primi giorni di Gennaio le unità federali riuscirono a tenere una precaria linea del fronte che dall’ospedale, a Nord, correva fino alla stazione ferroviaria, lambendo la piazza del mercato centrale cittadino. I mezzi corazzati rimasti operativi furono frettolosamente ritirati dalla zona di combattimento e disposti a supporto della fanteria, la quale da quel momento in poi avrebbe avanzato casa per casa. Nessuna azione offensiva fu intrapresa prima che artiglieria ed aeronautica avessero annichilito le posizioni (probabili o effettive) dalle quali i cecchini ed i tiratori di RPG nemici avrebbero potuto colpire. La strategia cambiò radicalmente: anziché puntare tutti verso il centro, i reparti federali avrebbero conquistato i distretti uno ad uno, aprendosi la strada lentamente.
. Il 4 gennaio, dopo 48 ore di incessante bombardamento, l’attacco alla città riprese ed i reparti federali tentarono di sfondare il fronte lungo tutto l’arco compreso tra la stazione ferroviaria (ovest) l’ospedale (nord) e la base di Khankala (est). I bombardamenti si concentrarono sui quartieri residenziali nel centro cittadino, ancora occupati dai dudaeviti. La tragedia umanitaria che l’attacco stava generando ne fu ulteriormente amplificata, e la pressione mediatica su Eltsin cominciò a farsi forte, al punto che questi decise di sospendere i bombardamenti dal 5 Gennaio. Intanto continuavano ad affluire rinforzi dalle basi navali del Baltico e del Pacifico, e numerosi reggimenti di fanteria di marina prendevano posizione nelle retrovie, mentre i difensori schieravano unità fresche, come gli uomini del Battaglione Naursk, i quali erano riusciti a calare dal nord del Paese tra il 3 ed il 4 Gennaio[4]. Tra il 5 ed il 10 gennaio i combattimenti si svilupparono lungo tutta la linea del fronte, fino al bombardamento da parte dell’artiglieria russa di un ospedale psichiatrico dove sembrava che fosse presente un nucleo di combattenti indipendentisti. Il bombardamento provocò lo sdegno della comunità internazionale e mise in imbarazzo Eltsin, che propose pubblicamente una “tregua umanitaria” per permettere lo sfollamento dei civili rimasti in città. Il 9 sembrò che le parti fossero riuscite ad accordarsi per un cessate – il – fuoco di 48 ore, durante il quale poter raccogliere morti e feriti e scambiarsi i prigionieri. 13 Prigionieri russi in mano cecena vennero restituiti alle autorità federali, mentre i dudaeviti approfittavano della tregua per far affluire in città nuovo equipaggiamento. Tuttavia, come le telecamere si furono allontanate, Eltsin rimpiazzò la sua tregua con un “ultimatum” per il disarmo delle milizie, e già dalle prime ore del 10 gennaio l’artiglieria russa ricominciò a bombardare la città[5]. Il Gruppo di Battaglia Est, ribattezzato Gruppo di Battaglia Sud – Est, ebbe l’incarico di chiudere il braccio destro della tenaglia occupando i quartieri meridionali, con l’obiettivo di completare l’accerchiamento e mettere Grozny sotto assedio.
Nel frattempo le unità dispiegate in città avanzavano lentamente, casa per casa dirette verso il quartiere governativo. I centri nevralgici della difesa cecena in quel settore erano costituiti dall’edificio del Parlamento (ex Consiglio dei Ministri della RSSA Ceceno – Inguscia, il cosiddetto “SovMin”) dal Palazzo Presidenziale, dall’istituto pedagogico[6] e dall’Hotel Kavkaz. Il quartiere era protetto ad est dal Sunzha, mentre a sud era coperto dalla imponente struttura del circo cittadino, che gli indipendentisti utilizzavano come una sorta di bunker. L’unico modo per approcciare le posizioni cecene senza rischiare di finire in trappola era avanzando da Nord. Questo accesso era protetto dall’Istituto Petrolifero di Grozny, un imponente complesso di tre palazzi al centro del quale svettava un corpo centrale di dodici piani, soprannominato “Candela”[7]. Il 7 Gennaio elementi del 45° Reggimento Aviotrasportato, giunti da pochi giorni in supporto alle unità di prima linea, assaltarono l’edificio. La battaglia infuriò a fasi alterne per tre giorni, durante i quali l’edificio fu preso, poi riperso, poi ripreso nuovamente. Consapevoli che la perdita dell’Istituto Petrolifero avrebbe aperto la strada ai federali per la conquista dell’intero quartiere, gli indipendentisti reagirono rabbiosamente, alternando contrattacchi in massa a fitti bombardamenti con i mortai. Fu in uno di questi bombardamenti che perse la vita il primo di numerosi alti ufficiali russi caduti in questa guerra. Centrato da un colpo di mortaio cadde il Generale Viktor Vorobyov (omonimo del già citato Edvard Vorobyov) mentre, al comando di un’unità OMON del Ministero degli Interni, si apprestava a costituire un posto di blocco dietro al grande edificio principale. Dopo essersi assicurati il controllo delle rovine dell’Istituto Petrolifero i federali arrestarono l’avanzata, lasciando spazio ad un imponente bombardamento aereo e di artiglieria non soltanto sulla guarnigione a difesa della città, ma lungo tutto il fronte, comprese le retrovie a Sud e sui centri montani del paese.
I difensori si trincerarono all’interno dei fatiscenti edifici del quartiere governativo, supportati da contingenti provenienti dall’altra sponda del Sunzha che all’occorrenza intervenivano a bloccare gli sporadici attacchi dell’esercito federale[8]. La sera del 12 gennaio il Generale Rochlin, ordinò l’assalto al Sovmin[9]. Nella notte un reparto di paracadutisti della 98a Divisione Aviotrasportata riuscì a raggiungere la base dell’edificio. La struttura era stata pesantemente bombardata, e per i ceceni era stato quasi impossibile rifornire le unità a difesa dell’edificio nelle 48 ore precedenti. Alle 5:30 del mattino gli attaccanti assaltarono il palazzo, ma i ceceni asserragliati ai piani superiori reagirono prontamente, riuscendo a bloccare l’assalto e provocando tra i paracadutisti numerosi morti e feriti. Nel frattempo Maskhadov richiamava da Sud tutte le forze disponibili per respingere l’attacco: qualora il Sovmin fosse caduto, il Palazzo Presidenziale avrebbe potuto essere colpito direttamente, e non sarebbe stato più possibile rifornire la guarnigione che vi era asserragliata[10]. Dall’edificio, infatti, era possibile tenere sotto tiro il grande ponte sul Sunzha che collegava il Quartier Generale alla parte orientale di Grozny.
Nella tarda mattinata del 13 i paracadutisti russi iniziarono ad essere supportati da consistenti reparti corazzati, affiancati dalla fanteria ordinaria e dai fanti di marina del 33° reggimento, appena giunto sul campo di battaglia. Le unità raccolte da Basayev in Piazza Minutka ed inviate di rinforzo verso il Palazzo Presidenziale tentarono inutilmente di sloggiare i federali, lanciando violenti attacchi fino al 19 Gennaio, in uno scontro casa per casa e stanza per stanza senza esclusione di colpi[11]. Nel corso dei giorni, tuttavia, le controffensive cecene si esaurirono, man mano che i reparti federali assalivano gli edifici circostanti il Sovmin, come l’Ispettorato di Polizia Fiscale, subito ad est dell’edificio, aumentando così la copertura delle unità poste alla sua difesa[12]. I federali riuscirono ad aver ragione dei contrattacchi dei ceceni soltanto dopo alcuni giorni di intensi combattimenti. Il 19 gennaio, fallita l’ultima controffensiva cecena, Rochlin potè dichiarare di aver preso il Sovmin. Da questa posizione i russi potevano facilmente assediare il Palazzo Presidenziale. Nel corso dei giorni precedenti questo era stato colpito incessantemente dall’artiglieria e dall’aeronautica, al ritmo di un colpo al secondo, e due potenti bombe a detonazione ritardata erano penetrate fin nei sotterranei dell’edificio, dove si trovavano i centri di comunicazione, il comando e l’ospedale da campo, sventrando il palazzo. A complicare ulteriormente la posizione dei difensori occorse, all’alba del 19, la conquista dell’Hotel Kavkaz e la cattura del vicino ponte sul Sunzha. I pochi reparti della Guardia Presidenziale ancora operativi, asserragliati tra le imponenti rovine del Reskom, non avrebbero potuto resistere a lungo. Già alcuni giorni prima la squadra speciale della Guardia (i cosiddetti “Leoni di Dudaev”), al comando di Apti Takhaev, era stata distrutta in un contrattacco nel distretto di Boronovka, a nordovest del Quartier Generale[13]. Se voleva salvare i resti delle sue forze d’élite, Maskhadov avrebbe dovuto tirarle fuori da quella che stava diventando ogni giorno di più una bara di cemento. Così il comandante ceceno. che non aveva mai abbandonato la posizione, si decise ad andarsene sfruttando l’ultimo corridoio aperto in mezzo alle unità federali. Basayev coordinò efficacemente il ritiro della maggior parte dei reparti combattenti sulla sponda destra del Sunzha, organizzando una solida linea di difesa[14]. Il giorno successivo i soldati di Eltsin innalzarono sul pennone la bandiera russa[15]. La presa del Palazzo fu poco più che un successo politico. Per prenderlo i russi avevano sacrificato più di un migliaio di uomini, centinaia di mezzi corazzati, sparato decine di migliaia di proiettili d’artiglieria ed impiegato una marea di aerei ed elicotteri. E alla fine, a dirla tutta, lo avevano preso perché erano stati i ceceni ad abbandonarlo. La battaglia per la presa della sponda occidentale del Sunzha aveva richiesto l’impiego di quasi la totalità delle forze federali, dando il tempo a Dudaev di organizzare una solida linea a sud della capitale.
Il Presidente ceceno si ritirò senza fretta a Shali, dove pose la capitale provvisoria della Repubblica. In città rimase Basayev, ormai divenuto una leggenda vivente, con l’ordine di rallentare i federali quanto più possibile. Maskhadov si ritirò ad Argun, ponendovi il suo Quartier Generale[16]. A Mosca, la notizia della cattura del Palazzo Presidenziale fu accolta con grande ottimismo: Eltsin tenne un discorso pubblico nel quale associò la presa del Palazzo Presidenziale alla imminente cessazione delle ostilità. La realtà era ben diversa: l’esercito federale era riuscito a prendere a malapena un terzo della città, giacché il grosso di Grozny si estende oltre la sponda orientale del fiume. E dall’altra parte c’era Basayev, con una nutrita guarnigione di almeno 1.500 uomini (cui si aggiungevano altre centinaia di volontari) deciso a tirare avanti la difesa della città il tempo necessario a far sì che Maskhadov potesse completare il dispiegamento del fronte meridionale. Il successo di cui parlava Eltsin (costato comunque tra i 500 e i 1000 morti e tra i 1.500 ed i 5.000 feriti) non era sufficiente neanche a dichiarare di aver preso Grozny, tantomeno di aver prodotto la cessazione delle ostilità. La maggior parte del territorio ceceno rimaneva saldamente nelle mani degli indipendentisti, e la vittoria sul campo era ancora ben lontana da venire[17].
[1] Il lettore che volesse approfondire il tema dei premi di stato della ChRI può consultare la sezione Premi della Repubblica sul sito www.ichkeria.net.
[2] Il 2 Gennaio, Grachev dichiarò alla stampa che l’operazione per la presa della città si sarebbe conclusa in non più di cinque, sei giorni. Il 9 Gennaio, quando ormai era chiaro che le sue ottimistiche previsioni non stavano trovando riscontro nella realtà sul campo, parlando ad una conferenza stampa ad Alma – Ata, il Ministro della Difesa ebbe a dichiarare che L’operazione per prendere la città era stata preparata in tempi molto brevi, ed è stata eseguita con perdite minime […] E le perdite, voglio dirvelo francamente, si sono verificate solo perché una parte dei comandanti di grado inferiore ha vacillato. Si aspettavano una vittoria facile e poi, semplicemente, avevano ceduto sotto pressione […]. Un cambio di prospettiva apparentemente minimo, ma che rivelava la presa d’atto che il blitz fosse fallito, e che la conquista della città avrebbe richiesto tempi e sforzi molto maggiori.
[3] Come ebbe a dire successivamente il Generale Rokhlin, che da questo momento in poi avrebbe avuto l’onere principale nella conquista di Grozny: Il piano operativo, sviluppato da Grachev e da Kvashnin, divenne di fatto un piano per la morte delle truppe. Oggi posso dire con assoluta certezza che questo non fu suffragato da alcun calcolo operativo – tattico. Un piano del genere ha un nome molto preciso: una scommessa. E considerando che come risultato della sua attuazione sono morte centinaia di persone, fu un gioco d’azzardo criminale.
[4] Secondo quanto riportatomi da Apti Batalov in una delle nostre conversazioni, il Battaglione, forte di 97 uomini, raggiunse prima Gudermes, dove fu accolto dal Prefetto locale Salman Raduev e sistemato nella Casa dei Ferrovieri, poi si diresse verso il Palazzo Presidenziale, sfruttando la tregua appena dichiarata, e raggiungendo la posizione nella tarda serata del 5.
[5] Secondo quanto ricordò Aslan Maskhadov nel suo libro elettorale L’Onore è più caro della vita: Una volta, nel Gennaio 1995, Dudaev mi disse di essere d’accordo con Chernomyrdin di cessare le ostilità per 48 ore. “Prendi contatto con Babichev” mi disse “e concorda sulla rimozione dei cadaveri ed il salvataggio dei feriti gravi”. Contattai Babichev e gli ripetei che questa era la volontà di Dudaev e di Chernomyrdin. Babichev mi disse che mi avrebbe ricontattato entro 30 minuti. Poi mi chiamò e abbastanza seriamente, con la voce di un presentatore televisivo, disse: “Le condizioni sono le seguenti. Una bandiera bianca viene appesa al Palazzo Presidenziale, i capispalla vengono rimossi, le armi non vengono portate con voi, uscite con le mani alzate e dirigetevi verso Via Rosa Luxembourg…” Ho ascoltato con difficoltà queste chiacchiere, come i deliri di un pazzo, e moto educatamente l’ho mandato dove di solito ti mandano i contadini russi. A quanto pare neanche Babichev gradì la mia risposta, ed il fuoco più intenso di tutte le armi fu aperto sul Palazzo Presidenziale.
[6] In questo edificio, secondo quanto riportatomi da Apti Batalov, si era asserragliato il Battaglione Naursk. Secondo i suoi ricordi, i suoi uomini tennero la posizione fino al 19 Gennaio.
[7] L’Istituto Petrolifero di Grozny era una vera e propria istituzione non soltanto in Cecenia, ma in tutta la Russia. Fondato nel 1920, era stato per decenni il punto di riferimento negli studi tecnici relativi all’estrazione ed alla produzione di idrocarburi. Presso le sue strutture si erano formati circa cinquantamila studenti, tra i quali illustri personaggi politici dell’URSS. La costruzione, alta e massiccia, fu utilizzata dai indipendentisti per difendere da posizione favorevole il quartiere governativo, e la sua cattura avrebbe provvisto i federali di un’ottima posizione di osservazione e di tiro sulle difese cecene. Per questo motivo il complesso fu al centro degli scontri per la presa della città, finendo completamente distrutto prima dai bombardamenti, poi dai violenti scontri combattutisi al suo interno.
[8] Un episodio degno di nota esplicativo della situazione strategica al 10 Gennaio 1995 è riportato da Dodge Billignsley nel suo Fangs of the lone wolf. Il 10 Gennaio i reparti avanzati federali occupavano l’edificio del Servizio di Sicurezza Nazionale (ex KGB) e sparavano dalla piazza del mercato direttamente contro il Reskom (nome originale del Palazzo Presidenziale). Altri mezzi corazzati stazionavano nei pressi dell’Hotel Kavkaz, a pochi metri dal principale ponte sul Sunzha (il ponte su Via Lenin, oggi Putin Avenue), coprendo l’avanzata della fanteria che stava tentando di occupare l’edificio. Al di là del ponte si trovava un drappello di indipendentisti intenzionato a portare supporto a Maskhadov, attaccando i carri appostati all’Hotel Kavkaz. Il piccolo reparto si divise in due: metà avrebbe continuato ad occupare la posizione, l’altra metà avrebbe attraversato il fiume a nuoto, avrebbe attaccato i carri e si sarebbe nuovamente ritirata. L’azione ebbe successo, uno dei due veicoli fu colpito dagli RPG e saltò in aria, mentre l’altro si ritirò velocemente al coperto. In questo modo l’azione offensiva russa subì un certo rallentamento, costringendo i federali a tenersi alla larga dagli argini del fiume onde evitare di finire nuovamente sotto attacco da parte degli incursori ceceni. Azioni di questo tipo si susseguirono fino al 18 Gennaio quando, caduto il Sovmin, la difesa del Palazzo Presidenziale perse di senso strategico e gli indipendentisti si ritirarono al di là del fiume.
[9] Lo spettacolo che i russi si trovarono davanti quando giunsero ai piedi dell’edificio fu straziante, secondo quanto riporta lo stesso Rochlin: “Alla vigilia dell’assalto i militanti avevano appeso i cadaveri dei nostri soldati alle finestre […] Nei primi giorni dell’assalto scoprimmo una fossa comune piena di paracadutisti, i cui cadaveri erano stati decapitati. Successivamente trovarono cadaveri dei nostri soldati con lo stomaco strappato, pieno di paglia, con le membra recise e tracce di altre profanazioni. I dottori, esaminando i cadaveri, hanno affermato che stavano martoriando persone ancora vive.”
[10] Come abbiamo detto il Palazzo Presidenziale non era soltanto un edificio simbolico per gli indipendentisti. Nel bunker al di sotto dell’imponente struttura si trovava il Quartier Generale ceceno, e da lì Maskhadov diramava gli ordini alle unità che difendevano il quartiere governativo.
[11] Lo scontro assunse caratteri di inaudita ferocia, tale da far saltare i nervi ai soldati. Il Tenente Colonnello Victor Pavlov, Vicecomandante del 33° Reggimento Fanti di Marina, scrisse nelle sue memorie: Il personale del gruppo d’assalto, che teneva la difesa del Consiglio dei Ministri […]si è rivolto al comandante del gruppo, Maggiore Cherevashenko, chiedendo di poter lasciare la posizione […] con enormi sforzi Cherevashenko riuscì a impedirlo […] i soldati giacevano negli scantinati del Consiglio dei Ministri, non mangiavano né bevevano, si rifiutavano persino di portar fuori i loro compagni feriti. Ci sono stati casi di esaurimento psicologico tra i soldati. Quindi il soldato G. […] ha dichiarato che non poteva più tollerare una situazione del genere ed ha minacciato di sparare a tutti […].
[12] Il 16 Gennaio, alle ore 5:20, i canali radio registrarono una conversazione tra Ruslan Gelayev (in codice “Angel – 1”) e Maskhadov (in codice “Ciclone”). In essa il Capo di Stato Maggiore ceceno confessava all’altro di aver appena assistito alla prima battaglia perduta.
[13] Le circostanze della morte di Apti Takhaev mi sono stare riportate dall’attuale Segretario di Stato della ChRI, Abdullah Ortakhanov.
[14] Secondo quanto riferitomi da Ilyas Akhmadov, il ritiro delle forze cecene sulla sponda destra del fiume fu anche frutto di un “effetto domino” determinato dalla peculiare organizzazione delle forze combattenti: Il tempismo della nostra ritirata da una sponda all’altra del Sunzha è stato in parte non intenzionale. Avremmo potuto resistere ancora un po’. C’erano molti gruppi diversi che correvano sparando a qualsiasi nemico potessero vedere. Alcune di queste unità non provenivano dalla città ed erano venute a combattere per 3-4 giorni, per poi ritirarsi nelle loro case e riposare una settimana nel loro villaggio. Quando un’unità schierata stabilmente in città chiedeva dove stavano andando, era imbarazzante dire “stiamo andando a casa”, quindi i volontari rispondevano: “abbiamo un ordine di Maskhadov di ritirarci”. Senza alcun modo per verificarlo e senza motivo di dubitare della loro spiegazione, anche l’altra unità si ritirava attraverso il Sunzha. Questo ha accelerato il passaggio sull’altra sponda.
[15] Non si sa se per coincidenza o per scelta, la squadra che salì sul tetto del Palazzo Presidenziale per issarvi il tricolore russo apparteneva al 33° Reggimento Motorizzato, la stessa unità che aveva issato la bandiera rossa sulle rovine del Reichstag alla fine della Battaglia di Berlino.
[16] Là lo raggiunse un giovane laureato in Scienze Politiche, che per qualche tempo aveva servito al Ministero degli Esteri, e che ora si metteva a disposizione della resistenza armata: Ilyas Akhmadov. Di lui parleremo approfonditamente più avanti e nei prossimi volumi di quest’opera.
[17] Per visualizzare la Battaglia di Grozny, vedi la carta tematica E.