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31/12/1994 – 03/01/1995: Il fiasco di Capodanno

Quello che segue è un estratto dal secondo volume di “Libertà o Morte!” Storia della Repubblica Cecena di Ichkeria. Lo pubblichiamo nell’anniversario della Battaglia per Grozny,

Nella notte tra il 30 ed il 31 dicembre 1994 l’artiglieria federale iniziò un bombardamento a tappeto su Grozny. Migliaia di colpi d’artiglieria sventrarono i quartieri residenziali della periferia settentrionale. Il mattino seguente l’aeronautica continuò l’opera scaricando sulla città una pioggia di bombe e razzi. Per far sì che il bombardamento fosse continuo erano stati assegnati due equipaggi ad ogni velivolo, cosicché i cacciabombardieri federali potevano effettuare le loro missioni senza sosta[1]. Ciononostante, a causa del maltempo l’attività dei bombardieri non sortì grandi effetti sulle difese cecene, mentre generò il panico tra la popolazione e produsse grandi distruzioni nei quartieri centrali della città, abitati massicciamente da russi[2]. Dopo 24 ore di bombardamenti le truppe di terra iniziarono ad avanzare. Il grosso dell’operazione era, come abbiamo visto, assegnato ai Gruppi d’Assalto Nord e Nord-ovest le cui punte di lancia erano costituite dall’81° Reggimento Motorizzato e dalla 131a Brigata Motorizzata. Le due unità iniziarono ad avanzare verso il centro cittadino alle prime luci dell’alba del 31 dicembre. Il piano prevedeva che la 131a avanzasse in profondità fino alla stazione ferroviaria, dove avrebbe costituito una testa di ponte per le unità del Gruppo d’Assalto Ovest, mentre l’81° avrebbe aperto la strada verso il Palazzo Presidenziale.

L’avanzata della 131a incontrò una resistenza piuttosto accanita. Quando l’unità raggiunse Viale Majakovsky, una sorta di anello stradale che circonda tutto il settore occidentale della città, il plotone di ricognizione in testa alla colonna venne investito da un violento fuoco incrociato. Il primo carro T – 72 della colonna saltò in aria, ed i veicoli che lo seguivano rimasero danneggiati. Nel corso della marcia la colonna si era allungata, e quando i superstiti del plotone di ricognizione fecero marcia indietro si scontrarono contro il resto del convoglio che avanzava in direzione opposta. All’altezza dell’ingorgo c’era una scuola elementare, dalla quale un gruppo d’assalto ceceno aprì il fuoco contro i russi in confusione. Soltanto l’intervento dell’artiglieria semovente ed un bombardamento aereo che riuscì a centrare in pieno la scuola permisero all’unità di riprendere l’avanzata. All’altezza della Casa della Stampa, a poca distanza dal complesso industriale Krasnij Molot (“Martello Rosso”) i russi incontrarono l’accanita resistenza di alcuni reparti a difesa del centro urbano[3]. L’81°, per parte sua, si trovò a combattere per aprirsi la strada fin dal primo ponte sul Sunzha a nord della città (il Ponte Zukhov). Con i mezzi blindati incolonnati e impossibilitati a manovrare, il reggimento subì numerosi attacchi a colpi di lanciagranate, a seguito dei quali riportò la perdita di cinque veicoli corazzati. Nel frattempo, le unità che seguivano l’81° raggiunsero l’avanguardia, aumentando l’ingorgo e rendendo ancor più difficile il dispiegamento sull’asse di marcia. La situazione fu ulteriormente complicata dal fatto che il piano d’attacco non era sufficientemente dettagliato da individuare più vie d’accesso al quartiere governativo, così le unità avanzanti procedettero incolonnate seguendo uno schema caotico e disorganizzato. All’ingorgo si aggiunsero progressivamente elementi di altre unità, reparti sciolti e veicoli che, a causa di guasti lungo il tragitto, avevano dovuto fermarsi e adesso stavano recuperando terreno, cercando di riunirsi ai loro comandi. In breve, i reparti si confusero tra loro, perdendo la capacità di coordinarsi. Per ridurre la congestione della colonna l’81° venne diluito attraverso vie secondarie, delle quali i capireparto non possedevano mappe aggiornate.  Giunti a pochi isolati dal Palazzo Presidenziale, i russi si trovarono nel bel mezzo di un’imboscata. I reparti a difesa dell’anello difensivo interno si attivarono improvvisamente, sommergendo i russi sotto una pioggia di proiettili.  Basayev aveva atteso che l’81° Reggimento si fosse ben addentrato nel dedalo di strade che convergevano sul Palazzo Presidenziale, e una volta che le colonne federali si furono allungate sufficientemente fece attaccare i carri in testa ed in coda, paralizzando i tronconi centrali e scagliandogli contro i gruppi d’assalto armati di lanciagranate. Quei pochi reparti che riuscirono a manovrare si trovarono isolati e privi del supporto della fanteria, che era rimasta bloccata dal tiro dei cecchini. Impossibilitati a rispondere al fuoco proveniente dai piani alti degli edifici, i veicoli superstiti tentarono di chiudersi in un perimetro di difesa, ma finirono sotto una pioggia di RPG e vennero completamente distrutti. Le retrovie del Gruppo da Battaglia Nord, che arrivavano alla spicciolata, si trovarono davanti un brulicare di soldati terrorizzati che cercavano rifugio dietro alle carcasse incendiate dei loro veicoli. Il gruppo venne investito in pieno dalla controffensiva cecena. Alcuni reparti riuscirono a barricarsi nel quartiere ospedaliero, a qualche centinaio di metri a nord del Palazzo Presidenziale, ma per molti altri non ci fu scampo: privi della copertura aerea e del supporto dei mezzi corazzati, dovettero uscire allo scoperto e tentare la fuga, diventando facili bersagli per i cecchini. Entro sera i russi avevano già perduto una settantina di mezzi, e centinaia tra morti e feriti.

Anche la 131a Brigata, che fino alle 13:00 era avanzata senza incontrare forti resistenze, venne investita da un improvviso e violento contrattacco non appena raggiunse il suo obiettivo[4]. Alle 15:00 in punto la Stazione Ferroviaria divenne il bersaglio del tiro di centinaia di armi da fuoco e lanciagranate. Nel giro di 60 minuti i federali persero tredici carri armati e numerosi mezzi blindati. Il comandante della Brigata, Ivan Savin, guidò il ripiegamento delle unità all’interno della stazione, venendo ferito ad entrambe le gambe. Una volta dentro, Savin ordinò ai suoi uomini di trincerarsi, e chiamò in soccorso la riserva della brigata, che ancora non era entrata a Grozny e stazionava nei sobborghi a nord della città, agli ordini del Colonnello Andrievski. Nel frattempo la difesa cecena si attivava in tutti i settori nei quali erano penetrati i nemici. A metà del pomeriggio il caos si era impadronito dalla città, ormai trasformata in campo di battaglia[5].

Per tutta la notte i reparti superstiti dell’81° Reggimento e della 131a Brigata rimasero isolati, asserragliati nei loro ricoveri di fortuna. Il Ministro Grachev venne richiamato precipitosamente mentre stava festeggiando il suo quarantasettesimo compleanno. Giunto alla base di Mozdok, si rese conto del pasticcio che aveva combinato: non soltanto i suoi gruppi d’assalto non avevano effettuato il blitz, ma erano addirittura finiti in trappola. Alle 6:00 del 1° gennaio la retroguardia della 131a Brigata tentò un’incursione per liberare i compagni assediati. Una colonna di una quarantina di veicoli tentò di raggiungere la stazione, ma l’intenso fuoco ceceno impose ai russi di muoversi ai margini del centro abitato, lungo Via Majakovskij, nel tentativo di intercettare i binari e procedere parallelamente a questi, tenendo almeno un fianco al coperto. Non appena giunta nei pressi della linea ferroviaria, tuttavia, la colonna fu bloccata dall’esplosione dei veicoli di testa. Il Colonnello Adrievski fece appena in tempo ad invertire la rotta, prima che anche la coda della colonna finisse distrutta. Decise così di tornare indietro e percorrere una delle strade secondarie che correvano parallelamente ai binari, sperando di riuscire a superare il fuoco che i ceceni gli stavano vomitando addosso dai tetti dei palazzi e dagli scantinati. Giunto con i resti della sua unità all’incrocio antistante il piazzale della stazione, il reparto cadde in una seconda imboscata, durante la quale una granata colpì il veicolo del Colonnello Andrievski, uccidendolo. Privi di un comandante, i suoi uomini si trovarono immobilizzati mentre i ceceni facevano saltare il carro in testa e quello in coda, e procedevano poi a distruggere tutte le unità intrappolate all’interno. La fanteria, rimasta senza protezione, fu sterminata. Soltanto due carri, i cui equipaggi erano riusciti a divincolarsi tra le carcasse degli altri veicoli, riuscirono ad uscire dall’imboscata sfrecciando a tutta velocità verso la stazione ferroviaria, dove i carristi si barricarono insieme ai commilitoni che avrebbero dovuto soccorrere. Un altro carro, che era riuscito a guadagnare un’uscita sul lato opposto, finì contro gli argini del Sunzha e si inabissò.

Il piano di recupero era fallito in tragedia, ed il comando russo ordinò un secondo tentativo. Un distaccamento della 19a Divisione Motorizzata, avanguardia del Gruppo d’Assalto Ovest, tentò di raggiungere la stazione nella tarda mattinata, ma non riuscì a prendere contatto né con la prima colonna di soccorso, ormai distrutta, né con i resti della 131a. Finalmente alle 13:00 del 1 gennaio il comandate della Brigata Ivan Savin ottenne il permesso di tentare una sortita, mentre un terzo gruppo di soccorso, composto da reparti della 106a e della 76a Divisione Paracadutisti (il resto del Gruppo d’Assalto Ovest) avrebbe tentato di rompere l’accerchiamento. L’azione, già difficilissima di per sé a causa dei più di 60 feriti che Savin avrebbe dovuto trasportare mentre tentava la fuga, fu resa più difficoltosa dal fatto che al pari di tutti gli altri ufficiali, Savin non possedeva mappe dettagliate del quartiere circostante la stazione. Nel giro di un’oretta i fuggiaschi si persero, sbagliarono direzione ed invece che muoversi verso il Gruppo Ovest si lanciarono a tutta velocità verso Nord, ritrovandosi di fronte al Palazzo Presidenziale e venendo accolti da una pioggia di proiettili. Morirono praticamente tutti gli ufficiali, Savin compreso, mentre 76 coscritti finirono nelle mani dei ceceni[6]. La 131a Brigata venne completamente distrutta: dopo 24 ore di combattimenti aveva perduto 20 carri armati su 26, 112 veicoli su 120, 6 cannoni semoventi e praticamente tutto il personale combattente. Fu un disastro senza precedenti, aggravato dal fatto che, mentre i Gruppi di Battaglia Nord e Nord-ovest erano almeno riusciti a penetrare in città, i gruppi Est ed Ovest non erano nemmeno riusciti ad entrare nel centro abitato.

Il Gruppo di Battaglia Est, composto da elementi della 194a Divisione Paracadutisti e dal 129° Reggimento Motorizzato, da un distaccamento di paracadutisti dei corpi speciali e da un battaglione di carri armati aveva raggiunto con successo la base di Khankala, e respinto la controffensiva cecena. Ma alla vigilia dell’attacco il comandante della 194a si rifiutò di partecipare, dichiarando che il piano non era stato adeguatamente preparato e che sarebbe finito in una carneficina. Così al momento dell’offensiva si mosse solo il 129°, appoggiato da una colonna di carri armati.  Anche questo contingente raggiunse con poche difficoltà il centro cittadino, ma all’altezza del ponte ferroviario sul Sunzha si trovò investito dal contrattacco degli uomini di Basayev. I russi persero buona parte dei loro veicoli tentando di trovare una strada alternativa e, non conoscendo il terreno di battaglia, passarono da un’imboscata all’altra senza riuscire a sganciarsi. Attestatisi in uno spiazzo, i superstiti organizzarono un perimetro difensivo, ma furono bombardati per errore dalla stessa aviazione federale, che mise fuori combattimento altri cinque veicoli ed aprì la strada al contrattacco degli indipendentisti. I russi si ritirarono alla rinfusa verso la base di Khankala, che raggiunsero soltanto alle 2 di notte del 1° gennaio, con i reparti ormai ridotti a brandelli. Nell’infruttuoso attacco erano caduti 150 uomini e la maggior parte dei veicoli era andata persa. Infine il Gruppo di Battaglia Ovest si mise in marcia in ritardo, riuscendo a raggiungere il quartiere residenziale con meno della metà degli effettivi e quando ormai gli altri tre gruppi erano stati bloccati e costretti a ritirarsi o ad asserragliarsi in posizioni di fortuna. Il Gruppo non riuscì a reggere il fuoco ceceno, e si dispose in posizione difensiva presso il Parco Lenin, tra il Palazzo Presidenziale e l’Ospedale dov’erano asserragliati i resti dell’81°. Nel giro di qualche ora fu chiaro che i reparti del Gruppo Ovest non avrebbero potuto muovere in nessuna direzione senza subire alte perdite.

L’unico Gruppo di Battaglia che riuscì a manovrare con compostezza fu il Nord – Est. Il suo comandante, il Tenente Generale Rochlin, fu l’unico che mantenne un ordine soddisfacente, avanzando senza fretta e preoccupandosi di mantenere sempre un contatto con le retrovie, senza ingolfare la testa della colonna e predisponendo coperture laterali per le sue unità. Fu grazie a lui se i reparti sbandati del Gruppo Nord, barricati nell’ospedale, riuscirono ad evitare la tremenda fine della 131a Brigata. Rochlin dispiegò i suoi reparti ad arco, assumendo corrette posizioni difensive e riuscendo a respingere l’attacco dei ceceni fino a tarda notte, costituendo una posizione d’appoggio dentro la città dalla quale poter fornire assistenza sia ai resti dell’81° arroccati nell’ospedale, sia agli altri reparti in ripiegamento che necessitavano di copertura. Fu solo grazie a lui se il fiasco dell’assalto di Capodanno non si tramutò in una completa disfatta. La resistenza degli uomini di Rochlin fu tuttavia facilitata dalla scelta, presumibilmente compiuta dallo stesso Generale, di barricare i suoi uomini nella struttura sanitaria, in quel momento piena di civili feriti e di personale medico, usandoli di fatto come scudi umani contro un possibile attacco ceceno. Si trattò di un crimine di guerra, nonché del primo di una serie di “sequestri ospedalieri” che avrebbero insanguinato la storia del conflitto ceceno[7]. Al “Blitz” parteciparono 6.000 uomini dell’esercito federale, appoggiati da 350 mezzi corazzati.  Alla fine della giornata risultavano persi dai 534 (fonti russe) ai 1000 (fonti cecene) soldati e 200 veicoli, 20 dei quali erano stati recuperati dai difensori. Nelle mani dei ceceni rimanevano anche 81 prigionieri. Era stata la più sanguinosa battaglia urbana dalla Seconda Guerra Mondiale, e per i russi era stata una disfatta.


[1] Riguardo a questo, va specificato che l’idea di assegnare due equipaggi allo stesso velivolo, avanzata dal Comandante delle Forze Aeree federali, Colonnello Generale Piotr Deneikin, sbatté spesso contro la carenza di equipaggi in grado di garantire il servizio. Ciò produsse spesso incidenti anche mortali, con la perdita di uomini e velivoli, cosicché alle prime sortite con doppio equipaggio seguirono presto sortite classiche, con un solo equipaggio affidato al singolo velivolo da bombardamento.

[2] Nonostante l’enorme esodo di profughi da Grozny il centro cittadino era ancora pieno di civili, per la maggior parte russi etnici che non erano riusciti a sfollare in tempo, o che non avevano trovato appoggi nei villaggi di campagna. I bombardamenti federali, concentrati principalmente sul centro cittadino, finirono quindi per colpire prima di tutto gli abitanti di origine russa.

[3] Ilyas Akhmadov, presente in quella posizione, mi ha raccontato con queste parole quanto successe alla Casa della Stampa: Tutto era sotto il tiro dell’artiglieria pesante. […] C’era un comandante, non ricordo il suo nome, ma ha chiesto se qualcuno volesse farsi avanti per aiutare il nostro cecchino a trovare il cecchino russo che stava colpendo la nostra posizione. Mi sono offerto volontario e sono salito al nono piano con un Kalashnikov preso in prestito per proteggere il nostro cecchino. Proprio quando siamo arrivati in cima ricordo che il terreno sotto i miei piedi tremava violentemente. L’artiglieria stava colpendo il pavimento sotto di noi. […] L’edificio era per lo più vuoto, ma ogni tanto un ceceno correva al secondo o al terzo piano e sparava ai veicoli russi. […]. Inoltre, l’edificio era al centro di molti combattimenti e offriva una vista vantaggiosa in tre direzioni. Questo è probabilmente il motivo per cui i russi hanno lavorato così furiosamente per distruggerlo.

[4] Poco prima che le truppe federali finissero sotto il tiro dei lanciagranate ceceni, fu registrata una conversazione destinata a diventare tristemente famosa negli anni a seguire.La sua trascrizione è l’incipit di questo capitolo.

[5] Emblematiche sono le parole di Ilyas Akhmadov, che rievocando quei momenti descrisse così la situazione: Intorno alle 16, i cinque combattenti con cui ero salito sul camion e il civile che ci accompagnava si avviarono verso il Palazzo Presidenziale a circa 1,5 miglia di distanza. Ma, con l’inferno intorno a noi, era una distanza molto lunga. Era difficile capire dove fossero russi e ceceni. Puoi immaginare com’è quando metti 100 cani affamati in una gabbia, era la stessa cosa. […] Era un circo pazzo. I carri armati correvano in ogni direzione, disorientati. […] In ogni strada, i ceceni sfrecciavano con i lanciagranate e quando sentivano i carri armati gli correvano incontro per distruggerli. Ho visto una volta due gruppi ceceni litigare a pugni su chi aveva eliminato un carro armato e chi meritava il bottino all’interno. Era difficile capire chi avesse distrutto questo o quel carro armato perché c’erano ragazzi che sparavano su di loro da molti piani diversi, da diversi edifici e direzioni.

[6] I federali riuscirono a recuperare i corpi dei caduti soltanto il 23 Gennaio successivo. I loro pietosi resti, divorati dai cani randagi, furono rinvenuti ormai ridotti a scheletri. Il corpo di Savin, colpito a morte, giaceva accanto a quello di un medico, freddato da un cecchino mentre gli prestava soccorso.

[7] Questa circostanza è importante da ricordare allorché parleremo dei più celebri sequestri di Budennovsk e di Kizlyar. Contrariamente a quanto conosciuto ai più, il primo sequestro di civili in un ospedale fu, quindi, portato a termine dalle forze federali. Citando il libro Tribunale Internazionale per la Cecenia di Stanislav Dmitrevsky, Bogdan Gvraeli e Oksana Chelysheva:  Così, durante l’assalto di Capodanno, in fuga dai membri delle formazioni armate cecene che difendevano la città, ufficiali e soldati dell’81° reggimento delle guardie hanno fatto irruzione nel territorio dell’ospedale di emergenza repubblicano e hanno preso in ostaggio i medici e i pazienti che si trovavano lì. Il comando ceceno ha avviato negoziati con loro, promettendo un corridoio sicuro in cambio del rilascio di civili. In quel frangente, secondo quanto riportato nella stessa opera, gli uomini di Rochlin si resero responsabili di un altro crimine di guerra: Il 3 gennaio 1995, subito dopo il primo assalto senza successo, un gruppo di residenti di Grozny fu catturato personalmente sotto la guida del generale Lev Rokhlin. Diverse persone sono state uccise, altre sono state caricate su veicoli e portate a Mozdok, dove sono state tenute in ostaggio in vagoni ferroviari. Alcuni di loro furono successivamente scambiati con soldati russi catturati in battaglia.

IBN AL – KHATTAB: MEMORIE DI UN TERRORISTA (PARTE 1)

Nel 2016 il blog di informazione https://arabskayavesna.wordpress.com/  ha pubblicato il testo integrale delle memorie di Sāmir Ṣālaḥ ʿAbd Allāh al-Suwaylim: “Memories of Amir Khattab: The Experience of the Arab Ansar in Cecenia, Afghanistan e Tagikistan”.Dai più conosciuto come Emir Al Khattab, è stato il più celebre “Comandante di Campo” della guerriglia cecena, mettendo in atto alcune delle più audaci azioni di guerra contro l’esercito russo, e rendendosi parimenti responsabile di alcuni tra i più odiosi atti terroristici che abbiano macchiato il suolo del Caucaso. Fervente islamista, fu tra i promotori della “svolta fondamentalista” della resistenza cecena, preparando centinaia di giovani combattenti al “martirio” e costituendo l’organizzazione alla base dell’autoproclamato “Emirato Islamico”. In questa sede pubblichiamo alcuni stralci dell’intervista. Chiariamo subito che il nostro intento non è quello di glorificare una figura di Al Khattab, di giustificarne le azioni o di supportare il radicalismo islamico (come specificato nella sezione “Mission” di questo blog). Nel nostro trattare l’argomento della Repubblica Cecena di Ichkeria non possiamo ignorare la voce di questa parte della “resistenza” che fu così fondamentale per l’evoluzione confessionale della ChRI. Per questo, e per nessun altro motivo, riportiamo alcuni stralci del libro di Ibn Al Khattab.

Copertina della versione inglese dell’autobiografia di Ibn Al – Khattab

            BIOGRAFIA DI IBN AL – KHATTAB

Nato ad Arar, in Arabia Saudita, nel 1969, Samir Salah Al – Suwaylim proveniva da una famiglia benestante, il che gli permise di affrontare con successo gli studi secondari. Fin dall’adolescenza si appassionò alle grandi figure dell’Islam, maturando una visione radicale dell’impegno religioso che lo portò, ancora diciassettenne, ad unirsi alle file degli arabi afghani nella guerra contro l’esercito sovietico. Durante la sua permanenza in Afghanistan Al Suwaylim combattè come gregario in formazioni di mijahudeen vicine al fondamentalismo islamico, guadagnandosi il nome di battaglia di Ibn Al – Khattab, ispirato al celebre Califfo Omar Ibn – Al Khattab, vissuto nel VII Secolo. Nell’incauto maneggiamento di esplosivi, il giovane perse quasi completamente l’uso della mano destra.

Tra il 1993 ed il 1995 Khattab combattè in Tajikistan, al fianco dell’opposizione islamica. Secondo una sua dichiarazione, combattè anche in Bosnia, al fianco delle milizie islamiche locali. Recatosi per la prima volta in Cecenia nel 1995, ed infiltratosi fingendosi giornalista, costituì un’unità combattente guidata da lui stesso e da alcuni suoi uomini fidati ma composta prevalentemente da daghestani e ceceni con la quale, tra il 1995 e il 1996, mise a segno numerose imboscate tra le quali quella più celebre presso  la gola di Yarish – Mardy, durante la quale distrusse completamente una colonna della Quarantasettesima divisione corazzata dell’esercito federale.

Alla fine della Prima Guerra Cecena Khattab rimase sul territorio della ChRI, dove gestì un campo di addestramento di Mujahideen e raccolse milioni di dollari in donazioni dalle organizzazioni islamiste di tutto il pianeta, ivi compresa Al Qaeda. Sotto la sua guida si formarono centinaia di jihadisti, con i quali Khattab mise a segno il 22 Dicembre 1997 un’incursione in Daghestan, presso la base militare di Buinaksk. L’attacco fu un fiasco, i jihadisti dovettero rientrare precipitosamente in Cecenia e lo stesso Khattab rimase ferito.

Nel 1998 fu tra i promotori del Majilis  – Ul – Shura dei Mujahideen Riuniti (Consiglio Consultivo dei Sacri Combattenti Riuniti) il cui terminale politico era il Congresso dei Popoli di Ichkeria e Daghestan, con lo scopo di iniziare un’insurrezione islamista nella repubblica vicina alla ChRI e scatenare una rivoluzione islamica in tutto il Caucaso. Braccio armato dell’organizzazione fu la Brigata Islamica per il Mantenimento della Pace, al cui comando fu posto l’amico e compagno d’armi Shamil Basayev. Nell’Agosto del 1999 le forze islamiste al comando di Basayev e Khattab tentarono un’invasione del Daghestan, venendo tuttavia respinti con gravi perdite. L’azione dette il via alla ritorsione armata della Federazione Russa, la quale invase in forze la Cecenia provocando la caduta del governo separatista e lo scoppio della Seconda Guerra Cecena. Secondo l’FSB (il servizio di sicurezza federale) Khattab avrebbe diretto o organizzato i tragici attentati terroristici ai quartieri residenziali di numerose città russe, provocando centinaia di morti e feriti.

Khattab in Afghanistan

Con lo scoppio della Seconda Guerra Cecena Khattab fu reintegrato nell’esercito separatista, occupandosi di armare, addestrare e condurre le Jamaats islamiche insediatesi nel paese al termine della prima guerra. In questa veste il leader arabo si occupò anche di far fluire alla resistenza lauti aiuti economici provenienti dalle associazioni islamiche di tutto il mondo. Divenuto uno dei terroristi più ricercati del pianeta, Khattab fu oggetto di un’accanita caccia all’uomo terminata il 20 Marzo 2002, quando l’FSB riuscì ad avvelenarlo facendogli recapitare una lettera avvelenata.

KHATTAB IN CECENIA

“Mentre ci stavamo preparando per l’anno successivo, iniziarono gli eventi in Cecenia. Ho guardato la TV: lo scontro contro i russi era condotto dal generale comunista Dzhokhar Dudaev, o almeno così lo immaginavamo. Credevamo fosse un conflitto tra comunisti, non vedevamo prospettive islamiche in Cecenia.  Un giorno tornai nelle retrovie per curare il mio braccio destro ferito. La’ un Mujahideen ceceno venne da me e si offrì di portarmi in Cecenia per una o due settimane. Guardammo la mappa della Cecenia. Era una piccola repubblica di 16.000 chilometri quadrati. Era persino difficile da trovare sulla mappa. Pensavo che la sua popolazione fosse di un migliaio di persone. Quindi iniziammo il nostro viaggio. C’era una sola strada per entrare in Cecenia. In quel momento la Russi aveva iniziato ad istituire posti di frontiera, ma riuscimmo ad aggirarli.

[…] Alcuni tra i miei fratelli avevano un’opinione diversa dalla mia. Dicevano: “Perché vai in Cecenia? Ti sei affezionato alle battaglie e per te non fa differenza con chi combattere?” E’ Haraam per te combattere con queste persone, Sufi con un leader comunista, un generale sovietico? Verserai il tuo sangue invano. […] Ho discusso con loro, dicendo […] “Se Allah ha predeterminato che faremo qualcosa, allora lo faremo. Siamo venuti qui per Allah, non per i comunisti. Non supporteremo loro. Stiamo lavorando per Allah e la nostra ricompensa è con lui, quindi siate pazienti. Entriamo e diamo un’occhiata alla situazione.” […]. Questo è stato l’inizio della mia storia in Cecenia.”

Khattab armato di un lanciarazzi

FORMARE UN ESERCITO

I combattimenti si avvinarono presto alla nostra zona. I giovani discutevano se si trattasse di una Jihad, i mullah sufi dichiaravano che non lo era, che si trattava di una resa dei conti tra Dzhokhar Dudaev ed i comunisti, e gli ipocriti gettavano benzina sul fuoco con i loro commessi. I burattini dei russi (l’opposizione antidudaevita, ndr.) dicevano che questo era un problema tra loro e Dudaev, e che noi non avremmo dovuto intervenire. […] Io non conoscevo veramente la situazione perché non l’avevo studiata. Avevo una videocamera ed ho iniziato a filmare le persone, chiedendo loro per cosa stessero combattendo. E’ così che ho conosciuto Shamil Basayev. Alcune persone pensavano che fossi un giornalista. Ho visto persone sincere e, giuro su Allah, ho pianto quando ho chiesto ad una donna anziana: “Per quanto tempo sopporterete queste difficoltà?” e lei ha risposto: “Vogliamo sbarazzarci dei russi”. Le ho chiesto “Per cosa combattete?” e lei ha risposto: “Vogliamo vivere come musulmani e non vogliamo vivere con i russi”. Allora le ho chiesto. “Cosa potete dare ai Mujahideen?” E lei: “Non ho che questa giacca addosso”. Ho pianto: se questa donna anziana può aiutare avendo solo questo, perché noi ci permettiamo di avere paura e dubbi? Da quel giorno decisi con i miei fratelli di iniziare a preparare le persone alla battaglia, come primo passo.

[…] Abbiamo iniziato a radunare i giovani e abbiamo preparato per loro una base di addestramento sulla montagne. Lo Sceicco Fathi (Al – Sistani, comandante del cosiddetto Battaglione Islamico, ndr.) mi ha dato una mappa ed abbiamo scelto il villaggio di Vedeno e la zona circostante. Dopo aver trovato un Campo dei Pionieri (istituzione giovanile del Partito Comunista sovietico, ndr.) abbandonato, abbiamo iniziato a radinarvi i giovani e abbiamo stabilito un programma di addestramento. Ricordo che al primo incontro c’erano più di 80 mujahideen che ora sono divenuti Emiri. Ricordo cosa dissi loro (e Fathi tradusse): “Se qualcuno di voi vuole essere Emir, allora deve offrire il suo programma di combattimento e noi gli ubbidiremo”. Nessuno disse nulla. In quei giorni la battaglia si stava avvicinando alle montagne. Quindi dissi loro: “Non vi sto dicendo che ho conoscenza. Ho solo esperienza di combattimento in Afghanistan e Tajikistan. Forse è il momento di mettersi al lavoro. Ho un programma scaglionato in tre fasi: preparazione, armamento e operazioni. Se non saremo davanti a voi in battaglia potrete spararci. Saremo davanti a voi dopo il corso. Dopo l’armamento, inizieremo ad implementare il programma di combattimento. Andremo sempre davanti a voi, io ed i fratelli che sono con me.”

L’INCONTRO CON DUDAEV

Ho incontrato Dudaev durante una visita allo Sceicco Fathi. […] Dzhokhar iniziò a fare domande. […] Chiese: “perché dalle tua parti non ci vengono ad aiutare?” Risposi: “La verità  che le ragioni della guerra non sono chiare, e le persone non sanno per cosa stiamo combattendo.” Lui mi disse: “Fratello […] questa è una terra islamica. Non è abbastanza per te?” Rimasi scioccato dal fatto che una frase di questo genere provenisse dalle labbra di un generale russo. […] Rimasi colpito da questa personalità dignitosa e forte. Mi sedetti accanto a loro (Dudaev e Al – Sistani, ndr.) e posi a Dudaev la prima domanda: “Qual è lo scopo della tua battaglia? Combatti per l’Islam?” Lui rispose: “Ogni figlio della Cecenia e del Caucaso, oppresso da decenni, sogna che un giorno l’Islam tornerà non solo nella sua terra natale, ma in tutto il Caucaso. E io sono uno di questi figli. Fui sopraffatto da una risposta così profonda. Dissi: “Va bene, i russi sono stati assenti pe tre anni, del 1991 alla fine del 1994. Perché non hai proclamato uno Stato Islamico e non hai risolto la questione in questi tre anni?” Lui disse: “Sapevamo che non appena ci fossimo allontanati dalla Russia, questa ci avrebbe attaccati il giorno successivo. Abbiamo cercato di ingannarli, mostrandoci come dei democratici che cercano di sbarazzarsi dell’inferno russo. Ma i russi sono molto maliziosi, e astuti; sapevano che eravamo sulla strada per la restaurazione dell’Islam, quindi iniziarono l’occupazione.”

Khattab e Basayev

Allora risposi: “Il mondo islamico non sa di questa guerra. Non hai nemmeno chiamato questo paese “Repubblica Islamica Cecena” in modo che le persone sapessero che hanno il dovere di aiutare. Il mondo islamico non sa nulla degli eventi in corso in Cecenia.” Lui disse: “[…] E’ un dovere. La guerra è iniziata qui in Ceceni,a e sai che questa è la terra dei musulmani, che è tuo dovere venire qui. Sei il primo giornalista musulmano a farmi queste domande, mentre sotto i bombardamenti i giornalisti della BBC, della CNN e dell’intero mondo occidentale si siedono in ginocchio davanti a noi per saperne di più sulla guerra. Chiedono per cosa combattiamo, qual è la situazione, se siamo musulmani o cristiani e ci pongono domande sorprendenti. E finora, guarda quanti musulmani ci sono tra i giornalisti! Nessuno è venuto qui per saperne di più, o per fare domande sulla guerra!”

ASLANBEK ABDULKHADZHIEV: biografia di “BIG ASLANBEK”

Nato a Germenchuck il 12/04/1962

Morto a Shali il 26/08/2002

Lavoratore stagionale, partecipò alla Rivoluzione Cecena, arruolandosi nella nascente Guardia Nazionale. Volontario in Abkhazia tra il 1992 e il 1993, militò nelle Brigate Internazionali della Confederazione dei Popoli dei Caucaso, diventando uomo di fiducia di Shamil Basayev.

Appuntato da Dudaev comandante militare del Distretto di Shali, combattè la I Guerra Cecena al comando di un distaccamento di grosse dimensioni, con il quale partecipò al Raid su Budennovsk (1995) e probabilmente anche al Raid su Klizyar, alla Battaglia del Primo Maggio ed al Raid su Grozny (1996). Uno dei principali comandanti sul campo durante l’Operazione Jihad, dopo la riconquista di Grozny fu comandante militare pro – tempore della città in qualità di Commissario Militare. Per i suoi meriti di guerra fu nominato Generale di Brigata e decorato con l’Onore della Nazione.

Eletto deputato alle elezioni parlamentari del Gennaio 1997, “Big Aslanbek” (nomignolo con il quale era uso distinguersi dal “collega” Generale di Brigata Aslanbek Ismailov, soprannominato “Little Aslanbek”) tentò di conquistare la presidenza dell’assemblea, ma fu superato dal candidato filogovernativo Ruslan Alikhadzhiev. Sostenitore del partito nazional – radicale, fu promotore della “Legge sulla lustrazione” con la quale si intendeva rimuovere dai pubblici uffici tutti coloro che avevano collaborato con il governo filo – russo durante la guerra. I ritardi nell’approvazione di questa legge furono all’origine delle sue dimissioni da deputato, nel 1998.

Presidente della società di stato Chechenkontrakt dal Giugno 1997, allo scoppio della II Guerra Cecena abbandonò gli incarichi civili e costituì un reparto di circa 80 uomini, con il quale combattè durante l’Assedio di Grozny (1999 – 2000) per poi abbandonare la città nel Gennaio 2000 e ripiegare nella gola dell’Argun. Passato alla lotta partigiana, combattè le truppe federali fino al 26/08/2002, quando venne intercettato a Shali e ucciso in uno scontro a fuoco.

Video commemorativo del Generale di Brigata Aslanbek Abdulkhadzhiev
Abdulkhadzhiev a Novogroznensky nel Gennaio del 1996
Abdulkhadzhiev come Commissario Militare di Grozny

per approfondire leggi “Libertà o Morte! Storia della Repubblica Cecena di Ichkeria”, acquistabile QUI)

“LA PRIMA BATTAGLIA PERDUTA”: 19/01/1995 – LA PRESA DEL SOVMIN

Tra il 10 ed il 19 Gennaio 1995 nel pieno della Battaglia per Grozny, le truppe federali lanciarono un violento assalto all’edificio dell’ex Consiglio dei Ministri dell’era sovietica, a quel tempo sede del Parlamento le forze separatiste difesero l’edificio per 9 giorni, combattendo piano per piano, stanza per stanza. La presa del “Sovmin” fu la prima vera “vittoria” dell’esercito federale, e portò al ritiro dei dudaeviti sulla sponda destra del Sunzha. Quì la battaglia sarebbe durata altri due mesi, prima che le unità agli ordini di Maskhadov si ritirasssero definitivamente dalla capitale.

IL SOVMIN

Costruito agli inizi del XX Secolo per ospitare il Grand Hotel della capitale, il SOVMIN era un elegante edificio di quattro piani che si ergeva nel pieno centro di Grozny. Dopo aver ospitato l’illustre struttura ricettiva, allo scoppio della Rivoluzione d’Ottobre fu occupato dai bolscevichi, i quali vi installarono il loro quartier generale. Da qui il comando locale dell’Armata Rossa diresse la difesa della città dagli assalti dell’Esercito Cosacco del Terek, tra l’Agosto e il Novembre 1918 (la cosiddetta “Battaglia dei cento giorni”. Con la vittoria dei rivoluzionari sulle armate bianche il palazzo fu trasformato nella sede del potere esecutivo locale, il Consiglio dei Ministri della neonata Repubblica Socialista Sovietica Autonoma Ceceno . Inguscia, assumendo il nome comune di “SovMin”.

Il SOVMIN in una foto del 1952

Nel Novembre del 1991, allo scoppio della Rivoluzione Cecena, il Parlamento appena uscito dalle elezioni popolari del 27 Ottobre si installò nella struttura, designandola come la sede permanente dell’assemblea. A quel tempo il quartiere amministrativo della città di era espanso, con la costruzione di numerosi edifici ministeriali e di polizia, oltre che del celebre “Palazzo Presidenziale” (in origine sede del Comitato Regionale del PCUS, il cosiddetto “Reskom”), ed il Parlamento si trovò così a pochi passi dal Palazzo dove aveva preso residenza il Presidente della Repubblica, Dzhokhar Dudaev.

L’ASSALTO A GROZNY

Il 11 Dicembre 1991 l’esercito federale entrò in Cecenia per porre fine all’indipendenza della repubblica, considerata un’organizzazione illegittima governata da bande armate illegali. L’esercito russo penetrò con difficoltà nel territorio ceceno, ed approcciò un attacco alla capitale secondo uno schema militare poco efficace, nella convinzione che il semplice “mostrare i muscoli” sarebbe stato sufficiente a far arrendere i secessionisti. L’attacco, svoltosi tra il 31 Dicembre 1991 ed il 1 Gennaio 1992 (il cosiddetto “Assalto di Capodanno”) fu un totale fiasco, e le forze federali dovettero procedere ad occupare la città combattendo casa per casa.

Uno dei cardini della difesa cecena nel quartiere centrale era proprio il Sovmin, che con la sua imponente struttura e la sua posizione a pochi passi dal Palazzo Presidenziale (fulcro del sistema difensivo separatista) era una posizione chiave per qualsiasi attacco che volesse respingere i separatisti oltre la riva destra del Sunzha. Le unità di Maskhadov (reparti della Guardia Presidenziale oltre ad elementi militarizzati del Servizio di Sicurezza di Stato ed altre milizie volontarie) erano asserragliate all’ultimo piano dell’edificio e nel seminterrato. Da queste due posizioni potevano agevolmente controllare l’avanzata dei reparti russi, tenere a distanza la fanteria e colpire i mezzi blindati che si avvicinavano alla piazza antistante l’edificio. I rifornimenti erano assicurati dal vicinissimo Quartier Generale dell’esercito separatista, situato nel seminterrato del Palazzo Presidenziale.

A sinistra il SOVMIN. Dietro a questo l’Istituto Petrolifero, dalla cui vetta era possibile tenere sotto tiro la sede del Parlamento.

I primi tentativi dell’esercito federale di raggiungere il Sovmin furono frustrati dalla rabbiosa reazione dei difensori, i quali riuscirono a tenere a distanza i reparti d’assalto russi fino dal 1° al 12 Gennaio. Nella notte tra il 12 ed il 13 un reparto di paracadutisti della 98a Divisione Aviostrasportata riuscì a raggiungere la base dell’edificio, dopo che l’artiglieria aveva martellato il piazzale antistante per tutta la giornata precedente, impedendo l’arrivo di rinforzi e munizioni alla guarnigione assediata. Alle 5:30 del mattino i paracadutisti riuscirono a penetrare nell’edificio, ma i separatisti reagirono con prontezza, riuscendo a bloccare l’assalto ed a procurare numerose perdite agli attaccanti, tra morti e feriti. Contemporaneamente i ceceni chiamavano a raccolta tutte le unità disponibili a difesa della posizione.

Dalla tarda mattinata del 13 Gennaio iniziarono ad affluire consistenti reparti corazzati a supporto dell’azione della fanteria, nel frattempo sostenuta dall’arrivo di reparti di fanteria di marina del 33° Reggimento. Le unità separatiste accorse in supporto ai difensori lanciarono violenti contrattacchi per tutto il giorno, e per buona parte di quello successivo, distruggendo numerosi veicoli blindati e martoriando le unità di fanteria con un costante tiro di mortaio. Gli scontri continuarono fino al 19 Gennaio, con i paracadutisti ed i fanti di marina russi asserragliati ai piani bassi dell’edificio ed i dudaeviti che ne controllavano i piani alti, mentre tutto introno i difensori tentavano di respingere gli attaccanti combattendo casa per casa. Lo scontro raggiunse livelli di violenza tali che a molti coscritti russi saltarono i nervi. Nel suo rapporto il Tenente Colonnello Victor Pavlov, vicecomandante del 33° Reggimento di fanti di marina scrive:

“… Il personale del gruppo d’assalto, che teneva la difesa al Consiglio dei ministri, dopo il raid della nostra aviazione e le perdite subite dalla nostra aviazione, si è rivolto al comandante del gruppo, il maggiore Cherevashenko, chiedendo di lasciare la posizione […]. Con enormi sforzi il maggiore Cherevashenko riuscì a impedirlo … I soldati giacevano negli scantinati del Consiglio dei ministri, non mangiavano né bevevano, si rifiutavano persino di portare fuori i loro compagni feriti. Ci sono stati casi di esaurimenti psicologici e capricci tra i soldati. Quindi, il soldato G … ha dichiarato che non poteva più tollerare una situazione del genere e ha minacciato di sparare a tutti. […].”

LA PRESA DEL PALAZZO

Anche nel campo ceceno, tuttavia, la situazione iniziava a degenerare, e gli imponenti bombardamenti di artiglieria federali, accompagnati ora da un preciso tiro con armi a corto raggio installate nei palazzi vicini ormai caduti nelle mani dei federali (l’Hotel Kavkaz, adiacente al Sovmin, l’Edificio dell’Istituto Petrolifero, la cui vetta dominava la piazza antistante il palazzo, e l’Ispettorato di Polizia Fiscale, sul lato est).

La foto mostra il centro di Grozny subito fopo la fine della battaglia. La freccia a sinistra indica il Palazzo Presidenziale, quella a destra le rovine del Sovmin.

Il 16 gennaio alle 5.20, quando il Consiglio dei Ministri era quasi completamente occupato dalle unità del raggruppamento del generale Rokhlin, Ruslan Gelayev (nominativo di chiamata Angel-1) parlò a Maskhadov (indicativo di chiamata Cyclone):

5.20 Angel-1 – Ciclone: “Ci sono dei codardi. Non sono andati alla Camera del Parlamento. Devono essere fucilati. “

Alle 5.45 Ciclone – Pantera: “Questa è la nostra prima battaglia persa” .

La sera del 18 Gennaio, quando ormai anche il Palazzo Presidenziale era in procinto di cadere e Maskhadov ne aveva già ordinato l’evacuazione, il grosso dei difensori si ritirò dai ruderi della struttura, ormai ridotta ad un cumulo di macerie. Una piccola retroguardia abbandonò l’edificio la mattina seguente, lasciando i mano russa un campo di battaglia crivellato di proiettili.

TUTTE LE REGOLE DELLA GUERRA SONO STATE CAPOVOLTE IN CECENIA! – INTERVISTA AD ASLAN MASKHADOV

Aslan Maskhadov fu Capo di Stato Maggiore dell’esercito ceceno dalla primavera del 1994 al Settembre del 1996, quando fu nominato capo del Governo Provvisorio post – bellico. Eletto Presidente della Repubblica nel Gennaio 1997, guidò la ChRI fino alla sua morte, nel 2005.

Durante la Prima Guerra Cecena fu l’ideatore delle strategie di difesa e di attacco per tutto il corso del conflitto: organizzò la difesa di Grozny nei primi mesi del ’95, la guerra di posizione fino al Maggio dello stesso anno, la guerra di movimento sulle montagne ed i due riusciti raid su Grozny, l’ultimo dei quali, passato alla storia come Operazione Jihad, condussero alla vittoria cecena ed agli Accordi di Khasavyurt.

Di seguito riportiamo un’intervista rilasciata da Maskhadov nel Giugno 1999 alla testata “Small Wars Journal”:

Aslan Maskhadov

IL FIASCO DI CAPODANNO

I russi non intrapresero una guerra correttamente, erano preparati soltanto a subire perdite enormi ed a distruggere tutto. Non valorizzavano i loro soldati, mentre noi consideravamo ognuno dei nostri uomini. Per esempio: la Battaglia di Grozny del 31 Dicembre 1994.  C’erano rumorosi e vanagloriosi annunci del Ministro della Difesa russo, Pavel Grachev, secondo i quali la città avrebbe potuto essere presa con un reggimento di forze speciali. I russi entrarono in Cecenia con circa 3 – 4 divisioni.  Erano posizionati nella valle di Dolinsky, a Tolstoy Yurt, ad Argun e ad Achkoy – Martan. Avevano truppe d’elite e commandos, reggimenti corazzati.

Il nostro primo problema fu quello di evitare la ritirata ed ingaggiare i russi in battaglia. La prima battaglia che combattemmo si svolse letteralmente alle porte del Palazzo Presidenziale. Il mio Quartier Generale era nel basamento del palazzo. La 131° Brigata Motorizzata, il 31° Reggimento Corazzato Samara ed altre unità furono in grado di entrare dentro Grozny senza opposizione. Non avevamo un esercito regolare che potesse opporsi alle forze russe, soltanto alcune piccole unità che cercavano di tenere varie posizioni nella città. I russi piombarono dentro Grozny sui loro APC e carri armati senza usare la fanteria, come fossero ad una parata. Circondarono il Palazzo Presidenziale, la città fu riempita di carri. Ero nel mio Quartier Generale, circondato dai carri russi. Decisi che avremmo dato battaglia. Detti il comando a tutte le piccole unità che avevamo in giro per la città di lasciare lo loro posizioni e di dirigersi al Palazzo Presidenziale. Loro non sapevano che ero circondato ma io sapevo che quando fossero arrivate avrebbero affrontato il nemico.

Video contenente filmati originali della Battaglia di Grozny. L’audio è in russo.

Le nostre unità iniziarono ad arrivare, videro le posizioni russe e la battaglia iniziò, i russi non se l’aspettavano. Erano seduti ai loro posti, molte delle loro truppe erano posizionate come in una parata intorno al Palazzo e sulla piazza di fronte alla stazione ferroviaria. I loro APC furono distrutti in meno di quattro ore. I russi fuggirono, cacciati, attraverso Grozny, inseguiti dalle nostre unità armate di lanciagranate, anche da ragazzi con bottiglie molotov. Questo durò per 3 giorni: tutte le apparecchiature russe, 400 tra carri e APC che entrarono a Grozny, furono distrutti. La città si riempì di cadaveri di soldati russi. Fu un tremendo successo.

LANCIAGRANATE CONTRO CARRI ARMATI

Una delle ragioni del nostro successo fu l’operazione del 26 Novembre, quando l’opposizione cecena attaccò la città con 50 veicoli corazzati. Gli ufficiali e gli equipaggi erano contractors russi. Raggiunsero il Palazzo Presidenziale, dove il primo carro fu distrutto. Dopo tre ore tutto l’equipaggiamento era in fiamme o catturato, inclusi 11 carri armati. Questa battaglia fu una sorta di prova. La gente perse il timore dei carri russi: erano semplici scatole di fiammiferi. Questo primo successo dette fiducia ai nostri uomini: il 31 Dicembre, quando vedevano un carro armato, consideravano un loro compito distruggerlo. In alcuni casi divenne una competizione: “lasciami questo carro, è mio”.

Quando tutti i mezzi russi furono distrutti intorno al Palazzo Presidenziale, la mia decisione successiva fu quella di difendere il Palazzo. Combattenti e volontari iniziarono arrivare dai quattro angoli della Cecenia. Li registrai e dissi loro “questa è una casa, avete 40 uomini, difendetela e non muovetevi da lì”. Così un poco alla volta venne organizzata la difesa intorno al Palazzo Presidenziale. La divisione commando del Generale Babichev, che stazionava nei pressi di Achkoy Martan si mosse lungo la cresta montuosa e si affacciò su Grozny, altre unità russe furono richiamate, la battaglia si accese intorno al Palazzo per ogni casa, ogni quartiere della città. Le nostre unità si comportarono bene, respinsero ogni attacco. I russi erano riluttanti ad usare la fanteria. Ebbi l’impressione che fossero impauriti, tutto quello che volevano era trincerarsi in posizione difensiva, nascondere i loro carri, ma era impossibile in queste condizioni: al contrario era più pericoloso. Così i carri e gli APC bruciarono ed i soldati perirono all’interno. Non ci fu nessun tentativo di difendere o coprire i carri, o di accompagnarli con la fanteria. Semplicemente loro avanzavano in massa, e come avanzavano venivano distrutti. Più tardi la battaglia si accese intorno all’edificio del Consiglio dei Ministri, all’Hotel Kavkaz, ed al vecchio Istituto Petrolifero, dove avevamo 12 combattenti. L’edificio fu circondato da carri armati, i quali iniziarono a sparare senza sosta. I miei uomini mi chiesero aiuto, ma non potevo provvedere a loro. “Allah vi aiuterà” dissi loro. Un’ora più tardi fecero fuori un carro, poi un altro. AI russi saltarono i nervi e si ritirarono. Fu così che combattemmo.

Miliziani combattono tra le carcasse di mezzi blindati russi messi fuori combattimento.

DAL PALAZZO PRESIDENZIALE A PIAZZA MINUTKA

Difendemmo il Palazzo per 18 giorni. Dopo un costante fuoco di mortaio rimase soltanto il guscio dell’edificio, tutti gli alberi di fronte al palazzo furono spazzati via. Vicino, nel quartiere dell’Archivio Nazionale, a 20 metri dal Palazzo, le unità Alfa e Beta tentarono di irrompere intorno al 5/6 Gennaio (1995). Occuparono l’edificio che si trovava all’angolo con il Palazzo Presidenziale. Mi aspettavo un attacco da quella direzione, e tenni le mie migliori unità su quel lato. Loro provarono molte volte ad irrompere ma non riuscirono a coordinare un attacco frontale completo. Poi intorno al 18 Gennaio l’aviazione russa lanciò bombe di profondità sul Palazzo Presidenziale. Tre bombe colpirono il basamento dove avevamo il nostro Quartier Generale – una colpì il corridoio, un altra l’infermeria, ed una porta sul retro. Fortunatamente il giorno precedente le donne ed i dottori erano stati evacuati, ed erano rimasti soltanto i soldati e la Guardia Presidenziale.

Rimanemmo con il cielo sopra le nostre teste e decidemmo di lasciare il Palazzo. Pianificai la ritirata nella notte, intorno alle 22. Tutti i nostri combattenti che erano circondati in città o che stazionavano più lontano in periferia dovettero ritirarsi per primi oltre il fiume Sunzha. Quelli che coprivano la ritirata e la Guardia Presidenziale furono gli ultimi ad andarsene, alle 23. Yandarbiev ed io ce ne andammo alle 22 in direzione del Sunzha. Avevamo 4 uomini con me. Basayev ci stava aspettando oltre il Sunzha, dove installammo un altro Quartier Generale. Tutti quelli che riuscirono a ritirarsi dalla città attraversarono il Sunzha: i russi ovviamente non se ne accorsero. Continuarono a bombardare il Palazzo Presidenziale per tre giorni, chiaramente non intenzionati ad avanzare le loro truppe.

Militari russi attraversano le rovine di Piazza Minutka

La decisione successiva fu quella di mettere tutte le truppe disponibili lungo una linea di difesa sul Sunzha. Mentre i russi ancora bombardavano il Palazzo, prendemmo rapidamente posizione e costruimmo difese su ogni ponte sul Sunzha che divide la città in due. Potevamo assegnare soltanto 5 o 10 uomini ad ogni ponte. Installai il mio Quartier Generale nell’ospedale cittadino numero 21. Rafforzammo le nostre posizioni con nuove truppe fresche appena arrivate. Riuscimmo a tenere la posizione per un altro mese, con attacchi e ritirate, attacchi e ritirate. Dall’altra parte del Sunzha i russi rasero al suolo ogni edificio, ma non portarono i loro carri oltre i ponti per via delle nostre difese. Alla fine  riuscirono ad aprirsi una breccia alla stazione dei tram, attaccandoci da dietro. Eravamo virtualmente accerchiati. Fu in quel momento che decisi, contro ogni logica militare, di contrattaccare […] costringemmo i carri a ritirarsi. Come fu possibile? I nostri uomini non sapevano come scavare trincee, lo consideravano umiliante, ma non c’era scelta – le case erano troppo piccole e fragili, non avrebbero retto ad un attacco corazzato. Così costituimmo una linea tra il Sunzha e (Piazza) Minutka, scavammo trincee, e con circa 40/50 uomini avanzammo metro per metro, scavando ancora trincee finché non ci trascinavamo vicino ai carri e li bruciavamo. Li pressavamo finché non si ritiravano, poi scavavamo ancora e avanzavamo. Era una guerra di trincea altamente non convenzionale!

Nel frattempo nuovi sviluppi pericolosi stavano avvenendo nella direzione del Ponte Voykovo (un ponte sospeso). I carri lungo il fiume stavano coprendo la fanteria che tentava di passare il ponte. I russi avanzarono fino a 200 metri dal mio Quartier Generale. Lanciai tutte le forze disponibili contro di loro ma non riuscii a fermare l’offensiva. Avevano già raggiunto Piazza Minutka. Decidemmo di muovere il Quartier Generale indietro e di abbandonare le nostre posizioni sul Sunzha. La ritirata fu organizzata nella stessa maniera in cui era stata messa in atto la ritirata dal Palazzo Presidenzale – ogni unità sapeva in quale ordine ed a quale ora ritirarsi. La nostra retroguardia era nel 12° distretto, comandata da Shamil Basayev. Alle 18 ci eravamo tutti ritirati alla nostra terza linea di difesa nel 30° e nel 56° distretto lungo la cresta montuosa.

I resti del quartiere governativo di Grozny, Febbraio 1995

DA SHALI A VEDENO

Quanto tenevamo Grozny vivevamo una sensazione di euforia. Invece temevamo che se avessimo abbandonato la città saremmo stati vulnerabili nelle pianure. Non avevamo unità corazzate e non potevamo sopravvivere lì. Qualunque cosa fosse successo sarebbe stato più facile combattere in città, così combattemmo casa per casa. Tenemmo duro per circa due settimane. Ci lasciai Shamil Basayev e spostai il mio comando a Shali, posizionando le difese lungo il fiume Argun. Vi portammo tutto quello che avevamo, qualche carro e qualche cannone. Tenemmo ancora per un po’, poi dovemmo abbandonare Shali ed Argun, non volevamo combattere la come avevamo fatto a Grozny, avremmo condannato quelle città. Quando i russi attraversarono l’Argun ci ritirammo sulle montagne. Sapere che avevamo le montagne dietro di noi ci dette una certa sicurezza. Non difendemmo i villaggi tra Shali e le montagne per evitare distruzioni inutili. Le montagne erano la nostra ultima speranza. Organizzammo le nostre difese a Serzhen Yurt, Bamut, Agishty, lungo le gole delle montagne. Tenemmo duro per un paio di mesi perché i russi non erano intenzionati a muovere un’offensiva nel sud, anche se i bombardamenti aerei continuarono per tutto il tempo.  

Nel Maggio 1995 dovemmo ritirarci da Vedeno. Fu lì che fummo traditi. Stavamo tenendo le cime sopra il Canyon Vashtary – è una gola così stretta che due uomini con i lanciagranate avrebbero potuto fermare un’intera divisione. Avevo cento uomini ed ero sicuro al cento per cento che i carri non sarebbero passati quando, improvvisamente, 400 carri mossero su Mekhketi alle nostre spalle. Questa fu la situazione più difficile che affrontammo durante la guerra. Non potevamo capire come questo potesse essere successo. Ancora non conosciamo com’è andata quel giorno. Fummo costretti ad abbandonare Vedeno.

Soldati delle forze armate della ChRI si sfidano in un torneo sportivo a Vedeno, poco prima che la città venga occupata dai russi. A fare da arbitro Shamil Basayev,

BUDENNOVSK E IL NUOVO CORSO DELLA GUERRA

Budennovsk fu seguita da negoziati per un cessate – il – fuoco che ci dette un po’ di respiro. L’accordo per il cessate – il – fuoco fu un moderato successo, anche se Dudaev non ne fu soddisfatto. I russi avevano tentato di marginalizzare la resistenza spingendola sulle montagne. Tuttavia insistei durante i negoziati affinché fosse istituita una forza di “autodifesa” di 20/30 uomini in ogni villaggio, città o insediamento in Cecenia. Il Generale Kulikov fu d’accordo. Tre mesi più tardi, quando divenne ovvio che il cessate – il – fuoco stava venendo violato, si lamentò con me: “non vi abbiamo disarmato, ma riarmato!”. Prima avevo cinque, seimila combattenti. Con le unità di autodifesa portai i membri delle nostre forze armate a dieci, dodicimila. Ma la cosa più importante era che ancora una volta eravamo padroni nelle nostre città e villaggi. I villaggi più piccoli fornivano compagnie, i più grandi battaglioni e reggimenti, ogni distretto aveva i suoi comandanti, i nostri numeri crescevano. Così tutto quello che i russi avevano precedentemente conquistato era andato perduto per loro.

Dopo l’attentato dinamitardo al Generale Romanov i combattimenti ripresero. I russi lanciarono un’offensiva politica con la pretesa di disarmare e pacificare i villaggi, e di installare un’amministrazione – fantoccio. Come ci riuscirono? Per esempio nel caso di Gerzel, circondarono il villaggio con 400 carri armati. Avevamo soltanto 30 combattenti nel villaggio. Il nostro ordine fu che questi non difendessero il villaggio ma vi si nascondessero dentro. Se i russi fossero entrati nel villaggio loro avrebbero dovuto distruggere quanti più carri ed APC avessero potuto, per poi ritirarsi. I russi dettero un ultimatum. Generalmente non si arrischiavano ad entrare nel villaggio quando sapevano che c’erano dei combattenti al suo interno, ma si mantenevano alla periferia. Poi uno o due dei loro uomini della milizia apparivano e facevano delle fotografie, fingendo che si stessero svolgendo negoziati per il disarmo del paese. Questi scenari vennero ripetuti in molti posti.

Aslan Maskhadov e Shamil Basayev

Decidemmo di contrattaccare a Novogroznensky nel Dicembre del 1995. Combattemmo la per una settimana. All’inizio la nostra tattica fu quella di ingaggiare i russi, poi ritirarsi e prendere posizione tra i villaggi e lungo le strade, colpirli lungo le vie di comunicazione, poi attaccare di nuovo le posizioni russe nelle città, e ancora ritirarci. Più tardi lanciammo operazioni di commando per tagliare le linee di comunicazione.  Nella primavera del 1996 fummo ancora una volta spinti verso sud nelle montagne. I russi occuparono Dargo, Benoy, Shatoy, Bamut. Dovemmo ritirarci fino ad Itum Khale. Più tardi iniziarono i negoziati di Nazran, nei quali entrambe le parti si accordarono per interrompere le azioni militari. Tuttavia i russi non avevano intenzione di rispettare questi accordi. Quando tornai da Nazran con la mia delegazione, fummo attaccati tre volte sulla strada principale. Praticamente tutte le strade erano minate, fu un miracolo se riuscimmo a tornare indietro vivi.

Il 9 Giugno ci incontrammo nel Quartier Generale di Mechkey con un rappresentante di Lebed (Kharlamov). Dopo l’incontro ci furono pesanti attacchi aerei su tutte le mie basi. Unità di commando vennero trasportati via elicottero ed occuparono le creste montuose. Fu un ultimo disperato tentativo da parte dei russi di prendere l’iniziativa. Eravamo circondati, schiacciati contro le montagne sotto il fuoco dell’artiglieria e dell’aereonautica. Riuscii ad attraversare i passi di montagna a piedi ed a ritirarmi attraverso Uluskert. Shamil Basayev sfondò attraverso Sharoy. Attraversammo il fiume Argun, superammo Dasho Borzoy e raggiungemmo Nizhny Atagi. Sfuggimmo per miracolo. A quel punto fu chiaro che non ci sarebbe stata pace, che tutto stava ricominciando di nuovo. Fu allora che prendemmo la decisione di riprendere Grozny.

Maskhadov esorta i suoi sostenitori, Luglio 1995

OPERAZIONE JIHAD

Avevamo iniziato a preparare questa operazione sei mesi prima. Avevo sempre pensato che la guerra sarebbe finita con la riconquista di Grozny. Avevo pensato a questo continuamente, fatto alcune prove radio, provocando gli ufficiali russi. Studiavo sulle mappe la posizione di ogni unità russa, gli accessi, quali rotte avrebbero dovuto seguire i comandanti, eccetera. Avevo tutto pronto. Organizzammo un incontro con i nostri comandanti, i quali ci fecero i loro rapporti, condivisero le informazioni, e fecero ricognizioni lungo i percorsi. Conoscevamo le posizioni dei russi a Grozny, i loro numeri, dove si trovavano i blocchi stradali. Il 3 Agosto 1996 detti l’ordine di muovere sulla città. In quel momento i russi erano ovunque, anche a Dargo. Ci muovemmo attraverso le loro posizioni da tutte le direzioni, anche da oltre il Terek. Intendevamo entrare a Grozny il 5 Agosto. Incredibilmente quel giorno i media russi annunciarono che i ceceni sarebbero entrati a Grozny. Ero impensierito perché c’erano due aree nel 56° Distretto di Grozny dove era facile prendere in un’imboscata le nostre truppe, ma era troppo tardi per fermare l’attacco. 820 uomini presero parte all’operazione. Detti ordine che ogni comandante guidasse i suoi uomini, sia che avesse con sé 20 combattenti sia che ne avesse 200. Avrebbero dovuto essere in prima linea. Lo considerai la cosa più importante. Se fossero morti, saremmo morti tutti.

L’attacco iniziò alle 5 di mattina del 6 Agosto. Tutti i nostri obiettivi furono centrati. Fu un successo. I nostri uomini entrarono in città attraverso diverse rotte per raggiungere i loro obiettivi )presidi, basi, commissariati, la guarnigione di Khankala)  e li presero di sorpresa, poi proseguirono tagliando le rotte e facendo si che nessuno le attraversasse, disponendo qualche cecchino ed un mitragliere. Ogni unità sapeva precisamente in quale sezione avrebbe dovuto operare. In pochissimo tempo tutte le strade furono bloccate fino all’aeroporto di Severny ed i russi furono immobilizzati. Quando le colonne russe tentarono di penetrare in città dall’esterno era troppo tardi. Tutte le basi erano state catturate o disarmate. Non riuscimmo a prendere il palazzo del governo e quello del Ministero degli Interni, e decidemmo di distruggerli. Il giorno successivo apparve Lebed, inaspettatamente, alle 2 di mattina, a Starye Atagi. Offrì l’apertura di un negoziato. […] Mi disse: “Se lasciate la città vi do la mia parola di ufficiale che presto non ci sarà un solo soldato russo sul suolo ceceno.” La mia risposta fu “non lascerò mai la città, è inutile, anche se volessi farlo non sarei autorizzato a farlo – parliamo in un altro modo”. Suggerii lui che i russi avrebbero potuto ritirare le loro truppe dalle montagne alle pianure. Per ogni reggimento che avessero ritirato io avrei ritirato una delle mie unità, ed avremmo potuto stabilire una commissione militare congiunta. Lui non poteva essere d’accordo: “Il presidente mi ha affidato un compito”. Ci lasciò, nel panico. A questo seguì l’ultimatum di Pulikovsky: avremmo dovuto ritirarci o lui avrebbe raso al suolo la città. Fu probabilmente un’iniziativa di Lebed.  Poi mi incontrai con Pulikovsky (venne ad Atagi). Era in uno stato terribile, molto nervoso. “Che cosa avete fatto, ci sono donne e bambini a Grozny, come avete potuto fare una cosa così terribile?” Ci confrontammo per due ore. Gli dissi che era lui l’aggressore, che era entrato nella mia capitale con la sua armata, e che io la stavo liberando dai barbari russi. Questa discussione andò avanti per 30 minuti. Lui capì, alla fine. Gli ripetei che non ci saremmo mossi da Grozny. La conversazione era surreale: Pulikovsky era sconvolto dal fatto che non intendessi ubbidire agli ordini del Presidente russo. Io gli feci notare che se fossi stato disposto ad ubbidire agli ordini di Eltsin non ci sarebbe stata la guerra. Ci lasciammo senza aver raggiunto un accordo. Quando il termine dell’ultimatum scadde riapparve Lebed, dichiarando che “i ragazzi hanno fatto una dichiarazione avventata, senza essersi consultati con le alte autorità, ecc.” Pulikovskoy fu rimpiazzato da Tikhomirov.  Lebed accondiscese alle nostre condizioni. Firmammo un cessate – il – fuoco. I russi iniziarono a ritirare le loro truppe dalle montagne, Shatoy, Benoy. Poi scegliemmo i distretti cittadini dai quali avrebbero dovuto ritirarsi. Istituimmo una commissione congiunta. Lebed commentò: “La città è vostra, se una commissione ha soltanto due ceceni, è sufficiente per essere nelle vostre mani”. Lo rassicurai: “Non preoccuparti, darò ordine ai miei uomini di non bullizzare i suoi soldati”.

Miliziani separatisti caricano le loro armi, Grozny, 1996

LEZIONI DI GUERRA

Lo spirito è il fattore più importante. Per esempio: come comandante delle unità di resistenza, dico ai miei uomini: “restate in questa casa e non muovetevi”. Loro considerano umiliante rimanere semplicemente seduti ad aspettare. Dopo due o tre giorni non rimarrebbero ancora a lungo, farebbero automaticamente una sortita, proverebbero a distruggere qualcosa. Successivamente mi spiegherebbero la loro tattica militare. Io risponderei: la Russia ha migliaia e migliaia di carri. Il fatto che avete bruciato 10 APC non farà alcuna impressione. Inoltre è l’unico esercito che non conta la sue vittime. Per questo vi prego, rimanete nelle vostre posizioni per tutto il tempo che vi ordino. Se ve ne andate almeno fatemelo sapere”. In ogni caso era difficile tenerli sulle loro posizioni per più di 3 giorni – erano iperattivi! Ogni ceceno è un generale, uno stratega ed un tattico, ognuno ha un piano per sconfiggere la Russia! Per questo dovevo lasciare una certa libertà di iniziativa. Questa fu la premessa del nostro successo. Fu grazie alla mentalità ed al carattere della nostra gente.

C’era anche il fattore religioso. Come militare conoscevo le capacità dell’esercito russo. Quando una colonna russa avanzava e non ti erano rimaste munizioni adeguate e stavi aspettando che si muovessero di 200 o 300 metri per distruggerli, e questo ti riusciva – questi erano miracoli. Fu in quel momento che il fattore religioso iniziò ad avere gioco. Cominciavi a credere che il destino fosse nelle mani di Dio. Ricordo di essermi sentito così a Vedeno, nel Maggio 1995, quando i bombardieri russi arrivavano come uno sciame di mosche. Anche ad Argun, dove avevo il mio Quartier Generale: alcuni anziani vennero per lamentarsi dei bombardamenti intorno ai loro villaggi. Ero furioso e mi rifiutai di riceverli nel mio Quartier Generale. Uscii fuori dal mio seminterrato, c’era una Zhiguli, aprii la portiera e due missili caddero a dieci metri di distanza. Gli uomini furono fatti a pezzi ma io non ricevetti nemmeno un graffio.  Ci furono molte altre situazioni nelle quali sopravvissi miracolosamente, cacciato dagli aerei da caccia […].

Sostenitore dell’indipendenza sventola la bandiera della ChRI ad una manifestazione a favore del ritiro delle truppe federali. Grozny, primavera del 1996.

C’era un altro fattore. Gli analisti affermavano che avevamo cinquemila/diecimila combattenti, ma noi sapevamo che era importante mostrare che tutta la nazione stesse combattendo. Mancavamo di tutto, ma ogni casa era un rifugio. In ogni luogo eravamo rifocillati e potevamo riposarci. Ovviamente era pericoloso per le persone, ma nessuno si rifiutò di darci rifugio. Ogni proprietario di casa aveva della riserve. I ceceni sono ricchi perché hanno sempre riserve, non vivono alla giornata. Chiedemmo alle persone di tenere dimostrazioni, bloccare la strade, eccetera. Questa era la lotta di tutta la nazione.

Il resto era irrilevante. Sono stato spesso criticato e consigliato che avremmo dovuto passare alla guerra partigiana. Dudaev consigliò delle tattiche “afghane” “attacca e fuggi”. Queste erano le tattiche dei volontari stranieri. Ero contrario perché in un piccolo territorio come il nostro se avessimo usato tali tattiche saremmo stati spinti in profondità sulle montagne in meno di una settimana. Durante tutta la guerra tenemmo una linea di difesa, nella città come nelle montagne avevamo un territorio nel quale ritirarsi. All’inizio le nostre tattiche erano puramente difensive, poi passammo a manovre offensive, più tardi a tattiche di commando ed alla guerra sulle linee di comunicazione.  Non sono mai stato entusiasta riguardo a raid come quelli su Budennovsk o Pervomaskoye (Klizyar, ndr). Dovevamo combattere con onore, per mostrare non soltanto il coraggio ma anche le qualità del nostro popolo. Le leggi di guerra dovevano essere seguite nonostante i nostri piccoli numeri

Volevo mostrare la superiorità del nostro codice d’onore al pari delle nostre abilità militari. Penso che ci riuscii. Non approvai operazioni come quella di Pervomaikoye (di nuovo, Klyziar, ndr) – sapevo che l vittoria sarebbe stata nostra in ogni caso. Budennovsk fu più importante: costrinse i russi al tavolo dei negoziati. Fu la prima volta che la gente in Russia si rese conto che c’era una guerra. Era molto importante psicologicamente – i russi non potevano credere che i civili potessero essere uccisi alla luce del giorno in “tempo di pace”. Che tipo di pace era questa? Loro non credevano che ci fosse la guerra. Era importante dimostrare che le persone potevano essere uccise anche in Russia. Budennovsk aprì gli occhi al russo medio.

A Vedeno giunse un gruppo di 30 madri, parlai con loro, le rassicurai quando un massiccio attacco aereo ci colpì. Ero arrabbiato, mentre ero gentile con queste donne che avevano mandato i loro figli ad uccidere i miei fratelli, questi barbari ci colpirono. Le madri capirono che ero furioso e se ne andarono. Fino ad allora non avevano preso sul serio la guerra, anche se volevano proteggere i loro figli.

Aslan Maskkhadov ed Alexander Lebed firmano i protocolli di Khasavyurt

EDUCAZIONE MILITARE

Come ufficiale ceceno, dovevo ri – regolare tutti i concetti, diventare professionale in un altro modo. Tutti gli uomini erano volontari, non potevo neanche dar loro un fucile mitragliatore o una pistola. Ognuno aveva la sua idea riguardo la tattica, come dicevo prima. Era impossibile dar loro ordini, era necessaria più diplomazia. Quando gli uomini mi spiegavano come combattere, dovevo ascoltarli diplomaticamente per 30 minuti, far loro i complimenti, poi imporre il mio volere. Era un approccio differente rispetto all’esercito russo.

Ti darò un esempio: un giorno Dzhokhar venne da me al Quartier Generale. I comandanti si raggrupparono e lo attaccarono: “che tipo di guerra è questa? Non abbiamo niente!” Lui li guardò e disse loro “Dunque, che cosa posso darvi se non abbiamo niente?” Mi sentii veramente dispiaciuto per lui. Lui si alzò e disse: “Vi ho ordinato di combattere? Siete venuti di vostra spontanea volontà. State combattendo per Allah” e se ne andò. Se avesse promesso qualcosa sarebbe stato più difficile. Sapevamo di non avere nulla, sapevamo che non potevamo aspettarci alcun aiuto nonostante il mondo esterno parlasse di mercenari stranieri, arabi, “tuniche bianche”, afghani. Ma ce n’erano così pochi di questi, qualche dozzina al massimo. Le armi che riuscivamo ad ottenere dall’esterno erano poche quasi nessuna. Le migliori risorse erano i magazzini di rifornimento russi.

I nostri uomini divennero ingegneri piuttosto esperti sapevano come costruire le loro difese. Il tiro dei GRAD non li impressionava più di tanto e la fanteria russa non aveva il morale per combattere. I Russi circondarono Pervomaiskoye con un triplo anello e pensavano che non ci fosse bisogno di un attacco di fanteria. Spostai il mio Quartier Generale a Novogroznensky e portai tutti i miei rifornimenti. Da lì facemmo una diversione in direzione di Sovenskoye per aiutare gli uomini a Pervomaiskoye, e richiamammo il fuoco dell’anello esterno su di noi. A quel punto aprimmo uno stretto corridoio dall’altra parte, lungo il Terek, dal lato del distretto di Shelkovsky, mentre i russi pensavano che avremmo tentato di salvarli da Sovetskoye.  Loro si portarono dietro tutti gli ostaggi ed i prigionIeri.  Se i miei uomini fossero stati russi avrebbero spinto i prigionieri in avanti sul campo minato, ma al contrario loro stavano guidando la sortita. Tre o quattro ostaggi perirono. Noi perdemmo 90 uomini. L’operazione fu un errore, loro furono ingannati muovendosi verso Pervomaiskoye. Avrebbero dovuto rimanere a Klizyar.

Aslan Maskhadov ad altri alti funzionari della ChRI (Abusupyan Mosvaev alla sua destra, Akhmed Zakayev dietro col cappello nero) pregano di fronte alle rovine del Palazzo Presidenziale

“PALAZZO DUDAEV” – IL PALAZZO PRESIDENZIALE DI GROZNY

Costruito per ospitare le alte gerarchie del Partito Comunista, l’imponente edificio divenne il cuore pulsante del separatismo ceceno ed il suo principale simbolo politico. Nelle sue stanze si affaccendarono i funzionari della giovane repubblica indipendente, i ministri dei governi presieduti da Dudaev e gli ufficiali dello Stato Maggiore dell’esercito, durante i terribili giorni dell’Assalto di Capodanno. Per conquistarlo l’esercito russo impiegò tutte le sue forze, nella convinzione che se questo fosse caduto i separatisti avrebbero perso ogni speranza. La sua conquista richiese diciannove giorni di combattimenti casa per casa. Devastato e saccheggiato durante la Prima Guerra Cecena, fu demolito nel 1996 e mai più ricostruito.

IL RESKOM

Con il ritorno dei ceceni e degli ingusci dalla deportazione del 1944, i nuovi leaders della Ceceno –  Inguscezia vararono  un ambizioso piano urbanistico nella città di Grozny, per accogliere le centinaia di migliaia di ex – esiliati che stavano rientrando nel paese. Il fulcro di questo progetto edilizio fu il Palazzo del Partito Comunista, chiamato in acronimo Reskom: per realizzarlo venne reclutato un ream di architetti ed ingegneri moldavi. Agli inizi degli anni ’80 l’edificio venne portato a termine: si trattava di una gigantesca struttura di 11 piani (9 fuori terra e 2 interrati) atti ad ospitare uffici, comitati, assemblee direttive ma anche centri di controllo, stazioni per la telecomunicazione e magazzini. Il Palazzo fu pensato per essere non soltanto un monumento al Socialismo, ma anche come una “fortezza di cemento” in grado di resistere a terremoti ed altre sollecitazioni naturali, e perfino a bombardamenti aerei e di artiglieria.

Il Reskom in una foto di fine anni ’80

Il Reskom sorse alla convergenza delle due principali arterie cittadine, il Viale della Vittoria, che proveniva da Nord (oggi Viale Putin), e il Viale Lenin, che dai sobborghi meridionali della città raggiungeva il Sunzha (oggi Viale Kadyrov). Due linee rette che, incontrandosi proprio davanti alla grande fontana del Palazzo, tagliavano in due la capitale ceceno – inguscia. Il Palazzo del PCUS avrebbe rappresentato quindi sia il fulcro politico che il centro geografico della città e, considerato che Grozny si trova pressappoco al centro della Cecenia, il Reskom sarebbe diventato il centro dell’intero Paese. Intorno ad esso si sviluppava tutto il quartiere governativo: nei pressi dell’imponente edificio trovavano posto il Sovmin (la sede del Consiglio dei Ministri sovietico), l’edificio del KGB, l’Hotel Kavkaz (deputato ad ospitare le alte personalità che si trovavano a soggiornare nel paese) l’Istituto Petrolifero di Grozny (la principale istituzione professionale della Cecenia) ma anche la sede della Radio TV di Stato, il Ministero della Stampa, la Casa della Cultura e via dicendo.

(lo Slideshow mostra alcuni degli edifici pubblici del quartiere governativo di Grozny: la Casa dei Pionieri in Piazza Lenin (1) l’Hotel Kavkaz (2) il Palazzo del KGB (3) il Ministero della Stampa (4) ed il Sovmin, divenuto sede del Parlamento dal Novembre 1991 (5)

IL PALAZZO PRESIDENZIALE

Quando i secessionisti presero il potere nel Novembre 1991 il Reskom fu ribattezzato “Palazzo Presidenziale”. Dudaev prese posto in un grande ufficio all’ottavo piano della struttura, mentre il Gabinetto dei Ministri fu sistemato al secondo piano.  Al posto della bandiera della Repubblica Socialista fu fatto sventolare un grande drappo verde con lo stemma “Lupo – cerchiato” della Cecenia indipendente.  Tra il 1992 ed il 1994 questo palazzo fu il centro del potere politico della ChRI, ed il simbolo stesso dell’indipendenza cecena: lungo il largo viale davanti al Palazzo Dudaev organizzò numerose manifestazioni pubbliche, tra le quali le celebri parate militari per l’anniversario dell’indipendenza e le sfilate del 23 febbraio, anniversario della deportazione del 1944.  Un disegno del palazzo finì addirittura sul fronte della banconota da 50 Nahar, la moneta nazionale predisposta alla fine del 1994 e mai entrata in circolazione a causa dello scoppio della guerra.

Non è un caso, quindi, che sia gli oppositori di Dudaev sia i russi identificassero il Palazzo Presidenziale come il cuore del potere in Cecenia. Durante la guerra civile dell’Estate 1994 i piani di attacco delle forze del Consiglio Provvisorio si concentrarono sull’unico fondamentale obiettivo di far convergere quante più truppe possibile sul Palazzo Presidenziale, occuparlo ed installarvi un governo di salvezza nazionale che riportasse la Cecenia nella Federazione Russa. Quando il 26 Novembre 1994 Gantamirov, Avturkhanov e Labazanov tentarono di prendere Grozny e di rovesciare Dudaev col supporto della Russia, il piano che elaborarono rispecchiò questa convinzione: tutti i reparti avrebbero dovuto dirigersi verso il Palazzo Presidenziale e limitarsi a sorvegliare le vie d’uscita dalla città: una volta che questo fosse caduto per i dudaeviti non ci sarebbe stato scampo.  In questo approccio c’era tutta l’ingenuità dell’opposizione antidudaevita, convinta di stare lottando contro un regime impopolare arroccato dentro i palazzi del potere. Dudaev rispose con efficacia a questa falsa idea, lasciando che i ribelli arrivassero quasi indisturbati al Palazzo per poi ingaggiarli da tutte le direzioni, mobilitando centinaia di volontari e costringendo le forze del Consiglio Provvisorio ad una precipitosa fuga.

Miliziani dudaeviti pregano prima della battaglia. Sullo sfondo il Palazzo Presidenziale ancora intatto

ASSALTO AL PALAZZO

Stessa errata valutazione fu compiuta dai Russi subito dopo la disfatta di Novembre: anche gli alti comandi federali pensarono a torto che una “spallata” al Palazzo Presidenziale sarebbe bastata a far crollare il governo separatista, considerato ormai impopolare. Il piano russo previde un “blitz” convergente sull’edificio, senza un adeguato piano di avanzata che coprisse le colonne d’attacco e senza attendere che le forze federali completassero l’accerchiamento della città. Di questo si approfittò Dudaev, ben conscio del fatto che un’invasione russa avrebbe velocemente ricompattato i ceceni intorno alla sua figura a difesa dell’indipendenza.  Il Generale abbandonò molto presto il Palazzo Presidenziale, sistemando il governo nella cittadina di Shali, a Sudest della capitale. A guidare la difesa di Grozny rimase il suo Capo di Stato Maggiore, Aslan Maskhadov, il quale si sistemò nei piani interrati dell’edificio. I reparti russi, convinti di stare portando a termine niente di più che una manovra militare, si ritrovarono accerchiati in una gigantesca imboscata, nella quale si contarono centinaia di morti e feriti. Fu l’inizio di una devastante battaglia casa per casa durata due mesi, durante i quali le forze federali si aprirono la strada verso il Palazzo Presidenziale radendo al suolo quasi per intero il centro della città, per poi varcare la sponda destra del Sunzha e respingere i separatisti fino ai sobborghi meridionali. Come il Reichstag per il Terzo Reich, il Palazzo Presidenziale divenne il perno della difesa cecena, il premio simbolico dell’avanzata russa ed il simbolo della più devastante azione di guerra in Europa dalla Seconda Guerra Mondiale ad oggi.

Rovine di Grozny dopo la battaglia. Sullo sfondo le rovine del Palazzo Presidenziale

Una volta giunti nei pressi della struttura e messi al sicuro i fianchi, i russi iniziarono a bombardare a tappeto il Palazzo e gli edifici circostanti: il palazzo del consiglio dei ministri di epoca sovietica, il cosiddetto Sovmin, l’Hotel Kavkaz situato dall’altra parte del viale, ed alcuni alti edifici residenziali utilizzati dai separatisti come ricoveri e postazioni di tiro dei cecchini. All’interno del Palazzo Maskhadov aveva istituito il suo comando, un ospedale da campo ed un magazzino dal quale era possibile rifornire i reparti che difendevano palmo a palmo il quartiere governativo dall’avanzata dei russi. I bombardamenti federali raggiunsero il ritmo di un colpo di granata al secondo, ma non riuscirono a fiaccare la resistenza dei difensori, né a minare la poderosa struttura in cemento armato del quale era costituito. I tiri di artiglieria riuscirono a provocare vasti incendi ai piani superiori, ma non a scalfire quelli inferiori, al di sotto dei quali si trovavano i quartieri operativi. La stessa sala del Gabinetto dei Ministri, situata al secondo piano, rimase pressoché intatta, tanto che le sue suppellettili furono saccheggiate dai soldati russi quando questi riuscirono a conquistarlo.

Foto di Grozny dopo la battaglia: una delle vie principali della città (1) una panoramica con il Palazzo Presidenziale sulla destra (2) i dintorni di Piazza Minutka (3) la Chiesa dell’Arcangelo Michele (4) l’Istituto Petrolifero di Grozny (5) il Ministero della Stampa e dell’Informazione (6) Mezzi blindati russi si dirigono verso il Palazzo Presidenziale (7) Il quartiere governativo distrutto con il Palazzo Presidenziale sulla sinistra (8) foto aerea delle rovine del Palazzo Presidenziale, lato tergale (9) istantanea della spianata davanti al Palazzo Presidenziale (10) Il Palazzo Presidenziale da dietro l’Hotel Kavkaz (11) I ruderi del Palazzo Presidenziale (12) i ruderi del Parlamento (13)

LA CADUTA

Maskhadov ed i suoi si decisero ad abbandonare il Palazzo Presidenziale soltanto il 19 Gennaio, venti giorni dopo l’inizio dell’attacco, quando ormai gli edifici adiacenti alla struttura erano caduti nelle mani dei russi nonostante i rabbiosi contrattacchi delle unità di Shamil Basayev. Nel corso dei giorni precedenti il palazzo era stato colpito incessantemente dall’artiglieria e dall’aereonautica, e due potenti bombe a detonazione ritardata erano penetrate fin nei sotterranei dell’edificio sventrando il palazzo.Il giorno successivo le forze federali occuparono il palazzo quasi senza combattere, ed innalzarono sul pennone la bandiera russa. La presa del Palazzo Presidenziale fu tuttavia poco più che un successo politico. L’attesa dissoluzione delle forze separatiste non avvenne, ed i combattimenti per Grozny sarebbero durati ancora per un mese, per poi proseguire fino al Maggio successivo nelle campagne e sui monti della Cecenia.

Bandiere russe sventolano dalle rovine del Palazzo Presidenziale appena conquistato

Durante l’occupazione militare il palazzo, totalmente inagibile e spogliato di qualsiasi cosa avesse un valore, divenne il monumento all’indipendentismo ceceno: i movimenti contro la guerra ed i partiti che fiancheggiavano Dudaev tennero manifestazioni imponenti all’ombra delle sue rovine. La milizia del governo collaborazionista, nel tentativo di reprimerle, finì per sparare contro la folla il 24 ottobre, uccidendo un dimostrante e ferendone altri quattro. Ma il più grave fatto di sangue occorse l’8 Gennaio 1996, quando un’imponente presidio venne disperso dai collaborazionisti a colpi di lanciagranate. Morirono tre persone, e altre sette rimasero ferite. Il 10 febbraio un’esplosione, sembra accidentale, provocò la morte di una madre e di suo figlio, scatenando l’ennesima ondata di manifestazioni a seguito delle quali le autorità di occupazione decisero di demolire definitivamente l’edificio. Neppure la demolizione, tuttavia, andò per il verso giusto: i genieri militari minarono maldestramente il Palazzo, e la mattina del 15 febbraio, quando le cariche esplosero, ne venne giù soltanto un pezzo.

Manifestanti indipendentisti presidiano le rovine del Palazzo Presidenziale il 9 Febbraio 1996.

LE ROVINE

Quando i separatisti ebbero riconquistato Grozny, nell’Agosto del 1996, si trovarono padroni di una città in rovina. I resti del Palazzo Presidenziale erano talmente deteriorati che un suo ripristino era impossibile. Del resto la carenza di risorse economiche avrebbe comunque reso inattuabile la ricostruzione di un edificio così imponente. Le macerie rimasero così ammassate sul posto, ed il grande spiazzo dove un tempo sorgeva il rigoglioso giardino di rappresentanza divenne un pantano fangoso. Il degrado e la sporcizia si accumularono progressivamente, man mano che la stessa Repubblica Cecena di Ichkeria sprofondava nella corruzione e nell’anarchia. Nel Settembre del 1999 le truppe federali rientrarono in Cecenia, e Grozny tornò ad essere un campo di battaglia. Tra le vie del disastrato quartiere governativo si combatterono feroci battaglie, ma alla metà di Febbraio i reparti di Mosca riuscirono ad assicurarsi le sue rovine, e dalla fine del mese i combattimenti si spostarono nella parte meridionale della città. I resti del palazzo caddero definitivamente nelle mani dei russi, e furono presto sgomberati.

Con la fine delle operazioni militari in città e l’avvento del governo di Akhmat Kadyrov iniziarono i lavori di ricostruzione del quartiere. Di ricostruire un Palazzo Presidenziale non si parlò mai, e certamente non di ricostruire quel palazzo. Dopo la morte di Akhmat Kadyrov e la successione al potere di suo figlio Ramzan il piano di restauro del quartiere prese il via a pieno regime. Ad oggi l’area è quasi irriconoscibile rispetto a com’era prima della guerra. Al posto del Palazzo Presidenziale sorge un grande parco, al centro del quale è stato eretto un monumento ai poliziotti caduti nella guerra contro il terrorismo. Insieme a “Palazzo Dudaev” vennero sgombrati anche molti altri edifici, ed al loro posto è stato eretto il quartiere islamico della città, con una gigantesca moschea chiamata “Cuore della Cecenia”, un centro islamico ed un gigantesco giardino. La residenza del Presidente della Repubblica è stata costruita nella grande ansa sul Sunzha posta ad est del quartiere governativo.

LA PRIMA GUERRA CECENA RACCONTATA DA ILYAS AKHMADOV

(raccolta dalla rivista Small Wars Journal nel Giugno 1999)

NOTA: Ilyas Akhmadov è nato nel 1960 in Kazakhistan. Dopo essersi laureato in Scienze Politiche all’università di Rostov nel 1991 si trasferì in Cecenia, trovando un impiego presso il Ministero degli Esteri. Nel 1994 prese parte ai combattimenti contro l’opposizione armata di Ruslan Labazanov ad Argun, rimanendo ferito. Durante la Prima Guerra Cecena servì come addetto alle pubbliche relazioni del Quartier Generale, direttamente a contatto con Aslan Maskhadov. Al termine della guerra si ritirò a vita privata, ma il 27 Giugno 1999 fu richiamato da Maskhadov, nel frattempo divenuto Presidente della Repubblica, a dirigere il Ministero degli Esteri, dopo le dimissioni di Akhyad Idigov. Allo scoppio della Seconda Guerra Cecena fu inviato in Europa con l’obiettivo di sponsorizzare l’apertura di negoziati politici tra Russia e Cecenia. Akhmadov operò in veste di Ministro degli Esteri fino alla morte di Maskhadov, nel Marzo 2005. Il 23 Agosto il successore del defunto Presidente, Abdul Khalim Sadulayev, lo sostituì con un altro esule ed ex ministro della Repubblica, Usman Ferzauli. La presente intervista fu rilasciata all’indomani della sua nomina a Ministro degli Esteri, nel Giugno del 1999

Ilyas Akhmadov

La prima azione militare

Ho visto l’azione militare come membro del Battaglione di Shamil Basayev durante le operazioni contro Ruslan Labazanov nell’Agosto 1994. Sono stato ferito ad una gamba ad Argun, e non ho potuto camminare per quattro mesi.  Ho lasciato la Cecenia per motivi medici e sono riuscito a tornare soltanto nel pomeriggio del 30 Dicembre. Ho preso parte alla difesa di Grozny come volontario il 31 Dicembre . Successivamente mi sono unito al Quartier Generale. In qualità di combattente ordinario, era difficile per me avere il quadro completo di ciò che stava succedendo. Posso soltanto parlare di ciò a cui ho assistito.

La Battaglia per Grozny

L’artiglieria russa era posizionata sul “Sunzha Ridge” che domina Grozny. La battaglia iniziò con il bombardamento di Howitzers “152 mm” e non si fermò mai fino al 23 Febbraio. L’aviazione di prima linea combatteva anche in condizioni di nebbia fitta. Nonostante lo scarso effetto dell’artiglieria e del fuoco aereo sulle nostre unità armate, loro non si fermarono mai per più di 20 minuti, anche quando le posizioni russe e cecene furono a 50 metri le une dalle altre. In questo modo infliggevano tanto danno alle loro truppe quanto danno alle nostre.

Ho combattuto nel sobborgo cittadino di Staropromyslovsky. C’erano due tipi di unità nel distretto – i gruppi di resistenza che si erano formati spontaneamente tra gli abitanti dello stesso villaggio o quartiere cittadino e gruppi delle nostre forze armato esistenti – principalmente i battaglioni di Gelayev e Basayev. Questi battaglioni occupavano posizioni chiave su Viale Staropromislovsky, nei pressi della fabbrica “Elektropribor”.  La mia prima impressione una volta arrivato a Grozny il 31 Dicembre fu che il nostro Alto Comando avesse portato tutte le nostre forze dentro Grozny.  Non avevamo abbastanza risorse umane e forza per fermare l’avanzata dei russi fuori dalla città. Quello che mi ha colpito fin dall’inizio fu che i carri armati e gli APC (Armored personnel carrier – Trasporto truppe corazzato, ndr.) russi non avanzavano neanche in ordine di battaglia. Essi marciavano come in un campo da parata ad una distanza di 5 o 6 metri tra un APC e l’altro. Non erano capaci di manovrare, o di tornare indietro se necessario. Questa era una manovra suicida per gli APC. Inoltre la fanteria avanzava in completo disordine intorno agli APC.

Ho assistito ad una breve battaglia vicino all’Elektropribor nella quale 11 APC furono distrutti in 15 minuti: alle 18:00 i russi avevano raggiunto l’Elektropribor. C’era uno spacio aperto tra la fabbrica ed il 2° Sovkhoz. Loro dovevano attraversare circa un chilometro  e mezzo di spazio aperto  e superare uno stretto canalone di duecento metri prima di raggiungere Viale Staropromislovsky. Marciarono attraverso il campo aperto senza prendere precauzioni, probabilmente sperando nella velocità di marcia nel raggiungere la città.  Avevamo 30 uomini posizionati nel canalone. Lasciammo entrare la colonna russa. Il primo APC entrato nel canalone e l’ultimo furono distrutti, gli altri 11 presero fuoco e bruciarono come scatole di fiammiferi. La battaglia durò non più di 15 minuti.

Militante separatista attraversa una strada di Grozny. Sullo sfondo un APC distrutto dell’esercito federale.

Lo stesso giorno, i russi hanno tentato esattamente la stessa manovra in terreni simili nel Distretto di Beriozka, con lo stesso disastroso risultato. All’incrocio Karpinski un pezzo di artiglieria da 152 mm e diversi APC furono distrutti. Le stesse operazioni furono ripetute in tutte le strate usate dalle colonne russe per raggiungere il centro di Grozny. Oggi possiamo avere un quadro generale della Battaglia per Grozny, usando le informazioni fornite dagli ufficiali russi. I russi si spostarono su Grozny da 3 direzioni: la colonna del Generale Rokhlin si stava spostando da Nord, il Generale Babishev da Sud – Ovest lungo la catena montuosa “Gruzinsky”, e un’altra colonna si stava muovendo da Est in direzione di Khankala, avendo scavalcano Argun. Il loro obiettivo era quello di entrare dentro Grozny e prendere posizione intorno al Palazzo Presidenziale. I prigionieri di guerra russi ci dissero che non avevano istruzioni dettagliate so come attaccare Grozny. Gli ufficiali di medio rango si sono lamentati con noi del fatto che non avevano mappe della città. Circa il 60% dei prigioneri di guerra russi era ubriaco, e non capivano dove fossero e cosa stesse succedendo. Era stato detto loro che dovevano guidare attraverso la città e circondare il Palazzo Presidenziale, dove 100 partigiani di Dudaev stavano resistendo. Erano stati rassicurati sul fatto che Dudaev ed i suoi partigiani sarebbero scappati alla viste dell’armamento pesante dell’esercito russo. L’operazione non avrebbe dovuto presentare serie difficoltà. Questo fu il più grande errore dei russi.

La colonna del Generale Babishev fu fermata nei pressi di Karpinski e, per quanto ricordo, non tentò di entrare a Grozny quel giorno. La colonna di Rokhlin fu intercettata dalle nostre unità in Via Pervomaiskaia. La colonna proveniente da Khankala fu bloccata per un certo periodo dal battaglione di Tadashaev, ma questi terminò le munizioni ed il suo battaglione fu spazzato via. Le nostre tattiche erano semplici ma efficaci: lasciavamo che le colonne russe entrassero nella città, attirando in strade nelle quali APC e carri armati non potevano manovrare. Quando una colonna veniva fatta entrare in una via stretta colpivamo l’APC di testa e quello in coda alla colonna. I Russi erano “anatre sedute”.  Quando i combattimenti e le sparatorie iniziarono, molte formazioni corazzate tentarono di fuggire sulle vie laterali che non erano difese, cercando di ritirarsi dalla città. Ma quando loro capirono che erano più vulnerabili in movimento, si fermarono, cercarono di catturare posizioni dalla quale impostare una difesa. Fu allora che iniziammo a soffrire perdite più elevate: era facile inseguire obiettivi in fuga, diverso era attaccare posizioni ben trincerate.

Dopo il 3 Gennaio 1995 i russi riuscirono ed occupare posizioni in determinati punti (nel distretto della stazione ferroviaria, vicino alla fabbrica di scatolame alimentare) ed il 7 Gennaio lanciarono una nuova offensiva per prendere la città. I bombardamenti di artiglieria ed aerei furono particolarmente intensi quel giorno. I russi stessi lo hanno ammesso in seguito. La mia unità era posizionata nel cortile di un edificio dal quale vedevamo i razzi esplodere intorno a noi in 3 o 4 direzioni contemporaneamente. L’aviazione di prima linea era ugualmente in azione.  Durante la settimana tra il 31 Dicembre ed il 7 Gennaio i russi riuscirono ad avanzare con unità corazzate pesanti da Serverny (l’aereoporto settentrionale della città, ndr.) e dalla parte orientale di Grozny, ma al costo di enormi perdite. Tuttavia, il 7 Gennaio, la situazione è cambiata. Le nostre perdite sono aumentate, principalmente a causa del fuoco di mortaio. I sistemi GRAD e URAGAN che i russi avevano usato in precedenza si erano rivelati inefficaci in un ambiente urbano.  Il secondo assalto su Grozny il 7 Gennaio fu più massiccio del primo. Dopo il 12 Gennaio, le colonne di Rokhlin e Babishev riuscirono a sfondare per incontrarsi nel distretto vicino a “Dom Pechati”. Le nostre unit a difesa dell’area furono circondate e dovettero ritirarsi attraverso le linee russe.

1995. Soldati delle truppe interne per le strade di Grozny. Gennady Khamelyanin / TAS Newsreel / TASS Newsreel

I problemi affrontati dalle forze cecene durante la battaglia

Il nostro problema principale all’epoca era la mancanza di coordinamenti. Oltre alle nostre forze armate regolari, la quali stavano cercando di coordinare le loro operazioni, molti gruppi volontari non erano stati incorporati nella struttura di comando. Esse non avevano tattiche e si dirigevano nelle aree dove sentivano l’azione. Spesso questi gruppi volontari difendevano una posizione in un distretto ed unità regolari in un distretto confinante presumevano di avere il fianco coperto. Tuttavia, poiché i volontari non erano sotto il comando dello Stato Maggiore, questi potevano decidere in qualsiasi momento di tornare a casa senza preavviso, lasciando le unità regolari non coperte. Questo ha creato il caos quanto un’operazione militare non coordinata.  Pertanto i volontari erano più un ostacolo che un aiuto per le nostre unità regolari che avevano specifici ordini e compiti da eseguire. Abbiamo avuto molte vittime in quel momento tra la gente, che non sapeva dove stava andando e dove fossero le posizioni russe.

La situazione a Grozny fu il caos assoluto durante le prime due settimane di Gennaio del 1995. A volte le nostre unità erano posizionate al primo piano di una costruzione mentre i russi stavano nel cortile e nei piani superiori. Uno poteva andare via per cinque minuti e tornare, e trovare i russi nelle posizioni che aveva abbandonato. Abbiamo avuto anche casi di perdite per fuoco amico. Questi eventi erano più frequenti tra i russi perché avevano più truppe di noi, ma questo successe anche tra noi, specialmente la notte. Ma nel caso dei russi, questo raggiunse proporzioni critiche. Due battaglioni potevano ingaggiarsi in combattimento per molte ore, chiamando la stessa artiglieria ed aviazione in loro supporto!  Il nostro problema principale in quel momento era la mancanza di comunicazione e la mancanza di un comando unito. I gruppi volontari hanno “confuso la mappa” nonostante il fatto che alcuni di loro combatterono con grande coraggio. Questo ha sconvolto le tattiche dello Stato Maggiore e dei comandanti in carica nella difesa di aree specifiche. Dopo il 19 Gennaio, quando abbiamo evacuato il Palazzo residenziale e ci siamo trasferiti sull’altra sponda del Sunzha, Maskhadov ha guadagnato un po’ di tempo per preparare nuove posizioni difensive. Il fronte di battaglia divenne più chiaramente definito ed il coordinamento fu implementato. Grazie a questo fummo in grado di evacuare la città il 23 Febbraio in modo organizzato.

Combattenti ceceni armati di lanciagranate prima di dirigersi verso la zona di combattimento, 13 dicembre 1994 – Misha Japaridze / AP

Dopo la caduta di Grozny

Durante la battaglia per Grozny Shamil Basaev era il comandante della guarnigione di Grozny. Andò personalmente a raccogliere tutte le unità rimanenti che ancora difendevano Grozny e le ha portate fuori dalla città in direzione di Goity, dove furono divise. Una parte andò a sud – ovest a formare il Fronte Sud – Occidentale, l’altra si diresse verso Argun. In quel momento accesi combattimenti si stavano svolgendo sia dentro che intorno ad Argun. Oggi le persone spesso dimenticano che lo stesso tipo di combattimenti di svolgeva ad Argun durante la maggior parte della Battaglia per Grozny. Lo Stato Maggiore si spostò nella fabbrica “Krasnyi Molot”. Non riuscii a capire come mai il più alto edificio della Cecenia fu selezionato come Quartier Generale.

Le diverse fasi della guerra

  1. Guerra di posizione

Dalla fine di Febbraio ad approssimativamente il 10 Maggio 1995 si svolse una fase di guerra convenzionale di posizione. Durante questo periodo affrontammo nuove difficoltà: per varie ragioni le nostre forze stazionavano approssimativamente ad un chilometro dalle città, dai villaggi e dalle aree popolate. I russi hanno deliberatamente bombardato oltre le posizioni delle nostre forze direttamente sui villaggi. Pertanto la popolazione dei villaggi vedeva la presenza delle nostre forze come una minaccia alla loro sicurezza ed esercitava pressioni affinché queste se ne andassero. I russi usavano questa tattica al massimo, sebbene questa non portasse effetti in ogni occasione. Più tardi i comandanti divennero più decisi nei confronti dei civili, i quali temettero maggiormente di opporsi a loro.

Dal Marzo del 1995 all’inizio di Maggio i russi non si impegnarono in combattimenti di linea. Eravamo sottoposti ad un costante bombardamento di artiglieria. I loro carri armati erano sparpagliati di fronte alle nostre linee, li vedevamo chiaramente, ed ogni giorno, sempre alla stessa ora, iniziavano a sparare. Dovemmo scavare trincee. Talvolta in una scarica di artiglieria potevamo perdere tra gli 8 ed i 12 uomini. Queste erano perdite terribilmente pesanti per noi.  La situazione era la stessa sul Fronte Centrale e sul Fronte Sud – Occidentale. Ma la presenza delle nostre forze tuttavia rallentava l’avanzata russa.  A causa della mancanza di combattimenti ravvicinati, soffrimmo più perdite durante quel periodo che in qualsiasi altro momento della guerra.

  • Combattimenti nelle montagne – Vedeno

La fase successiva ha visto i combattimenti nelle zone di media montagna. Due settimane prima di ritirarci da Vedeno, i russi iniziarono a ripulire la catena montuosa boscosa usando l’aviazione e l’artiglieria a lungo raggio. Io ero diretto a Vedeno ed in una settimana vedemmo i russi catturare tre importanti villaggi: Nozhay – Yurt, Vedeno e Shatoy.  In precedenza, avevo sempre pensato che Vedeno potesse essere facilmente difesa per dieci anni. La gola stretta, che conduce a Vedeno, rendeva ardua l’avanzata dei carri armati. Shamil Basayev aveva organizzato un’efficace difesa sulle alture sopra la gola. “Difesa efficace” può sembrare pomposo – ciò significava che avevamo qualche bocca da fuoco calibro 12,7 o 14,5 con 4 o 5 nastri di munizioni. Ma a volta erano sufficienti a spaventare l’aereonautica russa.

Artiglieria federale bombarda posizioni separatiste durante la Prima Guerra Cecena

Ciò che è successo dopo fu questo: quando la strada tra Shali e Shatoy fu tagliata usammo un percorso tra Shatoy e Vedeno, che costeggiava un alveo, passava il villaggio di Selmentausen fino ad Ulus Kert. Era lunga all’incirca 8 chilometri. Era sufficiente sistemare 2 o 3 lanciagranate lungo quella strada per fermare i russi. Ma in qualche modo durante i due o tre mesi di guerra di posizione il nostro Comando dimenticò di proteggere quella strada. Anche il fronte di Agishty ed il Fronte Sud – Occidentale lasciarono l’area incustodita. I russi erano posizionati dentro il cimitero di Duba Yurt. Con l’aiuto di collaboratori di Duba Yurt sono riusciti ad avanzare fino a Selmentausen e Makhkety. Maskhadov lanciò tutte le forze che avevamo disponibili nel tentativo di fermare l’offensiva russa su Selmentausen, incluso il Battaglione di Naursk, che era dislocato sul Fronte di Nozhai – Yurt. Ma l’offensiva era troppo forte, con il supporto dell’aviazione e dell’artiglieria a lungo raggio ed il fronte di Vedeno troppo debole. Ci fu un’ulteriore difficoltà: la fanteria Russa si era dispersa nella foresta ed è praticamente impossibile combattere un nemico in una foresta. Quando ci ritirammo da Vedeno i russi erano riusciti a portare la loro artiglieria a lungo raggio ad Elistanzhi ed i loro carri armati erano sparpagliati sulla catena montuosa sopra Tsa – Vedeno. Stavano sparando sopra le nostre teste in direzione di Kharachoy.

Il vantaggio dei russi durante questa offensiva era dovuto al fatto che loro possedevano buone mappe, mentre noi non ne avevamo praticamente nessuna a parte quelle prese agli ufficiali russi catturati, e che usavano i servizi dei traditori ceceni che li guidavano su piccoli sentieri di montagna poco conosciuti. Dopo che avemmo abbandonato Vedeno, i combattimenti continuarono per quattro giorni a Serzhen Yurt.  I comandanti a Serzhen Yurt erano uomini di  Shamil Basayev. Tra il 10 Maggio ed il 4 Giugno respinsero una media di 5 o 6 attacchi russi al giorno. Erano pochi contro il Reggimento Totsky ed il 56° Reggimento. Il solo 25 Maggio contai che l’aviazione russa aveva portato a termine 425 missioni su Serzhen Yurt. Conosci gli eventi dopo che lasciammo Vedeno – il raid di Shamil Basayev seguito dal periodo di negoziazione durante il quale le nostre unità riuscirono a raggrupparsi e ad infiltrarsi dietro al nemico. Quando i negoziati fallirono le nostre unità erano pronte a combattere di nuovo.

L’aviazione

Talvolta avevamo l’impressione che i piloti russi agissero attenendosi rigorosamente agli ordini. Gli aerei volavano, trovavano un luogo conveniente sul quale rovesciare le loro bombe ed i loro missili, e continuavano a bombardare lo stesso posto per tutto il giorno con il risultato che noi potevamo muoverci in sicurezza aggirando quella particolare area. Tuttavia, quando i russi hanno avuto il sopravvento, quando noi ci stavamo ritirando circondati da colonne di rifugiati civili, i piloti divennero più audaci e pericolosi.  Cominciarono a cacciare, inseguendo auto, autobus e motociclette. Rispetto agli elicotteri: durante il periodo della guerra di posizione, i nostri uomini erano spesso in grado di muoversi di notte con i DShKh o altro equipaggiamento di calibro 12,7 o 14,5 nella terra di nessuno tra le due linee del fronte. Queste armi erano efficaci contro gli elicotteri. Così siamo stati in grado di abbattere gli elicotteri praticamente dalle posizioni russe. Tuttavia queste erano occasioni rare. I piloti di elicotteri erano abbastanza audaci all’inizio della guerra, ma dopo che i nostri uomini ebbero avuto qualche successo con loro, essi iniziarono a cedere al panico ed a sparare in tutte le direzioni, incluse le loro stesse posizioni.

Un elicottero da combattimento russo sorvola i resti della flotta aerea civile cecena, distrutta al suolo durante le prime fasi dell’invasione.

Pattuglie

I russi non potevano permettersi di pattugliare nel modo in cui intendete in Occidente. Di norma, la notte, loro potevano soltanto proteggere sé stessi o il loro accampamento. Durante il giorno loro provavano a sminare varie aree, condurre operazioni di pulizia (zachistka) ed il controllo dei passaporti, sempre con il supporto degli APC. Di norma i loro raid erano diretti contro la popolazione civile e non la resistenza. Di notte loro tornavano alle loro basi e non poteva fregar loro di meno riguardo quello che succedeva oltre i preimetri del loro campo. Durante l’offensiva contro Grozny il 6 Marzo 1996, le unità russe non giunsero in soccorso l’una dell’altra neanche quanto potevano vedere cosa stava succedendo vicino a loro. Unità dell’MVD (milizia armata del Ministero degli Interni, ndr.) e del Ministero della Difesa non si aiutavano a vicenda per questione di principio.

Relazioni russo – cecene

Le nostre relazioni con i russi erano strane. I nostri operatori radio parlavano frequentemente con le loro controparti russe. A volte correvano rapporti amichevoli con operatori russi, i quali ci hanno preavvisato dell’imminenza di attacchi aerei o di artiglieria. Ho parlato spesso alla radio con operatori e funzionari russi, nella mia veste di addetto alle relazioni di Maskhadov ed ho avuto l’impressione che loro non capissero perché erano stati mandati in Cecenia. Loro non avevano idea di cosa rappresentasse la Cecenia, di chi fossero i ceceni, di quali tradizioni avessero, di cosa volessero i ceceni. Un uomo con cui ho parlato mi ha detto che era venuto a combattere in Cecenia per impedire alla Cina di attaccare la Russia.

Durante il periodo dei negoziati i soldati russi volevano delle foto con i luogotenenti di Maskhadov. CI fermarono con Hussein (Iskhanov, ndr.). Li lasciammo fare le fotografie e chiacchierammo con il loro ufficiale che aveva studiato nel mio stesso istituto. Avevamo avuto gli stessi insegnanti, le stesse conoscenze. Tuttavia i semi crudeli di una guerra etnica erano lì – per 70 anni siamo stati costretti ad abbracciare i russi nel nome dell’amore fraterno internazionalista. Il risultato di tale coazione era l’odio. Ora avevamo un’opportunità per rimediare, conoscendo le debolezze dell’altra parte. Fu allora che la guerra divenne crudele. Sebbene i russi non capissero le nostre motivazioni, loro sapevano come ferirci maggiormente, ad esempio quando costringevano la nostra gente a comprare i corpi dei nostri morti. Purtroppo oggi molti ceceni si sono dimostrati essi stessi degni allievi dei russi. I russi erano all’origine di fenomeni come la “tratta degli schiavi” ed i rapimenti per riscatto.

La maggioranza della popolazione russa di Grozny era felice dell’arrivo dell’esercito russo. Il periodo tra il 1991 ed il 1994 fu duro per loro. Dal giorno alla notte avevano perso lo status di nazione favorita e dominante. Loro credevano che i generali russi si sarebbero presi cura di loro ed avrebbero distribuito cibo. Ma quando le truppe russe giunsero queste erano di solito ubriache e non si fregavano molto del fatto che le persone che uccidevano fossero russi o ceceni.  Quando la barbarie del contingente russo divenne evidente, loro (i russi di Grozny, ndr) divennero disillusi. Alcuni russi combatterono dalla nostra parte, ma la maggioranza fu pronta a cooperare con le forze d’invasione.Le forze russe non tentarono di usare la popolazione russa per il lavoro di intelligence e di informazione. Loro sapevano che i russi locali non potevano permettersi di sollevare i sospetti dei ceceni. Hanno preferito usare i ceceni. Lo hanno fatto piuttosto bene, almeno all’inizio della guerra. Più tardi le persone divennero più sospettose verso i traditori, talvolta eccessivamente – certe persone potevano essere erroneamente accusate al minimo dubbio.

Militari russi festeggiano davanti alle rovine del Palazzo Presidenziale

Lezioni di guerra

La guerra fu intensa e dinamica. Se uno confrontasse i mezzi e le risorse russi– munizioni, armi, trasporti, rifornimenti medici e via dicendo, rispetto alle nostre, i nostri rifornimento ammonterebbero a quelli di un reggimento motorizzato russo (motostrelkovyi). Eravamo degli straccioni rispetto ai russi. Immagina un battaglione russo supportato da 5 o 6 carri ed APC, artiglieria ed un paio di elicotteri. Anche quando posizionato su un terreno aperto poteva impedirci di avvicinarci a meno di 1,5 km. Di notte avevano sistemi di illuminazione intorno alle loro posizioni ed attrezzature per la visione notturna. Le nostre armi più potenti, i lanciagranate, avevano una portata di 400 metri. Quella era la principale forza dei russi. La lezione che ho acquisito fu che era più facile combattere i russi quando questi erano in movimento o quando stavano avanzando. Non appena iniziavano a trincerarsi era molto più difficile attaccarli e batterli.

Nelle aree urbane era molto più facile affrontare i russi. La loro mancanza di coordinamento, dovuta a due sistemi di comando, quello del Ministero degli Interni e quello del Ministero della Difesa e la loro reciproca avversione giovavano in nostro favore. Avevamo un altro vantaggio: per tutti i ceceni che avevano prestato servizio nell’esercito sovietico i russi erano totalmente prevedibili. Con testardaggine il comando russo ha provato ad applicare le regole di combattimento delle forze di terra convenzionali. In questa guerra, queste tattiche non furono applicate. Come ha specificato Mumadi Saidaev, il fronte e la linea del fronte non significavano niente per noi. Il nostro obiettivo era semplice: avevamo un nemico; esso doveva essere trovato, inseguito e ucciso. Ecco perché le colonne russe in marcia erano particolarmente vulnerabili anche quando avevano supporto aereo. Un altro fattore ha contribuito alla scarsa performance delle truppe russe – il fatto che con alcune eccezioni come la Brigata Maikop ed il Reggimento Samarski, la maggior parte delle unità erano di nuova formazione (svodnye chasti) per il servizio in Cecenia. AI reggimenti in giro per le Federazione Russa fu chiesto di fornire soldati per il servizio in Cecenia. Naturalmente questi reggimenti hanno cercato di sbarazzarsi dei loro elementi peggiori. In alcuni casi le nuove formazioni non avevano neanche nomi e numeri proprio. I prigionieri di guerra avevano spesso documenti riguardanti le unità lasciate prima dell’11 Dicembre 1994, ma nessuna menzione riguardo alle nuove unità cui si erano uniti. Questo fu un modo per i russi di nascondere le loro vittime. Quando un soldato lasciava la sua unità, semplicemente “scompariva” dal punto di vista della contabilità dell’esercito russo – non è stata tenuta traccia di dove fosse andato.

I resti di un APC distrutto durante i combattimenti. A terra giacciono i cadaveri dei militari che lo occupavano.

Grozny, 26/11/1994: L’ASSALTO DI NOVEMBRE

DUDAEVITI ED ANTIDUDAEVITI

La cronaca degli eventi bellici che hanno coinvolto la Repubblica Cecena di Ichkeria si è soffermata prevalentemente sulle due devastanti guerre russo cecene. Tuttavia durante la sua travagliata esistenza la ChRI ha dovuto sopportare il peso di altre due guerre, stavolta civili, entrambe addotte come casus belli per l’intervento delle truppe federali. Quella di cui parliamo in questo articolo è la prima guerra civile cecena, combattuta a fasi alterne dalla primavera al Dicembre del 1994 le cui conseguenze produssero l’inizio della Prima Guerra Cecena. Senza soffermarci troppo sui prodromi di questo conflitto, riportiamo brevemente come i ceceni iniziarono a spararsi tra di loro.

Truppe regolari della ChRI sfilano in parata

Il 4 Giugno 1993, dopo un anno di attriti con l’opposizione parlamentare ed extraparlamentare, il Presidente Dzhokhar Dudaev mise in atto un golpe militare, sciolse le istituzioni democratiche ed istituì una dittatura personale. Oppositori storici di Dudaev, come Umar Avturkhanov e Ruslan Khasbulatov, e nuovi avversari del Presidente, come i suoi ex alleati Bislan Gantamirov e Ruslan Labazanov si coalizzarono costituendo un Consiglio Provvisorio e contrattando con le autorità federali supporto militare, economico e di intelligence. Nella tarda primavera del 1994 si ebbero i primi scontri tra gli uomini di Labazanov, mentre nell’Agosto seguente i due fronti presero ad armarsi in vista di un confronto armato diretto.

La guerra civile iniziò ad infuriare in Settembre, e vide l’impiego di armi pesanti, aerei ed elicotteri da guerra e pezzi d’artiglieria. Lealisti e ribelli si combatterono in vere e proprie battaglie campali, ma nessuna delle due fazioni sembrava avere la forza militare e politica per imporsi sull’altra. Nell’Ottobre del 1994 un piccolo esercito antidudaevita riuscì a penetrare dentro Grozny, ma dopo alcune ore fu richiamato indietro. Agli inizi di Novembre del 1994 La Cecenia era divisa in un’area settentrionale controllata da Avturkhanov e dalla sua milizia, il Distretto di Urus – Martan sotto il controllo di Gantamirov, ed il resto del paese nelle mani dei dudaeviti. Questi tuttavia apparivano privi della carica sufficiente per imporsi, ed il sostanziale stallo della situazione militare lasciava immaginare che con un colpo ben assestato il regime sarebbe collassato su sé stesso.

Umar Avturkhanov, leader dell’opposizione antidudaevita dal 1991 e uno dei principali organizzatori dell’Assalto di Novembre
Bislan Gantamirov, ex Sindaco di Grozny sotto Dudaev, passato all’opposizione nel Giugno del 1993 ed alla lotta armata dal 1994, leader delle milizie del Consiglio Provvisorio.

LA PREPARAZIONE DELL’ATTACCO

Per questo motivo i ribelli, d’accordo con l’intelligence federale, decisero di mettere in atto un’operazione militare su larga scala volta a prendere Grozny, disperdere i dudaeviti ed assicurare il dittatore alla giustizia. Il piano prevedeva la partecipazione di mercenari reclutati presso le divisioni russe di stanza nel Caucaso Settentrionale: un’ottantina di ragazzi in grado di manovrare un T – 72 avrebbero composto il nerbo dell’armata dietro la quale avrebbero avanzato i fanti dell’opposizione. Per dissimulare quanto più possibile l’intervento di Mosca in questa faccenda i mercenari furono inviati alle loro basi in abiti civili, senza documenti né segni di riconoscimento. A loro fu detto avrebbero dovuto “guidare da un punto A ad un punto B” e sostanzialmente sfilare davanti al Palazzo Presidenziale, provocando il crollo del regime con la sola vista dei loro carri armati.

Gli attaccanti avrebbero dovuto convergere sul quartiere governativo di Grozny da tre direzioni: il principale gruppo d’assalto sarebbe partito da Tolstoy Yurt (Nord) sotto il comando di Avturkhanov, a sua volta “coordinato” da altri ufficiali russi. Il secondo, composto dai resti della milizia di Labazanov, si sarebbe mosso da Argun (Est). Il terzo, costituito dalle milizie fedeli a Gantamirov avrebbe proceduto da Urus – Martan (Sud – Ovest). Una volta preso il controllo degli uffici governativi si sarebbe installato un governo provvisorio, il quale avrebbe ufficialmente richiesto l’intervento dell’esercito federale per riportare “l’ordine costituzionale”. La forza d’urto sarebbe stata composta in totale da 150 veicoli tra carri armati e mezzi blindati, coperti dal tiro di 20 obici semoventi e da 40 elicotteri da combattimento. Dietro di loro erano inquadrati circa 1200 uomini, per lo più miliziani del Consiglio Provvisorio ma anche contractors russi arruolati in cambio di una (relativamente) corposa cifra e della garanzia di dover soltanto “mostrare i muscoli”. 

Miliziani dudaeviti. Sullo sfondo il Palazzo Presidenziale

Due giorni prima che l’invasione avesse luogo l’aereonautica federale bombardò gli aereoporti Sheikh Manur (ex Severny) e l’aereoporto militare di Khankala. Aerei privi di insegne nazionali sorvolarono Grozny, colpendo alcuni edifici residenziali. Nel frattempo i gruppi d’attacco si avvicinavano alla periferia della capitale, prendendo posizione nei sobborghi.

IL 26 NOVEMBRE

La mattina del 26 Novembre 1994 i tre gruppi d’attacco iniziarono la penetrazione verso il centro di Grozny. La colonna settentrionale incontrò una certa resistenza subito fuori da Tolstoy – Yurt, dove un drappello di lealisti impegnò la sua avanguardia corazzata mettendo fuori combattimento due carri armati. Altri tre veicoli furono messi fuori combattimento, ed I loro equipaggi si arresero senza combattere ai miliziani dudaeviti. Nel complesso, tuttavia, le forze avanzanti raggiunsero i loro obiettivi senza intoppi, posizionandosi nei punti di arrivo e trovandoli praticamente indifesi. Per le 11:00 la colonna settentrionale aveva occupato gli edifici del Ministero degli Interni, del Servizio di Sicurezza Nazionale, della TV di Stato e di numerosi altri complessi amministrativi, e stazionava davanti ad un deserto Palazzo Presidenziale.

Sembrava che il regime si fosse dissolto alla semplice vista dei reparti corazzati dell’opposizione, ma la realtà era ben diversa. Dudaev ed i suoi uomini erano ben informati delle intenzioni dei ribelli, sia a causa dei loro massicci movimenti nei dintorni di Grozny, sia perché Ruslan Khasbulatov, oppositore del regime ma desideroso di giungere ed una conclusione pacifica del conflitto, aveva avvisato i comandi lealisti dell’imminenza dell’attacco, ed esortato i civili ad abbandonare la città. La notte precedente l’attacco i dudaeviti si erano sistemati sui tetti e nei seminterrati dei palazzi residenziali del centro cittadino, strutture in cemento armato molto alte, dalle quali si potevano colpire i mezzi corazzati nemici rimanendo fuori dall’alzo dei loro cannoni. La scelta, moralmente cinica, era giustificata dal fatto che in quel contesto urbano la superiorità tecnologica degli attaccanti sarebbe venuta meno, così come la copertura offerta dai velivoli da combattimento, i quali avrebbero potuto operare soltanto caricandosi la responsabilità di bombardare edifici civili, peraltro per lo più abitati da russi (il centro cittadino era casa di cinquantamila russi etnici residenti in Cecenia fin dagli anni ’40 del ‘900). Squadre di cecchini erano posizionati negli edifici adiacenti agli obiettivi degli attaccanti, mentre piccole pattuglie controcarro armate di RPG erano asserragliate negli scantinati. La forza mobile dei difensori era asserragliata nel quartiere di Oktabrisky, il settore meridionale della città.

Pochi minuti dopo le 11:00 i reparti lealisti si attivarono tutti insieme contemporaneamente. I lanciagranate incendiarono i veicoli di testa e di coda delle colonne avanzanti, bloccandole e generando il panico. La milizia dell’opposizione finì sotto il tiro dei cecchini, disperdendosi in preda al terrore. Molti miliziani, una volta raggiunti gli obiettivi si erano abbandonati al saccheggio dei negozi e delle abitazioni civili, ed allo scoppio delle prime sparatorie caricarono in tutta fretta il loro bottino e sparirono dalla circolazione. I contractors russi, i quali non avevano ulteriori disposizioni cui adempiere una volta raggiunto il centro cittadino, si trovarono sottoposti al fuoco dei cecchini, cui in breve si aggiunsero le prime armi pesanti. I carri armati attaccanti iniziarono uno ad uno ad incendiarsi, mentre gli equipaggi cercavano scampo dietro le carcasse dei veicoli bruciati. Soltanto un reparto scelto di militi dell’opposizione, addestrato dai russi nelle settimane precedenti l’assalto, riuscì a mantenere le posizioni nell’edificio del KGB conquistato ad inizio mattinata. Tuttavia, esaurite le munizioni e privo di rinforzi anche questo reparto dovette abbandonare le difese e ritirarsi dalla città.

Torrette di carri armati dei ribelli giacciono sul selciato il giorno dopo la battaglia.

Nel giro di sette ore tutti i reparti antidudaeviti erano stati distrutti, dispersi o costretti alla fuga. Secondo quanto dichiarato dallo Stato Maggiore della ChRI furono distrutti 32 carri armati, 5 veicoli blindati 4 elicotteri da combattimento ed un cacciabombardiere, mentre altri 12 mezzi corazzati furono catturati. I dudaeviti catturarono 200 prigionieri ceceni e 68 contractors russi, tra i quali un Maggiore, e rivendicarono la morte di 300 ribelli. Dudaev impose che i prigionieri provenienti dall’esercito federale sfilassero davanti alle telecamere, minacciando di fucilarli se il Ministro della Difesa di Mosca, Pavel Grachev, non li avesse riconosciuti come suoi agenti. Man mano che la notizia del coinvolgimento russo nell’assalto a Grozny diventava sempre più evidente numerosi sostenitori del Consiglio Provvisorio e molti dei suoi miliziani armati passarono dalla parte dei dudaeviti, i quali adesso potevano rivendicare di essere l’unico argine della nazione cecena di fronte alla Russia ed al suo imperialismo.

Breve video sui resti del corpo corazzato ribelle distrutto a Grozny il 26 Novembre 1994

DALLA GUERRA CIVILE ALLA “GUERRA CECENA”

Ciò che rimaneva dell’opposizione si frantumò in fazioni più di quanto non lo fosse stato fino ad allora. Avturkhanov accusò Khasbulatov di aver indebolito la ribellione cercando gloria personale ed interponendosi tra il Consiglio Provvisorio e Dudaev per evitare lo scontro militare e quindi il rovesciamento del regime. Per parte sua Khasbulatov rispose di aver agito in modo da evitare una catastrofe umanitaria e dare alla Federazione Russa un casus belli per intervenire in forze. Con il precipitare degli eventi l’opposizione antidudaevita perse mordente, ed alla fine di Novembre Gantamirov dichiarò che i suoi uomini non avrebbero preso parte a nessun’altra azione militare contro Dudaev. Il 29 Novembre il Presidente della Federazione Russa, Boris Elstin, emise un ultimatum al governo separatista intimando la smobilitazione dei suoi gruppi armati e minacciando un intervento militare diretto entro pochi giorni qualora il regime non si fosse autonomamente dissolto.

uNITà ARMATE DELLA ChRI: LA GUARDIA PRESIDENZIALE

1993: Dzhokhar Dudaev posa insieme alla Guardia Presidenziale

LE ORIGINI

La Guardia Presidenziale fu una delle prime unità armate della Repubblica Cecena di Ichkeria. All’indomani della dichiarazione di indipendenza, mentre il Parlamento istituiva la Guardia Nazionale, il Generale Dudaev, appena eletto Presidente della Repubblica, istituì per decreto un’unità di “pretoriani” che proteggesse la sua persona, la sua famiglia ed i suoi funzionari. Nell’idea del nuovo Capo dello Stato la Guardia Presidenziale avrebbe dovuto rappresentare l’élite non soltanto militare, ma anche politica della nuova Cecenia. Per questo motivo ordinò che ogni villaggio del paese inviasse il suo miglior soldato, scelto appositamente dal consiglio degli anziani locale. La forza armata avrebbe avuto la consistenza di 200 uomini, ed avrebbe seguito il Presidente in ogni suo spostamento, oltre a difendere il Palazzo Presidenziale e la sua residenza privata. A capo dell’unità Dudaev pose Movlad Dzhabrailov, cintura nera di karate e maestro di arti marziali personale del Presidente.

Al momento della sua istituzione la Guardia Presidenziale constava di appena 7 uomini. Un mese più tardi questi erano già 14, e potevano alterarsi su tre turni di otto ore. Erano alloggiati nell’Hotel Kavkaz, una costruzione destinata originariamente all’alloggio degli ospiti del Soviet Supremo Ceceno Inguscio e diventata il luogo di soggiorno degli alti funzionari della nuova repubblica. Ai primi di Marzo del 1992 l’organico fu completato, ed i 200 uomini della Guardia furono alloggiati in una ex scuola di polizia, in Via Zhukovsky. Quì iniziarono un intenso corso di addestramento, volto a formare le nuove reclute non soltanto nell’uso delle armi, ma anche nelle arti marziali. Una squadra di 30 uomini venne inviata in Pakistan per sottoporsi ad un addestramento orientato alla guerriglia ed alla controguerriglia.

La forza armata appena costituita mancava di tutto: non esistevano divise, equipaggiamento ed armamento comuni. Nei dintorni di Grozny, tuttavia, vi erano numerosi depositi militari dell’esercito sovietico abbondanti di ogni sorta di equipaggiamento. Nella primavera del 1992 la Guardia Presidenziale iniziò a muoversi per prendere il controllo di questi depositi e potersi armare di tutto punto. Il primo deposito a cadere nelle sue mani fu la seconda città militare, una base sovietica al cui interno si trovavano armi leggere, munizioni ed uniformi in gran quantità. L’esercito russo non vedeva l’ora di abbandonare la Cecenia, e bastò che i soldati di Dudaev minacciassero di prendere la città militare con la forza perché i militari di Mosca abbandonassero in fretta e furia la posizione. Stessa operazione fu messa a segno alcuni giorni dopo su un altra base sovietica, la prima città militare. Con il bottino delle prime due “imprese” la Guardia Presidenziale potè proseguire indisturbata nella confisca dei depositi situati nei pressi della città.

Uomini della Guardia Presidenziale montano la guardia davanti al Palazzo Presidenziale allo scoppio della Prima Guerra Cecena

LA GUARDIA IN AZIONE

La prima azione di una certa importanza nella quale si trovò coinvolta la Guardia Presidenziale occorse il 31 Marzo 1992, quando l’opposizione tentò di rovesciare Dudaev con un colpo di stato. Gli insorti riuscirono a prendere il controllo della TV di Stato ed a portare in piazza parecchie centinaia di persone: in quell’occasione la Guardi fu l’unico reparto a schierarsi senza se e senza ma dalla parte del Presidente, mentre le altre unità dell’esercito e la milizia del Ministero degli Interni tergiversavano, restando in attesa di capire chi avrebbe prevalso tra il Generale ed i suoi oppositori. L’intervento dei pretoriani di Dudaev fu determinante a disperdere la milizia armata dei golpisti, e nel giro di 24 ore riconquistò il centro televisivo e disperse gli insorti.

Un’altra azione di una certa importanza occorse nell’estate del 1992, quando l’opposizione antidudaevita mise in atto un attentato alla vita di Dudaev. Il convoglio presidenziale si trovava presso il villaggio di Dolinsky, quando un potente ordigno esplose al lato della colonna. L’esplosione non coinvolse l’auto del Presidente, ma prese in pieno una delle auto di scorta, ferendo una delle guardie. Fu il primo ferito nella storia della Guardia Presidenziale. Tra il 1992 ed il 1994 l’aumentare della tensione politica rese sempre più impegnativo il lavoro del reparto, il quale in più di un’occasione si trovò sotto il fuoco dell’opposizione armata. Nel Dicembre del 1993 Dzhabrailov, coinvolto in un omicidio di natura familiare, fu arrestato a Makhachkala, in Daghestan e condannato al carcere. Al suo posto Dudaev nominò comandante della Guardia Abu Arsanukaev. La nuova nomina creò parecchia confusione del corpo, e parecchi militari lo abbandonarono, considerano Arsanukaev un carrierista che nulla aveva a che condividere con loro. Così allo scoppio della Prima Guerra Cecena l’organico contava appena 98 persone su 200. Il reparto era piccolo, ma estremamente agguerrito e totalmente fedele al Presidente. Con l’inizio delle ostilità

LA GUARDIA IN GUERRA

Con l’avvio dell’invasione russa la Guardia si mobilitò in servizio permanente. Il Vicecomandante del reparto, Masud Bamatgiriev ideò un’azione simbolica e spettacolare: un reparto di ventitrè guardie avrebbe portato a termine un raid nella base militare russa di Mozdok, uno dei luoghi di partenza delle forze d’invasione. L’azione fu autorizzata, ed ebbe successo. Secondo quanto riportato dai protagonisti dell’attacco furono distrutti dieci velivoli, ed un magazzino di munizioni fu fatto saltare in aria. Durante il raid, tuttavia, Bamatgiriev ed altri due uomini rimasero uccisi.

Rovine di Grozny al termine dell’offensiva federale. Sullo sfondo i ruderi del Palazzo Presidenziale, sventrato dai bombardamenti. Un distaccamento della Guardia difese l’edificio per 18 giorni, respingendo numerosi assalti dell’esercito russo.

Quando le forze federali iniziarono l’attacco a Grozny la Guardia Presidenziale fu divisa in reparti ed assegnata a zone diverse del fronte, dove avrebbe potuto costituire la punta di lancia di reparti meno addestrati ed organizzati. Abu Arsanukaev rimase il comandante formale dell’unità, ma ne perse fin da subito il controllo effettivo. Il primo scontro di una certa entità fu combattuto proprio nei pressi del Palazzo Presidenziale. Un reparto costituito da una ventina di uomini della guardia e da numerosi miliziani di supporto, al comando del Comandante di Compagnia Akhmed Aslambekov intercettò un reparto federale e si lanciò all’attacco, distruggendo 2 carri armati, 2 veicoli blindati per il trasporto truppe e danneggiò altri 17 mezzi di supporto alla fanteria. Il giorno successivo, in un nuovo attacco tra le rovine della capitale il reparto di Aslambekov distrusse 1 carro armato e 6 veicoli blindati. Nei giorni successivi, asserragliata dentro il Palazzo Presidenziale, la Compagnia Aslambekov resistette a numerosi attacchi dell’esercito russo. Un altro distaccamento, schierato nei dintorni della stazione ferroviaria si fece valere partecipando all’annientamento della 136a Brigata dell’esercito federale durante l’Assalto di Capodanno.

Tra il 7 e l’9 Gennaio i federali tentarono nuovamente di prendere il centro di Grozny. La Guardia Presidenziale, schierata in vari punti della città riuscì a respingere gli attaccanti, dichiarando la distruzione di altri 3 mezzi corazzati, 4 veicoli da combattimento e decine di fanti nemici. L’attacco fu fermato, ma il 14 Gennaio fu rinnovato, e stavolta le difese cecene iniziarono a cedere. Tra il 16 ed il 18 Gennaio l’aereonautica iniziò il bombardamento a tappeto del Palazzo Presidenziale, riuscendo a far penetrare al suo interno due bombe di grandi dimensioni, una delle quali detonò uccidendo decine di persone. La notte del 18 Gennaio i sopravvissuti fuoriuscirono dall’edificio, scortando gli uomini dello Stato Maggiore dell’Esercito che vi si trovavano asserragliati, tra i quali il Comandante in Capo Aslan Maskhadov.

Dzhokhar Dudaev passa in rassegna della Guardia Presidenziale in alta uniforme

Tra il Febbraio ed il Marzo del 1995 La Guardia fu la punta di lancia dello schieramento ceceno, partecipando a tutte le battaglie difensive ed assicurando il progressivo ripiegamento delle unità ancora in grado di combattere verso il sud montagnoso della Cecenia. Alla caduta di Grozny, nel Marzo del 1995, la Guardia era ridotta ad un reparto di una venticinquina di uomini. Questi seguirono lo Stato Maggiore dell’Esercito nella sua progressiva ritirata a Sud (prima a Shali, poi a Vedeno, infine a Dargo), svolgendo sia attività militare che compiti di polizia e di controspionaggio. Pattuglie della Guardia combatterono a Serzhen – Yurt tra il 12 Aprile ed il 30 Maggio, infliggendo pesanti perdite ai federali, mentre ad Elistanzhi riuscirono a distruggere un ponte essenziale all’avanzata dei russi, i quali dovettero fermarsi, permettendo ai separatisti di ricostituire le loro linee. Tuttavia alla fine di Maggio del 1995 gli uomini della Guardia rimasti in vita o in grado di operare non erano più di 15. Vennero quindi assegnati alla protezione del Presidente e delle delegazioni che, dal Giugno 1995, iniziarono a negoziare la conclusione del conflitto. Il reparto rimase operativo fino alla fine della guerra, partecipando al raid su Grozny del Marzo 1996 ed all’Operazione Jihad dell’Agosto 1996. Al termine del conflitto, conteggiando i feriti che erano tornati in campo ed alcuni nuovi reclutamenti la Guardia Presidenziale contava 31 uomini e 19 cadetti in addestramento.