06/09/1991 – Assalto al Soviet Supremo

Nel trentaduesimo anniversario dell’indipendenza cecena, pubblichiamo un estratto del primo volume di “Libertà o Morte! Storia della Repubblica Cecena di Ichkeria” nella quale si ripercorrono i fatti che portarono allo scioglimento del Soviet Supremo Ceceno – Inguscio, ed alla proclamazione dell’indipendenza cecena.

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Ai primi di Settembre l’eco del Putsch di Agosto iniziò ad attenuarsi a Mosca e nelle principali città russe, ed Eltsin poté tornare a posare lo sguardo sulle turbolente periferie dell’impero. La Cecenia era passata in stato di agitazione, ma il presidente russo non dava troppo peso ai rapporti allarmanti provenienti dal Soviet Supremo locale. Egli era convinto che tutto quel baccano altro non fosse che un rigurgito anticasta come se ne erano visti tanti in quel periodo nell’URSS. Pensò che sarebbe bastato sostituire Zavgaev con qualcun altro per poter placare gli animi della gente e riportare la Cecenia – Inguscezia alla pace sociale. Così pensò a Salambek Hadjiev, un professore che era salito agli onori della cronaca qualche mese prima, quando era stato nominato Ministro dell’Industria Chimica e del Petrolio del governo sovietico. Nato in Kazakhistan, Hadjiev si era conquistato una posizione in ambito accademico, diplomandosi all’Istituto Petrolifero di Grozny e poi lavorandoci fino a diventarne direttore. Prolifico ricercatore, era membro dell’Accademia delle Scienze, nonché uno dei massimi esperti del settore petrolchimico di tutta la Russia. Noto per essere un moderato antimilitarista (era capo del Comitato per le armi chimiche ed il disarmo) rappresentava a tutti gli effetti l’alter ego “maturo” del capopopolo Dudaev. Eltsin lo apprezzava perché sapeva parlare sia agli intellettuali che agli imprenditori, aveva una visione moderna dello Stato ed era un gran lavoratore. Sembrava avere tutte le carte in regola per competere con il Generale, il quale dalle sua aveva la sua bella divisa, una buona retorica e poco altro. L’idea di sostituire Zavgaev con Hadjiev piacque anche al Presidente del Soviet Supremo Khasbulatov, che come abbiamo visto non aveva certo in simpatia l’attuale Primo Segretario. Hadjiev invece era uomo di alte qualità intellettuali come lui (che era professore) e come lui aveva una visione moderata e riformista. Sistemare uno dei “suoi” al potere in Cecenia gli avrebbe fatto anche comodo in chiave elettorale, quindi si adoperò affinché il cambio avvenisse il prima possibile.

Doku Zavgaev

Khasbulatov si diresse quindi in Cecenia per assicurarsi un indolore cambio della guardia. La sua notorietà, ora che era al vertice dello stato sovietico, la sua cultura e la sua capacità politica gli avrebbero permesso di spodestare l’odioso rivale e di installare una valida alternativa che scongiurasse la guerra civile e favorisse la sua posizione. Tuttavia c’era da fare i conti con i nazionalisti, cresciuti all’ombra della crisi ed insorti durante il colpo di stato.

Per sgominarli Khasbulatov elaborò un piano. Dal suo punto di vista i nazionalisti erano un amalgama di disillusi, disperati e opportunisti, tenuto insieme da un’avanguardia di giovani idealisti incapaci di governare la bestia che stavano allevando. Affrontati sul terreno del dibattito politico, molto probabilmente avrebbero finito per ridursi ad una frazione residuale. Solo il contesto, secondo lui, permetteva loro di occupare la scena. Disperazione e mancanza di alternative erano gli ingredienti della miscela che rischiava di far scoppiare la rivoluzione. Per neutralizzare la minaccia bisognava “cambiare aria”: l’opposizione si era rafforzata contro Zavgaev ed il suo regime corrotto, toglierlo di mezzo era il primo passo da fare. C’era da sostituirlo con qualcuno che avesse dei buoni numeri. E Hadjiev sembrava quello giusto. La soluzione, tuttavia, non poteva calare dall’alto. Era necessario costituire un fronte di consenso alternativo a Dudaev e per questo serviva tempo. I nazionalisti avevano conquistato le piazze cavalcando l’onda della crisi istituzionale. Impantanarli in una diatriba politica lasciando passare il tempo, mentre la situazione si normalizzava, avrebbe tolto ai dudaeviti (così iniziavano a chiamarsi i sostenitori del Generale) il terreno sotto ai piedi. Man mano che le condizioni sociopolitiche si fossero stabilizzate i disperati sarebbero stati sempre meno disperati, i disillusi sempre meno disillusi. La gente avrebbe prestato orecchio a chi invocava la calma e le riforme anziché la rivoluzione e la guerra, ed i radicali sarebbero stati marginalizzati. Infine, con una bella elezione democratica i moderati avrebbero vinto e i rivoluzionari avrebbero perso. Fine della partita.

Un piano perfetto, nella teoria, che però si basava su due variabili non da poco. La Pima: che Dudaev ed i suoi avessero troppa paura di forzare la mano, lasciando così l’iniziativa a lui. La seconda: che a Mosca la situazione non degenerasse ulteriormente. E Khasbulatov, purtroppo per lui, non poteva controllare né la prima né la seconda. Eppure da qualche parte si doveva pur cominciare e così, dal 23 Agosto, il Presidente del Soviet Supremo si recò a Grozny, accompagnato da Hadjiev, con l’intenzione di far fuori Zavgaev. In una turbolenta riunione del Presidium del Soviet Supremo, al Primo Segretario che lo supplicava di autorizzare la proclamazione dello stato di emergenza e di disperdere l’opposizione, Khasbulatov rispose che il ricorso alla forza era tassativamente da evitare, e che la soluzione della crisi avrebbe dovuto essere assolutamente politica, il che significava una cosa sola: dimissioni.

Dopo aver messo Zavgaev con le spalle al muro, si recò a saggiare il suo avversario. Il suo primo colloquio con Dudaev sembrò essere promettente: il Generale lo accolse con affabilità ed accondiscese alla sua proposta di sciogliere il Soviet Supremo e sostituirlo con un’amministrazione provvisoria che traghettasse il Paese elle elezioni. Soddisfatto, rientrò a Mosca convinto di aver portato a casa un bel punto. Il vero obiettivo, tuttavia, lo aveva raggiunto proprio il leader dei nazionalisti. Scoprendo le carte di Khasbulatov, egli aveva ormai chiaro che nessuno avrebbe alzato un dito per difendere il legittimo governo della Cecenia – Inguscezia: sarebbe bastato un casus belli per forzare la mano e prendere il controllo delle istituzioni. Così, mentre a Mosca si brindava alla felice soluzione della crisi, a Grozny i dudaeviti prendevano il controllo della città ed assediavano il governo, ormai privo di un esercito che lo difendesse. Ciononostante Zavgaev non intendeva darsi per vinto. La sua abdicazione avrebbe potuto essere imposta soltanto da un voto del Soviet Supremo, e quasi nessuno dei deputati aveva intenzione di avallarlo, considerato che un attimo dopo lo stesso Soviet sarebbe stato sciolto. Così la situazione rimase in stallo per alcuni giorni, con il governo che non si dimetteva ed i nazionalisti che non abbandonavano le strade.

Dzhokhar Dudaev, circondato dai suoi sostenitori

Tra il 28 ed il 30 Agosto Dudaev iniziò a testare le reazioni di Mosca: la Guardia Nazionale irruppe in numerosi edifici pubblici, occupandoli e sloggiando chiunque vi si opponesse. Da Mosca non giunse un fiato. Allora il Generale ordinò la costituzione di ronde armate che presidiassero le strade, e ancora una volta non vi fu alcuna reazione. Il caos si stava impadronendo del Paese e sembrava che a nessuno importasse più di tanto[1].

Il 1 Settembre Dudaev convocò la terza sessione del Congresso. La Guardia Nazionale presidiava l’assemblea. Tutto intorno volontari armati erigevano barricate. Un gruppo di miliziani penetrò nel Sovmin, lo occupò ed ammainò la bandiera della RSSA Ceceno – Inguscia, issando al suo posto il drappo verde dell’Islam. Dei moderati non c’era più traccia: estromessi nella sessione di Giugno, erano ormai incapaci di condizionare in qualsiasi modo l’opinione pubblica. La scena era tutta per il grande capo, il quale esortò l’Ispolkom a decretare decaduto il Soviet Supremo e ad attribuirsi i pieni poteri. I delegati prontamente aderirono alla proposta, e dichiararono il Comitato Esecutivo unica autorità legittima in Cecenia. Ancora una volta, da Mosca, le reazioni furono tiepide, e per lo più di facciata. Lo stesso Khasbulatov, sottostimando la gravità della situazione, pensò che la sostituzione di Zavgaev sarebbe stata sufficiente a spaccare in due il fronte nazionalista. Adesso, secondo lui, sarebbe bastato costringere Zavgaev ad andarsene e sostituirlo con Hadjiev, o con qualcun altro, per mettere in minoranza i radicali. In realtà quello che stava succedendo a Grozny era qualcosa di molto più serio rispetto al gioco politico che Khasbulatov pensava di portare avanti. Dudaev aveva dalla sua parte quasi tutta l’opinione pubblica, aveva le sue guardie armate e stava costituendo un vero e proprio governo.

La cosa era assolutamente chiara al Primo Segretario, e lo fu ancora di più quando il 3 Settembre, ignorando le direttive di Mosca, egli tentò di introdurre lo stato di emergenza tramite una risoluzione del Presidium del Soviet Supremo: nessun reparto della polizia o dell’esercito rispose alla chiamata. Se molti uomini della Milizia del Ministero degli Interni avevano già cambiato bandiera, quelli che non avevano preso posizione semplicemente evitarono di muoversi. Nuovamente sconfitto, Zavgaev rimase rintanato nella Casa dell’Educazione Politica, dove si era asserragliato coi suoi seguaci. La sera del 6 Settembre, infine, la Guardia Nazionale irruppe anche là dentro: un manipolo di uomini guidato dal Vicepresidente dell’Ispolkom Yusup Soslambekov penetrò nell’edificio. Non si sa se fu un’azione premeditata o il salire dell’agitazione, fatto sta che la folla seguì i miliziani e si mise a devastare ogni cosa. I deputati furono pestati e ridotti al silenzio. Soslambekov mise davanti ad ognuno di loro un foglio ed una penna, ed ordinò che scrivessero le loro dimissioni di proprio pugno. Uno ad uno, tutti i deputati firmarono. Sotto la minaccia di essere giustiziato sul posto Zavgaev firmò un atto di rinuncia nel quale abbandonava “volontariamente” tutti gli incarichi pubblici. Soltanto il Presidente del Consiglio Comunale di Grozny, Vitaly Kutsenko, si rifiutò di firmare. Interrogato da Soslambekov, rispose: Non firmerò. Quello che stai facendo è illegale, è un colpo di Stato! Qualche attimo dopo Kutsenko volò dal terzo piano, schiantandosi al suolo. Più tardi sarebbe stato ricoverato in ospedale, dove sarebbe morto tra atroci sofferenze[2]. I moderati condannarono l’assalto, si dissociarono pubblicamente e fuoriuscirono dal Movimento Nazionale, costituendo una Tavola Rotonda alternativa al Congresso. Zavgaev fu cacciato da Grozny e si rifugiò nell’Alto Terek, sua terra natale. A Grozny l’Ispolkom iniziò ad operare come un vero e proprio governo, costituendo commissioni, emanando decreti ed occupando gli edifici pubblici.

Isa Akhyadov, futuro deputato al Parlamento di seconda convocazione, sulla statua di Lenin abbattuta

A Mosca la notizia dell’insurrezione fu accolta quasi con disinteresse. Ci vollero quattro giorni prima che una delegazione governativa, formata dal Segretario di Stato, Barbulis, e dal Ministro della Stampa e dell’Informazione, Poltoranin, giungesse in Cecenia per provare a ricomporre la crisi. Con Dudaev i due tentarono un approccio “alla sovietica”: negli anni ruggenti dell’URSS, quando un personaggio rappresentava un pericolo per il Partito e non lo si poteva inviare in un gulag a schiarirsi le idee, lo si promuoveva e lo si teneva buono. Poltoranin e Barbulis pensarono che se avessero offerto un ruolo di primo piano a Dudaev questi forse avrebbe colto la possibilità di uscire da quel casino in cambio di un buon posto ed una lauta pensione. Purtroppo per loro il Generale non era solo più furbo di quanto pensassero, ma era anche più coraggioso e determinato, ed in una Cecenia indipendente ci credeva davvero. Così l’incontro si risolse in un nulla di fatto.

Khasbulatov nel frattempo era rientrato in Cecenia, dove sperava di riprendere i negoziati con Dudaev dove li aveva lasciati. L’incontro tra i due si risolse con un nuovo progetto di accordo: il Soviet Supremo “decaduto” sarebbe stato sciolto, e al suo posto si sarebbe costituito un Soviet “provvisorio” che si occupasse dell’ordinaria amministrazione in attesa di nuove elezioni. A questo esecutivo avrebbero partecipato anche esponenti del Congresso. Confortato dall’apparente concessione del leader nazionalista, il Presidente del Soviet Supremo Russo parlò alle masse assiepate in Piazza Lenin. Davanti ad una nutrita folla (che chi addirittura parlò di centomila manifestanti) invitò tutti alla calma, chiese l’interruzione delle manifestazioni ed addossò tutta la colpa a Zavgaev, intimandogli in contumacia di non rifarsi vivo a meno che non volesse essere portato a Mosca in una gabbia di ferro. Infine, convocata un’assemblea straordinaria del Soviet Supremo, indusse i deputati a dimettersi ed a costituire un Soviet Provvisorio di 32 membri, alcuni provenienti dalla vecchia assemblea e alcuni dalle file del Comitato Esecutivo. L’ultimo atto del Soviet Supremo Ceceno – Inguscio fu un decreto con il quale si indicevano nuove elezioni per il 17 Novembre successivo.

Ancora una volta sembrò che la situazione fosse stata recuperata all’ultimo minuto, e Khasbulatov si accinse a tornare ai suoi doveri a Mosca non prima di aver avuto piena raccomandazione, da parte di Dudaev, del rispetto degli accordi. Non ebbe neanche il tempo di atterrare nella capitale russa che fu accolto da una delibera del Comitato Esecutivo del Congresso, appena fatta votare da Dudaev, nella quale l’Ispolkom riconosceva il Soviet Provvisorio come espressione della volontà del Congresso, e lo si diffidava ad andare contro la volontà espressa da esso[3]. La dichiarazione conteneva anche un calendario elettorale diverso da quello concordato: timorosi che la normalizzazione avrebbe indebolito la loro posizione, i nazionalisti decretarono che le elezioni si sarebbero svolte il 19 ed il 27 Ottobre, rispettivamente per le istituzioni del Presidente della Repubblica e del Parlamento. Di quale presidente e di quale parlamento si stesse parlando, a Mosca nessuno lo sapeva con certezza: la Costituzione della RSSA Ceceno – Inguscia non prevedeva nessuna di queste istituzioni. Dal tono della dichiarazione era ormai evidente che il Congresso Nazionale aveva intenzione di proclamare la piena indipendenza.

L’edificio che ospitava il Presidium del Soviet Supremo Ceceno – Inguscio

[1] I disordini esplosi a seguito del Putsch di Agosto avevano portato alla paralisi dei dicasteri governativi, la quale iniziava a mostrare i suoi primi effetti nefasti sulla vita di tutti i giorni. Il 28 Agosto circa quattrocento detenuti della colonia penale di Naursk insorsero, attaccando la guarnigione di presidio, dando alle fiamme le torri di guardia devastando i locali di servizio ed occupando la struttura penitenziaria. Ancora due giorni dopo cinquanta di loro, armati di coltelli ed armi artigianali occupavano un’ala dell’edificio. Tutti gli altri erano evasi, disperdendosi tra i manifestanti.

[2] Non è chiaro se Kutsenko si lanciò dal palazzo in un attacco di panico o se fu deliberatamente defenestrato. Secondo alcuni fu lui stesso a buttarsi di sotto, battendo la testa contro un tombino di ghisa. Altre versioni parlano di una guardia di Dudaev, o dello stesso Soslambekov, il quale lo avrebbe scaraventato contro una finestra al suo rifiuto di firmare le sue dimissioni. Anche riguardo al suo ricovero le testimonianze sono discordanti. Secondo alcuni la folla inferocita si accanì su di lui riempiendolo di calci e sputi. Altri, come lo stesso Yandarbiev nelle sue memorie raccontano che Kutsenko venne prontamente raccolto e portato in ospedale, ma si rifiutò di farsi visitare da qualsiasi medico ceceno per paura di essere finito. Non essendoci medici russi a disposizione finì in coma, per poi spirare qualche giorno dopo. Le indagini riguardo la morte di Kutsenko non avrebbero comunque acclarato nessuna responsabilità. La versione ufficiale riportata dalla Procura fu che il Presidente del Consiglio Comunale di Grozny si era volontariamente buttato di sotto, impaurito dalla calca.

[3] Il testo della dichiarazione, organizzato in sedici punti programmatici, iniziava condannando il Soviet Supremo, colpevole di aver perduto il diritto di esercitare il potere legislativo, di aver compiuto un tradimento degli interessi del popolo e di aver voluto favorire il colpo di Stato. Al Soviet Provvisorio venivano nominati alcuni dei principali esponenti politici del Congresso (Hussein Akhmadov come Presidente, oltre ad altri nazionalisti scelti tra le file del VDP). Il Soviet avrebbe operato nel rispetto del mandato affidatogli dal Congresso: se si fosse verificata una crisi di fiducia questo sarebbe stato ricusato dal Comitato Esecutivo e prontamente sciolto. Si invocava inoltre la solidarietà dei Parlamenti di tutto il mondo e dei paesi appena usciti dall’URSS, in opposizione al tentativo delle forze imperiali di interferire e continuare il genocidio contro il popolo ceceno.

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