L’imboscata di Dzhani Vedeno fu uno dei più importanti fatti d’armi della Seconda Guerra Cecena, ed uno degli ultimi ascrivibili alla cosiddetta “fase militare” del conflitto. Il 18 Febbraio di quest’anno i servizi di sicurezza federali hanno arrestato tre ex militanti che allora presero parte all’attacco, il quale costò la vita a 43 militari tra funzionari OMON della polizia e soldati della Divisione Taman, oltre 17 feriti.
PREMESSE
Con la presa di Grozny (1 – 6 Febbraio 2000) e la conquista di Shatoi (22 – 29 febbraio 2000) l’esercito russo aveva costretto le ultime grandi unità dell’esercito separatista a frammentarsi in più tronconi: un piccolo distaccamento si era diretto sulle montagne al seguito di Maskhadov, mentre due grossi gruppi da combattimento di erano diretti ad Ovest (gruppo Gelayev) in direzione di Komsomolskoye (dove avrebbe combattuto l’omonima battaglia tra il 5 ed il 20 Marzo) e ad Est (gruppo Khattab) in direzione di Vedeno. Quest’ultimo si era fatto strada verso il sudest della Cecenia sfondando le linee russe all’altezza di Ulus – Kert, in una battaglia che avrebbe preso il celebre nome di “Battaglia per la Quota 776” (28 Febbraio – 2 Marzo). Nonostante le grosse perdite subite, il distaccamento di Khattab (del quale facevano parte numerosi foreign fighters caucasici, arabi e centroasiatici) era riuscito a guadagnare la salvezza, potendo così riorganizzarsi e preparare una risposta ai gravi rovesci militari patiti dai separatisti nelle settimane precedenti. L’occasione fu fornita dallo stesso comando federale alla fine di Marzo, quando una colonna di polizia miliare, scortata da tre veicoli blindati al comando di un giovane ed inesperto comandante, il Maggiore Valentin Simonov, fu inviata da Vedeno a portare a termine un’operazione di pattugliamento nel villaggio di Tsentaroy, dove nei giorni precedenti si erano segnalati movimenti sospetti.
La mappa interattiva mostra le prime fasi della Seconda Guerra Cecena, dalla tarda estate del 1999 alla caduta di Grozny
LA COLONNA SI MUOVE
All’alba del 29 Marzo il convoglio, composto da 49 uomini (41 agenti di polizia antisommossa provenienti dai distretti di Perm e Berezniki più 8 militari della Divisione Taman) si mise in viaggio su tre veicoli: un veicolo da trasporto URAL, un camion ZIL – 131 ed un blindato per il trasporto della fanteria, un “iconico” BTR – 80 armato con una mitragliatrice pesante. I tre veicoli erano in quest’ordine di marcia. Giunta all’altezza della fattoria di Dzhani – Vedeno, a circa dodici chilometri dalla cittadina di partenza, il motore della ZIL si surriscaldò, costringendo la colonna a fermarsi. La zona era occupata da uno dei distaccamenti di Khattab, al comando del suo luogotenente Abu Kuteyb (anch’egli arabo, veterano della prima guerra cecena oltre che di molti altri fronti “jihadisti”). Il distaccamento separatista era appostato nei pressi della fattoria ed alcuni miliziani erano sistemati negli edifici del piccolo abitato.
Il reparto federale era composto per lo più da giovanissime reclute, le quali non possedevano l’addestramento necessario ad operare in un simile contesto. In particolare non venne istituito un perimetro di difesa, né, predisposta una formazione a riccio per difendere i veicoli da un’eventuale aggressione. Secondo quanto riportato in seguito sulla stampa, il comando della colonna non conosceva le frequenze radio delle unità aviotrasportate che avrebbero potuto portare un soccorso immediato in caso di attacco, e in ogni caso il convoglio possedeva un solo dispositivo radio, localizzato dentro il BTR, considerato il bersaglio principale di un’ipotetica imboscata. Lo stesso comandante del gruppo, Dmitrevich, si recò presso una abitazione unifamiliare a qualche decina di metri di distanza per chiedere dell’acqua con la quale raffreddare il motore dello ZIL, accompagnato soltanto da un poliziotto OMON munito di telecameraa. L’evento (ed i primi istanti della battaglia) venne filmato da quella telecamera. Il filmato è ancora disponibile QUI.
Elementi del gruppo di unità federali coinvolto nell’imboscata
L’IMBOSCATA
Dentro la casa erano asserragliati alcuni militanti del gruppo di Kuteyb, i quali aprirono immediatamente il fuoco uccidendo Simonov e l’operatore che era con lui. L’improvvida azione del Maggiore lasciò il reparto privo di un comandante fin dai primi attimi della battaglia, rendendo ancora più difficile il cordinamento della risposta federale. Nel giro di pochi secondi i separatisti si abbatterono con la colonna facendo ampio uso di armi leggere e di lanciagranate. I federali non erano neanche scesi dai loro automezzi, segno evidente della scarsa preparazione militare che era stata loro fornita. Rimasti seduti ai loro posti, divennero un facile bersaglio per i miliziani appostati tutt’intorno. Come da tattica ormai rodata, colpi di RPG si abbatterono sul camion URAL in testa alla colonna e sul BTR in coda, paralizzando il convoglio. Il mitragliere del BTR tentò di dare copertura sparando all’impazzata contro la collina che sovrastava la strada, facendo guadagnare ai superstiti qualche secondo utile per scendere dai veicoli e posizionarsi in un perimetro difensivo. Sparò finché un secondo colpo non prese in pieno il veicolo, incendiandolo ed uccidendo lo stesso mitragliere. La distruzione del BTR privò i militari dell’unica stazione radio mobile in grado di trasmettere al Comando.
La colonna si era fermata intorno alle 06:30, e la battaglia iniziò oltre un’ora dopo, ma ci volle fino alle 09:30 perché i comandi federali inviassero i primi soccorsi. Essendo rimasti privi di contatto radio, gli ufficiali del comando non presero contromisure finchè il pilota di un elicottero che sorvolava la zona non comunicò, intorno alle 9:00 di aver individuato uno scontro a fuoco nei dintorni di Dzhani Vedeno. Solo allora si mosse da Vedeno una colonna di soccorso, ma Kuteyb aveva previsto questa eventualità, e dovendo difendere un unico punto di accesso al luogo della battaglia (cioè l’unica strada carrabile che da Vedeno raggiungeva Dzhani Vedeno) gli fu sufficiente inviare un distaccamento poco più avanti e tentare di ripetere l’azione con il secondo gruppo. Poco dopo le 10:00 la colonna di soccorso cadde nell’imboscata preparata da Kuteyb: il veicolo blindato in testa al convoglio fu colpito e incendiato, ed i federali, temendo di finire bloccati come i loro commilitoni più avanti, si decisero ad arretrare. L’azione produsse comunque alcuni risultati positivi per gli uomini di Simonov: avendo infatti dovuto ritirare parte dei suoi uomini per contrastare il secondo gruppo di federali, Kuteyb indebolì l’anello di assedio intorno al primo gruppo, dal quale riuscirono a sganciarsi sei elementi (cinque poliziotti ed un soldato della Taman) i quali tentarono di raggiungere le linee russe, o di portarsi dietro quanti più miliziani possibile nel tentativo di alleggerire la pressione sui loro commilitoni.
Resti dello ZIL – 131 distrutto durante l’attacco
I resti del primo gruppo, ormai isolato, continuarono a combattere per tutto il giorno. L’ultimo messaggio che pervenne via radio fu trasmesso alle 16:45 dal soldato Vasily Konshin, il quale aveva preso il comando del gruppo dopo la morte del Maggiore Simonov. In esso egli raccomandava ai suoi uomini di sparare “a colpo singolo”, segno che le munizioni dovevano essere quasi esaurite. Per quell’ora nessuna unità di soccorso era ancora riuscita a raggiungere il luogo dell’imboscata.
L’ARRIVO DEI SOCCORSI E L’ESECUZIONE DEI PRIGIONIERI
I reparti federali riuscirono ad arrivare al luogo dell’agguato soltanto due giorni dopo, il 31 Marzo 2000. Il luogo della battaglia era ormai deserto, e sulla strada furono rinvenuti i corpi di 31 russi uccisi e di due combattenti di origine araba al seguito di Kuteyb. Tra i cadaveri i soccorritori trovarono un poliziotto gravemente ferito alle gambe ma ancora vivo: si trattava di Alexander Prokopov, miracolosamente scampato alla morte (in seguito avrebbe avuto una gamba amputata) probabilmente creduto morto dai miliziani dopo che, esaurite le munizioni, i superstiti della colonna si arresero loro. Nei giorni successivi Shamil Basayev, comandante separatista di quel fronte, si dichiarò disposto a consegnare i 12 prigionieri che dichiarava di avere in custodia (tra questi c’erano anche almeno 5 dei 6 militari riusciti a sfuggire all’accerchiamento nella tarda mattinata del 29 febbraio) a fronte della consegna di un Colonnello dell’esercito federale, Yuri Budanov, indagato per lo stupro e l’omicidio di una ragazza cecena. Al rifiuto dei comandi di consegnare l’ufficiale, Basayev dichiarò che avrebbe attuato una rappresaglia sui prigionieri i quali, effettivamente furono giustiziati e seppelliti nei pressi di Dargo, dove i loro corpi furono rinvenuti il 1° Aprile successivo. Dalle analisi forensi risultò che i prigionieri avevano molto probabilmente subito gravi percosse, e che furono giustiziati tramite sgozzamento.
Militari russi ispezionano la carcassa del BTR distrutto durante l’agguato
CONSEGUENZE
L’imboscata di Dzhani Vedeno rese chiaro ai comandi federali che le forze separatiste, date ormai per sconfitte, erano ancora in grado di controllare significative zone della Cecenia meridionale, possedevano discrete quantità di armi ed erano in grado di tenere sotto scacco grandi distaccamenti anche sulle principali vie di comunicazione. Nell’Aprile del 2000 l’esercito russo dovette lanciare numerose azioni militari, impiegando centinaia di soldati, artiglieria campale e forze aeree.
Perseverando nella logica di considerare i separatisti alla stregua di banditi, la Federazione Russa aprì un’indagine, considerando la battaglia come un “agguato” alle forze di sicurezza federali. Nel 2001 si aprì un processo nella capitale daghestana di Makhachkala ai danni di 6 imputati tutti daghestani, accusati di aver preso parte all’imboscata. Dalla ricostruzione degli eventi emerse che con molta probabilità Kuteyb non aveva predisposto in anticipo le manovre per l’attacco, e che l’imboscata fu frutto di una serie di particolari circostanze, come la presenza fortuita di alcuni dei suoi reparti nella zona delle operazioni, il guato al motore dello ZIL russo e l’improvvida decisione del comandante del convoglio di procedere con una certa leggerezza alle perlustrazioni in cerca di acqua per il radiatore del veicolo.
Il 1° Luglio 1989 Doku Zavgaev, già Ministro dell’Agricoltura, fu eletto Primo Segretario del Partito. Fu il primo ceceno dai tempi della deportazione del 1944 a ricoprire una carica di vertice nella RSSA Ceceno – Inguscia, e non era certo un caso che fosse proprio un Ministro dell’Agricoltura: questo dato, forse più di ogni altro, dimostra come il sistema di “apartheid socioeconomica” applicato nel Paese fosse rodato. L’elezione di Zavgaev fu vista dai ceceni come l’opportunità per accorciare la distanza con la minoranza russa, cui fino ad allora erano state riservate le migliori opportunità lavorative e politiche. Il nuovo leader ceceno cercò di ammansire i più esagitati, senza tuttavia cedere al nazionalismo: del resto egli era ben cosciente che la componente russa della repubblica costituiva la stragrande maggioranza della popolazione culturalmente e professionalmente qualificata, e sapeva che se questa fosse di colpo venuta a mancare la Repubblica si sarebbe trovata in pessime acque.
D’altra parte Zavgaev era anche assai desideroso di aumentare e mantenere il suo potere personale, cosicché si mise a puntellare la sua posizione con una profusione di nomine clientelari e familiari, sfruttando poi le alleanze conseguite con questa politica per farsi eleggere Presidente del Soviet Supremo Ceceno – Inguscio. In questo modo egli assommò su di sé la suprema carica politica e la suprema carica amministrativa della Repubblica: essendo ancora in vigore il sistema del partito unico, ciò significava acquisire un potere quasi illimitato. Questa escalation fu sancita in maniera ancora più netta quando, a seguito degli eventi innescati dal Congresso Nazionale del Popolo Ceceno (ne abbiamo scritto profusamente QUI) Zavgaev si risolse a deliberare la Dichiarazione di Sovranità, con la quale fu sancita la predominanza delle leggi varate in Cecenia su quelle dell’URSS.
Questa repentina assunzione di potere garantì a Zavgaev una libertà di manovra senza precedenti, ma d’altro canto lo privò dell’appoggio che il regime sovietico poteva fornirgli qualora i nazionalisti radicali avessero preso il controllo della piazza. Ciò fu chiaro nell’Agosto del 1991, quando a seguito del cosiddetto “Putsch di Agosto” i secessionisti al seguito del Generale Dudaev presero il controllo delle istituzioni e lo estromisero dal governo in quella che fu chiamata “Rivoluzione Cecena” (Agosto – Novembre 1991). Zavgaev abbandonò il Paese sotto minaccia di morte, lasciandolo nelle mani di Dudaev.
Doku Zavgaev. Ex Ministro dell’Agricoltura, venne eletto alla guida del PCUS locale nel 1989 . Nel Marzo 1990 fu eletto anche Presidente del Soviet Supremo Ceceno – Inguscio, assommando su di sè le massime cariche politiche del partito e dello Stato.
I
L GOVERNO RIVOLUZIONARIO
Il composito fronte politico che acquisì il controllo delle istituzioni cecene nel Novembre 1991 era tutt’altro che concorde sull’idea di cosa si dovesse fare per costruire la “nuova Cecenia”. Tra i rivoluzionari c’erano i moderati, per lo più di estrazione intellettuale e borghese, che volevano negoziare con la Russia un nuovo trattato federativo in cambio di laute concessioni economiche e politiche, c’erano i secessionisti laici, sostenitori di una trasformazione del paese in una democrazia parlamentare di stampo occidentale, ed i secessionisti radicali, fautori di un sistema politico fortemente incentrato sulla tradizione islamica del Paese. Anche sotto il profilo economico il rassemblement rivoluzionario era diviso tra i sostenitori della liberalizzazione, rappresentanti dal capo del “gabinetto degli imprenditori” Yaragi Mamodaev ed i fautori del “socialismo islamico”, contrari alla privatizzazione delle terre e disposti ad accettare l’introduzione della proprietà privata soltanto a condizione che la direzione dell’economia rimanesse subordinata all’autorità statale. Questi ultimi erano i seguaci di Zelimkhan Yandarbiev, leader del Partito Democratico Vaynakh (il principale movimento nazionalista radicale) ed intimo confidente del nuovo Presidente della Repubblica, Dzhokhar Dudaev.
Concentriamoci su questi ultimi, giacché fu la fazione dei radicali a vincere la battaglia per il potere. Il Partito Democratico Vaynakh era nato dallo sforzo di alcuni intellettuali (tra i quali lo stesso Yandarbiev) ma si rivolgeva prima di tutto alle masse popolari rurali, e in particolar modo proprio a quelle “eccedenze” delle quali abbiamo parlato nell’articolo precedente. Si trattava di persone che vivevano ai margini del sistema, e per questo se ne sentivano escluse. Il sentimento più forte in loro era il nazionalismo revanscista, tipico delle masse colonizzate desiderose di riappropriarsi del potere politico e invidiose del benessere delle élite al quale non partecipavano. Dal loro punto di vista lo stato ceceno doveva tornare nelle loro mani, così come tutti i mezzi di produzione dell’economia. Lo Stato avrebbe dovuto garantire casa e lavoro ai ceceni, se necessario sacrificando le componenti “estranee” all’etnia Vaynakh, ed avrebbe dovuto salvaguardare le ricchezze del Paese dalla privatizzazione selvaggia che stava aggredendo tutte le repubbliche dell’impero sovietico.
Una volta preso il potere, Dudaev iniziò a dar forma al nuovo stato partendo dalle posizioni dei radicali: a differenza di quanto stava accadendo in Russia, dove la proprietà pubblica stava venendo parcellizzata e privatizzata in maniera veloce e brutale, il governo rivoluzionario si rifiutò di svendere il patrimonio pubblico, opponendo un secco rifiuto alle proposte avanzate da Mamodaev e dal suo “Gabinetto degli imprenditori”. Una particolare rigidità riguardo questo tema fu dimostrata nel caso della privatizzazione delle aziende agricole di stato, detentrici dei più vasti e produttivi appezzamenti di terreno, nonché della maggior parte dei sistemi meccanizzati. Dudaev si oppose dal primo all’ultimo giorno alla vendita delle fattorie collettive, senza tuttavia avere le risorse per mantenerle: come abbiamo visto, infatti, l’agricoltura cecena era fortemente sovvenzionata dal governo sovietico, e gravata da una mole di debiti gigantesca. L’ostinatezza con la quale il governo separatista si mise di traverso a qualsiasi privatizzazione lasciò queste aziende esposte all’insolvenza ed al fallimento nel giro di pochi mesi dalla proclamazione dell’indipendenza. Le proprietà pubbliche, abbandonate a sé stesse, finirono saccheggiate, o furono occupate abusivamente e lavorate come fossero proprietà private.
La situazione, nel complesso, era piuttosto tragica: nel novembre del 1991 il 40% dei ceceni in età da lavoro non possedeva un’occupazione stabile, e le cosiddette “eccedenze rurali” riuscivano a sopravvivere soltanto tramite i lavori stagionali all’estero la cui richiesta, come abbiamo detto, era quasi sparita. Questa massa di “disoccupati militanti” non aveva letteralmente di che sopravvivere, ed alla dichiarazione di indipendenza si dette al saccheggio delle proprietà statali. Non si trattò di un processo organizzato: fu piuttosto un “effetto collaterale”, nel quale l’euforia della ribellione si confuse con una corsa alla “privatizzazione fai da te” dei beni e dei macchinari agricoli delle fattorie collettive. Dalle aziende di stato sparirono animali, prodotti agricoli, trattori, utensili e macchine di ogni tipo, che riapparirono nei campi delle famiglie private. Molte aziende rimasero senza braccianti e senza patrimonio, andando in malora, mentre la mancanza di agronomi qualificati produsse danni enormi alla produzione agricola. Il giornalista Timur Muzaev, uno dei più attenti osservatori della situazione sociopolitica cecena in quegli anni, riportò nel suo periodico “monitoraggio politico” del paese la progressiva spoliazione delle proprietà pubbliche. Giusto per citarne un esempio, nei distretti settentrionali del paese:
“La dissoluzione delle ex strutture economiche ha portato al sequestro del bestiame delle fattorie collettive. […] Le informazioni ricevute su ciò che sta accadendo nel vicino distretto di Naursk possono, a nostro avviso, chiarire il quadro generale: delle 153.000 pecore che erano nelle fattorie statali nel 1990, solo 49.000 sono rimaste entro la fine dell’ultimo inverno [1992 – 1993] il numero di suini è diminuito di 8 volte e quello del bestiame di 3 volte. […] La popolazione […] si è rivelata impreparata a prendersi cura delle mandrie. Il raccolto è stato coltivato su centinaia di ettari nell’estate del 1992, ma i bovini randagi lo hanno quasi completamente distrutto, calpestando riso e mais pronti per la raccolta. Tutto il lavoro investito dalle persone è stato distrutto sul nascere. […] Vi è un rapido saccheggio del parco agricolo delle aziende collettive. Di conseguenza, anche dove arrivano le forniture di benzina, il lavoro sul campo non viene eseguito, perché le attrezzature vengono saccheggiate, ed i sequestratori chiedono un riscatto alle amministrazioni locali per restituirle. Le fattorie collettive “Chervlennaya”, “Kavkaz” e Vinogradny” sono rimaste senza macchine agricole. Secondo alcuni esperti, in Cecenia nel 1992 non è stato seminato grano. […] Le difficoltà economiche sono aggravate dal crimine dilagante da un lato, dal caos istituzionale delle autorità locali dall’altro.”
Per effetto di questo meccanismo di “esproprio proletario”, il sistema agricolo Ceceno si avviò su un “doppio binario” assolutamente peculiare: da una parte c’erano le aziende collettive, formalmente detentrici della maggior parte delle terre, che tuttavia erano improduttive a causa della mancanza di fondi e venivano spogliate di tutte le loro proprietà dai privati cittadini affamati e senza lavoro. Dall’altra c’era la piccola e piccolissima impresa agricola, quasi sempre sommersa, molto spesso dedita ad un’economia familiare di sussistenza e priva delle risorse per mandare avanti un vero e proprio business, che deteneva la stragrande maggioranza della ricchezza reale del settore agricolo pur non avendone i diritti ed il riconoscimento statale. Si trattava, in sostanza, di un meccanismo totalmente abusivo il quale, senza controlli, spogliava il legittimo sistema di produzione pubblico, trasformandolo in un guscio vuoto. Giusto per citare qualche numero, dieci anni dopo gli eventi della Rivoluzione Cecena nel paese erano formalmente attive 722 imprese agricole registrate, detentrici del 75,5% dei terreni agricoli le quali tuttavia amministravano appena il 14% del bestiame presente nella repubblica, mentre le 436 cooperative contadine (anch’esse società di origine socialista) ne contavano appena il 2,40%. L’83,5% del bestiame era distribuito tra la popolazione rurale, che ne faceva per lo più un uso familiare.
Si può dire che la privatizzazione dell’agricoltura cecena fu fatta dai contadini nonostante lo Stato, e non grazie ad esso, e fu fatta per regressione, non cioè affidando la terra ad investitori intenzionati a sfruttarla per profitto, ma lasciando che i contadini se ne appropriassero come se fosse un open field, un “campo aperto” di medievale memoria. Il Ministro dell’Economia di allora, Taymaz Abubakarov ricorda nel suo libro di memorie “Il Regime di Dzokhar Dudaev” che già nel 1992, attraverso il sequestro spontaneo delle terre, circa centomila ettari di campi arabili erano scomparsi dalla disponibilità delle aziende pubbliche, e di come queste fossero oggetto di un vivace mercato fondiario illegale.
Isa Akyadov, futuro Commissario alle Dogane della Repubblica Cecena di Ichkeria, posa sui resti della statua di Lenin, abbattuta dai rivoluzionari nell’autunno del 1991.
GLI EFFETTI ECONOMICI
Gli effetti economici di questo progressivo deterioramento del sistema agricolo furono evidenti fin dal 1992: a metà dell’anno la produzione di carne era diminuita dell’82,5%, quella degli insaccati dell’81,2%, e quella dei prodotti lattiero – caseari del 75,1%. Il meccanismo economico si era di fatto inceppato, e la situazione aggravava ulteriormente la già critica situazione dei prezzi di mercato, che dal gennaio 1992 erano stati lasciati liberi di fluttuare, raggiungendo talvolta incrementi dell’800%. Per cercare di calmierare i prezzi Dudaev aveva introdotto una serie di garanzie statali sull’acquisto dei beni alimentari di base, come il pane: lo Stato avrebbe garantito l’acquisto del pane al costo fisso e simbolico di 1 rublo al chilo, come meglio spiegato nel libro “Libertà o Morte! Storia della Repubblica Cecena di Ichkeria” (Acquistabile QUI). Ne riportiamo un breve passo:
Una conseguenza del sentimento socialista di Dudaev era l’interventismo economico a favore delle fasce deboli. Il primo intervento in politica economica di Dudaev fu la creazione di Comitato dei Prezzi che sovrintendesse alla calmierazione delle tariffe. “Il prezzo non può essere spontaneo, dovrebbe essere adeguato alla possibilità della gente” ripeteva. Per questo motivo Dudaev decretò che il pane venisse venduto alla cifra simbolica di 1 rublo al chilo. Lo Stato si sarebbe fatto carico della spesa. Nel giro di 12 mesi il bilancio pubblico non avrebbe potuto più sopportare un simile meccanismo assistenziale, che fra l’altro generava una fortissima speculazione (i ceceni prendevano il pane ad un rublo al chilo ed andavano a rivenderlo all’estero, o al mercato nero, a prezzi maggiorati).
Il tentativo di Dudaev di bloccare la regressione dell’economia cecena verso un sistema di autosostentamento medievale cozzava contro la cronica insolvenza del bilancio statale, il quale poteva fare affidamento su poche, magre entrate, sufficienti a mala pena al pagamento degli stipendi dell’esoso e pervasivo comparto statale di epoca sovietica. Nel giro di pochi mesi i negozi pubblici deputati alla distribuzione di generi alimentari rimasero vuoti, con i prodotti che raramente riuscivano a resistere sugli scaffali per più di qualche ora dall’apertura. La popolazione, in assenza di sicurezza, si dedicò alla coltivazione degli orti ed all’allevamento di piccole quantità di animali da cortile, per avere di che sfamarsi.
Per cercare di frenare l’anarchia del comparto agricolo, che come abbiamo visto stava producendo nefasti effetti sulla produttività e sui prezzi, Dudaev intervenne alla fine del 1992 con una sorta di “esproprio generale” delle proprietà pubbliche e cooperative, e con la loro irregimentazione in un “supeministero” dell’Agricoltura responsabile della gestione delle aziende collettive, degli impianti di produzione di materiali e macchinari, e persino delle banche, per le quali fu istituito l’obbligo di accorpare i flussi di cassa a quello della neonata Banca Nazionale Cecena. Tutti i proventi delle attività pubbliche non necessari al funzionamento delle aziende avrebbero dovuto essere versati sul fondo governativo ivi istituito, dal quale il governo avrebbe poi diretto la distribuzione delle risorse al fine di razionalizzare le spese e riprendere il controllo della produzione nazionale.
Il vantaggio gestionale acquisito da questa radicale presa di posizione, la quale per certi versi superava lo stesso meccanismo socialista reintroducendo una sorta di “economia pianificata di guerra” venne tuttavia presto dilapidato dalla politica dudaevita di supporto alle fasce deboli della popolazione, con l’intestardito ricorso alla calmierazione dei prezzi del pane, il quale divorava una significativa parte del budget repubblicano ed avvantaggiava l’acquisto per speculazione sul mercato nero. In sostanza, il sistema del sovvenzionamento sovietico al settore agricolo fu sostituito da un sovvenzionamento indiretto da parte dello stato secessionista, il quale continuò ad acquistare prodotti agricoli dalle aziende pubbliche a costo di mercato ed a distribuirlo alla popolazione a prezzi di gran lunga inferiori, accumulando ulteriore debito e mantenendo le casse dello Stato in un continuo stato di insolvenza.
Col tempo, data la scarsità di risorse economiche (e in certi momenti addirittura di cartamoneta) il governo iniziò ad utilizzare la stessa produzione agricola come moneta alternativa al pagamento di stipendi e pensioni, ritirando direttamente dalle aziende pubbliche il prodotto agricolo e distribuendolo ai beneficiari come contropartita per il salario che non era in grado di corrispondere. Mentre Dudaev e Abubakarov tentavano di mantenere il controllo della produzione agricola, i direttori delle aziende agricole portavano avanti un vivace mercato sommerso, sfruttando il diritto concesso loro dal governo di vendere parte della produzione per il pagamento degli stipendi prendendosi sovente la libertà di vendere quote ben superiori, intascando i proventi e facendoli sparire. Gli stessi generi alimentari di base, calmierati per legge, venivano regolarmente contrabbandati in Russia sfruttando la scarsa capacità del governo di controllare i confini. Sherip Asuev, corrispondente della ITAR – TASS e autore del libro “Così è stato”(una raccolta di bollettini giornalistici che ripercorre giorno per giorno gli anni 1992 – 1994 scaricabile QUI ) scriveva nel 1992:
Il congelamento artificiale dei prezzi sta già creando molti problemi nella repubblica. Da qui i prodotti da forno vengono trasportati in sacchi e la benzina con le autocisterne. Si presume che il controllo doganale ai confini della repubblica sarà rafforzato.”
E ancora
“La legge sulla responsabilità amministrativa per alcuni tipi di reati presuppone una punizione rigorosa per il tentativo di esportare illegalmente beni di consumo, prodotti industriali, attrezzature e macchinari dalla repubblica. E’ inoltre vietata l’esportazione di tutti i tipi di alimenti. Multe salate, o arresti da uno a tre mesi, minacciano i lavoratori che hanno cercato di nascondere beni e prodotti o di venderli in modi illeciti. A molte persone, a quanto pare, piaceranno queste misure, ma è improbabile che garantiscano abbondanza sugli scaffali. Nel commercio statale ora a Grozny e nelle zone rurali della Repubblica è possibile acquistare solo pane e verdura in scatola. E nei mercati i prezzi aumentano letteralmente di ora in ora. Un pacchetto di sigarette sovietiche costa 20 rubli. Puoi comprare patate, carote, cavoli solo per un pezzo d’oro al chilogrammo. Il Consiglio degli Anziani della Repubblica ha vietato di aumentare il prezzo della carne oltre i 25 rubli. Naturalmente nessuno la venderà ad un prezzo del genere e la carne è praticamente scomparsa dai mercati.[…]”.
Una donna cerca di vendere qualche salsiccia in un mercato di Grozny, praticamente vuoto.
IL SISTEMA COLLASSA
Le misure di contenimento adottate dal governo Dudaev tra il 1992 e il 1993 non produssero risultati tangibili, un po’ per via della crisi economica che attanagliava l’intera zona – rublo, un po’ a causa della scarsa capacità di controllo del governo centrale, nel frattempo finito ostaggio delle bande militari che lo sostenevano. Esasperato, Dudaev giunse nel Dicembre del 1993 a vietare a qualsiasi struttura commerciale ed agli stessi cittadini di cuocere il pane senza una specifica licenza statale, ed a vietare completamente la vendita dei prodotti da forno da parte di qualsiasi impresa o cittadino privato che non fossero autorizzati dal governo. Le pene per la violazione di tale obbligo furono elevate al sequestro di tutte le materie prime e dei mezzi di produzione, e alla condanna penale fino a due anni. In ordine ad evitare una “fuga del pane” a scopi speculativi, venne proibita la vendita dei prodotti da forno a coloro che non fossero cittadini della Repubblica.
Nel frattempo la produzione agricola continuava a calare a ritmi vertiginosi, man mano che le attrezzature si deterioravano o venivano deliberatamente saccheggiate, per essere rivendute fuori dalla Cecenia. Il ricercatore S.A. Lipina, nel suo “Repubblica Cecena: potenziale economico e sviluppo strategico” scriveva nel 1998:
Rispetto al 1991, il parco macchine è diminuito di quattro volte. La fornitura di trattori al settore agricolo è diminuita di 3,3 volte, le mietitrici di cereali 4 volte, i camion 4,2 volte, una situazione simile si registra con le altre macchine agricole. Sfortunatamente non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente. L’attrezzatura tecnica dei lavoratori agricoli è estremamente carente, il lavoro agricolo viene svolto in violazione dei protocolli di qualità, il che a sua volta porta naturalmente a perdite significative durante la raccolta.
L’esiguità delle risorse a disposizione dei lavoratori agricoli impediva un utilizzo costante di fertilizzanti e prodotti fitosanitari, riducendo ulteriormente la già scarsa produttività dei terreni. Così, al netto della crisi economica che attanagliava tutto lo spazio post sovietico, le perdite di produttività del settore agricolo ceceno raggiunsero tra il 1993 e il 1994 numeri spaventosi. Mettendo a confronto lo stato della produzione agricola in Russia tra il 1991 ed il 1994 (rispetto al periodo 1986 – 1990) con il medesimo dato ceceno, notiamo che mentre l’agricoltura russa era ancora in grado di produrre circa il 90% di quanto prodotto nel periodo pre – collasso politico, l’agricoltura cecena riusciva a mala pena a raggiungere la metà del prodotto (53%) in un momento in cui la produzione agricola era pressochè l’unica attività, dopo il petrolio, in grado di tenere in piedi l’economia del paese.
Miliziano separatista trasporta filoni di pane sequestrato
Lo stato di prostrazione economica si acuì ulteriormente nel corso del 1994, quando il fronte antigovernativo passò dall’opposizione politica alla lotta armata, innescando una vera e propria guerra civile. Questa esplose nell’estate del 1994, protraendosi a fasi alterne fino al Dicembre dello stesso anno quando, dopo che l’opposizione armata fu sconfitta sul campo dalle forze lealiste, la Federazione Russa invase il paese dando avvio alla Prima Guerra Cecena.
Tra le tante mancanze che la storiografia occidentale ha in relazione alla storia recente della Cecenia, c’è sicuramente quella di non aver mai approfondito le ragioni del conflitto sociale che fu all’origine della Rivoluzione Cecena, della secessione dalla Russia e delle due sanguinose guerre che dilaniarono il paese. Anche i più attenti tra i giornalisti che si sono occupati di questo tema si sono fermati alla definizione del conflitto russo – ceceno come di una “guerra per il petrolio” intrecciata con un confronto politico tra il regime ultranazionalista di Dudaev ed i revanscisti russi del cosiddetto “partito della guerra”. Tutto questo è vero: certamente nazionalismo radicale ed interessi petroliferi furono due elementi essenziali a spingere la Cecenia sulla via dell’indipendenza, e da lì nella spirale autodistruttiva dell’anarchia e del fondamentalismo. Tuttavia entrambi i fenomeni sono “concause”, derivanti da un problema socioeconomico precedente, mai risolto, detonato al crollo dell’URSS. Questo problema non stava nelle raffinerie, né nelle assemblee legislative, ma tra i campi e i pascoli dove la maggior parte dei ceceni risiedeva.
Questo ciclo di articoli è un focus sulla storia agricola della Cecenia. Che poi è la storia della maggior parte dei ceceni fino al 1991.
Guardando la carta fisica della Cecenia salta subito all’occhio come questa sia divisa in due aree geografiche ben distinte: c’è una “regione delle pianure” a Nord, ed una “regione delle montagne” a sud. Fin dal loro insediamento in queste terre, gli antenati dei ceceni si organizzarono in clan (i cosiddetti “Teip”) che si identificavano con la loro collocazione geografica: quelli del sud si definirono “teip della montagna” e si dedicarono all’allevamento, mentre quelli del nord divennero i “teip della pianura” e svilupparono l’agricoltura. Tra i due gruppi di clan si svilupparono fitti rapporti economici, con i pastori del sud che ogni anno scendevano a valle per commerciare i prodotti dell’allevamento in cambio di frumento per i loro animali e di farina per sfamarsi, ma parallelamente si produssero anche delle differenze culturali: gli abitanti del sud rimasero culturalmente più rigidi, meno inclini alla contaminazione con la nascente cultura slava, animati dalla convinzione di essere i depositari di una genuina “cecenità” in contrasto con la “meticcia” popolazione delle pianure. Anche il progressivo acuirsi delle differenze economiche tra i due gruppi, dovuto al sempre maggior sviluppo agricolo del nord e il conseguente “emanciparsi” dei benestanti che abitavano quelle terre, rafforzò negli abitanti del sud montagnoso la convinzione di essere lo “zoccolo duro” della nazione, il suo cuore incorruttibile, disposto a combattere e a morire pur di non piegarsi alla dominazione straniera o alla pervasività di culture più evolute come quella russa la quale, tra una guerra e l’altra, penetrava nella Cecenia settentrionale con le sue strade, le sue scuole, i suoi telegrafi e infine la sua industrializzazione.
Geografia fisica della Cecenia. E’ evidente la divisione tra una “Cecenia delle Pianure” situata a Nord, ed una “Cecenia delle Montagne” a Sud.
Agli inizi del ‘900, mentre le pianure del nord conoscevano la loro prima industrializzazione (intorno agli allora ricchi giacimenti di petrolio) e nel bel mezzo di quel territorio prosperava una cittadina moderna di trentamila abitanti (Grozny, originariamente costruita dagli stessi Russi come fortezza militare) il sud rimaneva una terra aspra e povera, formalmente parte dell’Impero Russo ma di fatto indipendente, nella quale la figura dell’Abrek (il “Brigante d’Onore” che ruba ai ricchi e distribuisce i frutti delle sue razzie ai poveri contadini affamati) era considerata quasi un’istituzione politica, ed ogni forma di governo combattuta come un esercito invasore. Le Montagne rimasero fino al 1944 il rifugio di chiunque intendesse opporsi al governo imperiale russo, e tra le loro gole si armarono e partirono all’assalto numerosi eserciti di volontari determinati a “Liberare” la Cecenia dal giogo di Mosca.
Come tutti i popoli pre – industriali, anche i ceceni presentavano alti tassi di natalità e una piramide sociale fortemente sbilanciata verso le giovani generazioni. Gli anziani erano pochi (l’età media era inferiore ai cinquant’anni, mentre i bambini e gli adolescenti erano tantissimi. Questo continuo afflusso di forze giovani, per lo più disoccupate, veniva assorbito principalmente dalle coltivazioni del Nord, cosicché le popolazioni montane “scaricavano” le loro eccedenze sulle fattorie localizzate nelle pianure, o le inurbavano a Grozny, Gudermes, Urus – Martan e nelle altre cittadine stabilite lungo il corso dei due principali fiumi del Paese, il Terek ed il Sunzha.
Questo fenomeno si ingrossò ulteriormente con la nascita dell’URSS, allorché il governo di Mosca lanciò il programma di collettivizzazione delle terre, dirigendo gli investimenti pubblici sulle aziende collettive (i famosi Kolchoz e Sovchoz) con l’intento di costringere i piccoli agricoltori ad associarvisi. Il piano di collettivizzazione fu iniziato proprio dalle regioni del Caucaso, ed in particolare la Repubblica Socialista Sovietica Autonoma Ceceno – Inguscia (lo stato – fantoccio costituito dai sovietici per governare la regione) fu tra le prime a sperimentarne gli effetti. Laddove le misure di incentivo non funzionavano, il potere sovietico non si riguardò ad usare la violenza, come nel caso della persecuzione dei Kulaki (i contadini “ricchi” che si opponevano alla collettivizzazione delle loro proprietà) attuata tra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ‘30.
I ceceni di montagna, da sempre abituati a vivere in modo indipendente, non accettarono le imposizioni di Mosca. Questo atteggiamento, se da un lato mantenne vivo e fiero il sentimento nazionale dei ceceni, acuì per contro il divario da la popolazione del nord, la quale cominciava a sperimentare il benessere derivante dall’industrializzazione del lavoro, e quella del sud, che rimaneva ancorata ad un modello economico di sussistenza. Gli effetti di questo stato di cose sono facilmente rilevabili nell’arretratezza cronica nella quale rimase il settore dell’allevamento, motore trainante l’economia del Sud, rispetto alla sempre maggior produttività del comparto agricolo, caratteristica dell’economia del Nord: Per dare qualche numero, nel 1944 nelle fattorie collettive risiedevano soltanto tra il 6 ed il 19% dei capi di bestiame, mentre il resto rimaneva sparpagliato in piccole e piccolissime realtà economiche di sussistenza e non produceva praticamente alcun tipo di surplus.
contadine al lavoro in un Kolchoz
La deportazione operata da Stalin nel 1944 sconvolse bruscamente l’equilibrio secolare tra il Nord e il Sud del paese. Nell’ottica di pacificare una volta per tutte quella regione di confine il dittatore russo decise di sbarazzarsi del problema alla “sua” maniera: fedele al motto “niente uomini, niente problemi” Stalin ordinò la fulminea deportazione di tutta la popolazione cecena dalla regione ed il suo trasferimento in Asia Centrale, con l’intenzione di non permettere più ad un solo ceceno di nascondersi tra quelle montagne così impervie e inespugnabili. Per tredici anni i Ceceni (ma anche gli Ingusci) vissero in uno stato di esilio permanente che fu interrotto soltanto dalla morte dello spietato leader sovietico. Il suo successore, Khrushchev, permise un graduale rientro dei Vaynakh nelle loro terre, ma ebbe cura di impedire loro di reinsediarsi in massa nei distretti montani, volendo evitare che il problema così brutalmente risolto da Stalin si riproponesse alla prima difficoltà politica dell’URSS. Gran parte dei ricchi pascoli della Cecenia meridionale rimasero quindi spopolati e improduttivi, ed i profughi russi inviati a sostituire i ceceni non si arrischiarono ad avviare attività in montagna, preferendo la vita di città e le occupazioni industriali. D’altro canto le autorità sovietiche tentarono di limitare l’afflusso dei ceceni anche nella capitale, Grozny, la quale, nel frattempo, era passata dai 170.000 ai 250.000 abitanti, per lo più immigrati russi inviati là da Stalin per sostituire i ceceni deportati. La misura era volta ed evitare che il tumultuoso ritorno dei ceceni alle loro terre generasse conflitti sociali con la minoranza russa, ma il primo effetto che produsse fu quello di allontanare geograficamente gli indigeni dal principale centro industriale e culturale del paese, generando il germe della discriminazione tra i ceceni, destinati a rimanere poveri agricoltori analfabeti, ed i russi, avvantaggiati dalle opportunità offerte dallo sviluppo di Grozny e preferiti dalle autorità sovietiche nelle attività pubbliche e politiche.
Tra gli anni ’60 e 70 le autorità stimolarono l’inurbamento degli abitanti delle regioni montane tramite campagne pubbliche, attraendo un sempre maggior numero di giovani provenienti dai remoti distretti montani di Itum – Khale e Sharoy nei villaggi alla periferia di Grozny, il cui distretto passò dai 250.000 ai 400.000 abitanti tra il 1960 e il 1990. La città divenne un corpo esageratamente pesante rispetto alla capacità del territorio rurale di provvedere al suo mantenimento. Questo cronico deficit alimentare si acuiva man mano che le montagne si spopolavano, e l’allevamento perdeva sempre maggiori quote di produttività a vantaggio dell’agricoltura: basti pensare che nel 1990 il seminativo produceva il 61% dell’ammontare loro di produzione agricola, pur estendendosi su appena il 30% del territorio, mentre l’allevamento ed i prodotti di filiera, pur avendo a disposizione il 60% del territorio, raggiungevano appena il 39% del prodotto lordo. Altro indicatore dell’arretratezza del settore era la sua scarsa redditività: l’allevamento presentava una redditività media del 7% (intorno al livello di sussistenza) mentre l’agricoltura raggiungeva il 22,7%, un dato non molto confortante, considerato che era uno dei più bassi dell’URSS, ma comunque ancora sufficiente a garantire un decoroso livello di benessere agli occupati. Per effetto di questo disinteresse (come abbiamo visto, in parte “voluto”) verso l’allevamento la Cecenia, che pure aveva tutte le carte in regola per diventare un grosso produttore di carne e latticini, si ritrovò ad importare quasi la metà dei prodotti da allevamento da altre regioni dell’URSS.
L’ECONOMIA DEL PETROLIO
Come abbiamo accennato in questo articolo (e spiegato approfonditamente QUI) lo sviluppo dell’industria di prospezione petrolifera aveva trasformato la Cecenia in uno dei principali fornitori di petrolio dell’Unione Sovietica. Negli anni ’70 la produzione di greggio iniziò a calare, per effetto del progressivo esaurirsi dei pozzi superficiali. Il governo di Mosca decise di convertire il settore estrattivo in quello della lavorazione dei prodotti petroliferi, favorendo la costruzione di uno dei più grossi complessi di raffinazione di tutta l’Unione. Alla periferia di Grozny sorserò così tre grandi raffinerie, ed una estesa rete di impianti per la produzione di lubrificanti, oli combustibili e refrigeranti per motori. Questo piano avrebbe permesso di sfruttare la manodopera specializzata già presente nel paese, oltre alle infrastrutture per il trasporto della materia prima già presenti, ma non solo: non potendo sopperire da sola, con le sue sempre più scarse risorse naturali, all’alimentazione delle sue raffinerie, la Cecenia sarebbe stata sempre più dipendente dalle forniture di petrolio provenienti da altre regioni dell’URSS, integrandosi maggiormente nel sistema politico. Nell’ottica di mantenere uniti tutti i soggetti sottoposti al regime socialista, Mosca aveva ideato un sistema di interdipendenze economiche per le quali ogni repubblica aveva bisogno delle altre per poter sostenere il proprio benessere. Nel caso della Cecenia si era scelto di sviluppare il settore della lavorazione dei derivati del petrolio, impiantando fabbriche, magazzini, oleodotti e scuole atte alla formazione dei lavoratori del settore. La Cecenia non doveva emergere come piccola potenza agricola, ma dedicarsi alla sua “missione” socialista: la produzione di idrocarburi industriali per l’armata rossa e per le industrie pesanti. In cambio, l’agricoltura locale, povera e arretrata, sarebbe stata tenuta in piedi con laute sovvenzioni pubbliche. Così, se nel 1975 il debito delle fattorie collettive e delle altre imprese agricole ammontava a circa 6,2 milioni di rubli (circa 137 milioni di euro attuali) nel 1980 questo era lievitato a 40,2 milioni, corrispondenti a circa 900 milioni di euro odierni. Giusto per dare un ordine di paragone, questa cifra era circa dieci volte il PIL della Cecenia di allora.
Dietro alla politica dei sovvenzionamenti statali c’era anche l’altra faccia della medaglia dei rapporti tra Russia e Cecenia. Se gli investimenti nel settore industriale servivano a rendere la piccola repubblica dipendente dal sistema socialista, le sovvenzioni agricole servivano principalmente a mantenere i ceceni fuori da Grozny. La città si era infatti accresciuta principalmente grazie all’insediamento di russi e discendenti di russi trasferiti qui da Stalin nel 1944 – 46, mentre i ceceni che progressivamente rientravano dall’esilio in Asia Centrale veniva ostacolato il reinsediamento nelle grandi città. Per loro il progetto socialista prevedeva un futuro da “eccedenza rurale”, cioè massa lavoratrice scarsamente qualificata dedita all’agricoltura o al lavoro stagionale. Come specificato nel pezzo dal titolo “Battaglia per la Cecenia: guerra della storiografia” di D.B. Aburakhmanov e di Ya. Z. Akhmadov:
“Quindi, misure appositamente adottate dal 1957 hanno fortemente limitato il permesso di soggiorno dei ceceni e degli ingusci a Grozny e parti del distretto di Grozny, e senza un permesso di soggiorno non hanno potuto accedere a lavori in un certo numero di industrie (ad eccezione del commercio, dei lavori stradali e dell’edilizia ). Inoltre, le principali imprese di produzione di petrolio e costruzione di macchine, che avevano salari alti, fondi per appartamenti , ecc., non permettevano ai ceceni e agli ingusci di “sparare colpi di cannone”. C’era una garanzia reciproca che permetteva al partito e alla marmaglia economica di ignorare anche le decisioni del Comitato centrale del PCUS di correggere gli squilibri nella questione nazionale nella Repubblica socialista sovietica autonoma ceceno-inguscia ”
Il sovvenzionamento dell’agricoltura da parte del governo sovietico era funzionale a mantenere quieta questa massa sempre più grande di cittadini semianalfabeti e privi di qualifiche professionali, la quale negli anni ’90 avrebbe costituito la massa d’urto della Rivoluzione Cecena. Così, nel 1990, il 70% della popolazione rurale della RSSA Ceceno – Inguscia era costituito da Vaynakh mentre soltanto il 15 – 20% dei ceceni era impiegato nel settore secondario.
I timidi passi messi in atto dal 1985 dal governo di per correre ai ripari e limitare il divario tra i residenti russi, per lo più istruiti e impiegati nei settori secondario e terziario, ed i Ceceni, per lo più non istruiti e dediti all’agricoltura (e per entrambi i motivi sempre più insofferenti verso la minoranza russofona) non ebbero il tempo di produrre risultati tangibili. L’esercito dei lavoratori stagionali cresceva di pari passo con la crisi economica che attanagliava l’URSS in quegli anni. Il calo delle sovvenzioni pubbliche all’agricoltura generava sempre maggior surplus di manodopera, la quale per sopravvivere si dedicava al cosiddetto “shabaskha”, o “lavoro festivo”. Gli storici dibattono sulla consistenza numerica di questo fenomeno, ma le cifre più frequenti si aggirano tra gli Ottantamila e i Duecentomila individui, per lo più capifamiglia.
Raffineria a Grozny, foto scattata negli anni ’60
L’ERA GORBACHEV
I.G. Kosilov, in una monografia del 2012 scrive:
“Fino al 1991, ⅘ della popolazione normodotata, per lo più uomini ceceni, erano impegnati nel cosiddetto ‘shabashka’, o lavoro festivo, come era consuetudine designare questo tipo di attività lavorativa. Praticamente dall’inizio della primavera all’autunno, hanno lavorato in varie regioni del paese alla costruzione di manufatti – case, locali per il bestiame , ecc. – avendo concordato la consegna rapida di questo oggetto su base “chiavi in mano”, utilizzando la cosiddetta “brigata” [cioè una squadra di lavoratori organizzati in una sorta di “cooperativa” informale NDR]. Va notato che l’alto salario non ha compensato i lavoratori per le perdite in un’altra area: isolamento prolungato dalle famiglie, soggiorno spesso in luoghi lontani dal Caucaso, mancanza di cure mediche e comfort di base. I “Sabbat” erano i principali capifamiglia della popolazione cecena. Questo era il principale tipo di etnoeconomia nella repubblica. Gli uomini ceceni per la maggior parte non avevano specialità industriali moderne, la professione principale tra loro era quella del muratore o del pastore. Erano questi costruttori e pastori (delle zone rurali) che lavoravano in tutti i cantieri dell’URSS ”.
Allo scoppio della Prima Guerra Cecena la “Brigata” sarebbe diventata l’unità di base dell’esercito separatista, ed i suoi comandanti avrebbero attinto a piene mani da questa formula di inquadramento già sperimentata in campo civile. A ben guardare, quindi, gli elementi sociologici che avrebbero assicurato da una parte la vittoria della prima guerra, dall’altra l’anarchia degli anni successivi erano già presenti in un popolo gravemente traumatizzato dall’esilio, poi dalla discriminazione economica e infine dalla discriminazione sociale.
E’ evidente, dagli studi storici effettuati, che la base sociale del nazionalismo separatista ceceno era proprio questa “eccedenza rurale” che alla fine degli anni ’80 era ormai ridotta alla fame, o aveva ingrossato per necessità le file del crimine organizzato, destinato a diventare tristemente noto col termine di “mafia cecena”. Questa massa di disperati, facilmente mobilitabili e disposti a lottare per cacciare la nomenklatura sovietica (considerata la causa della miseria degli strati popolari) e la minoranza russa (considerata una sorta di grande parassita sulle spalle dei lavoratori indigeni) covava un sentimento rivoluzionario che trovò terreno fertile anche tra le altre anime della società cecena: prima fra tutti la nascente borghesia privata, nata dalle riforme di mercato di Gorbachev, la quale vedeva nella caduta del sistema socialista l’opportunità di mettere le mani sulle risorse statali, privatizzandole, e andando a costituire la punta di lancia di un modo capitalista di intendere l’economia.
Militanti separatisti radunati intorno a Dzhokhar Dudaev. Sullo sfondo il motto dei rivoluzionari: “Morte o Libertà!”
A dare una veste “politica” alle rivendicazioni socioeconomiche c’erano gli intellettuali e gli idealisti, appartenenti per lo più ai settori accademici ed ai comparti più scolarizzati della popolazione, i quali sostenevano le tesi dei primi e dei secondi nell’ottica di democratizzare la vita politica e scrollarsi di dosso l’ormai incagliato sistema a partito unico. Per motivi fondamentalmente diversi, quindi, la gran parte della popolazione convergeva sulla necessità di rivoluzionare il sistema: cosa si sarebbe dovuto fare dopo era oggetto di aspri dibattiti i quali, come vedremo, avrebbero scatenato una vera e propria guerra civile.
Ilyas Akhmadov fu appuntato Ministro degli Esteri da Maskhadov il 27 Giugno 1999, pochi mesi prima dello scoppio della Seconda Guerra Cecena. Akhmadov fu scelto per il fatto di non aver partecipato a nessuna delle azioni terroristiche (Budennovsk e Klizyar in primis) che avevano resto tristemente celebre la resistenza separatista durante il primo conflitto. In questo modo egli avrebbe potuto muoversi con maggior facilità tra le cancellerie occidentali senza incorrere nel rischio di essere arrestato per terrorismo. Nella sua veste di alto rappresentante della diplomazia cecena, Akhmadov si diresse dapprima in Turchia, poi in Belgio, poi ancora negli Stati Uniti, girando in lungo e in largo nel tentativo di coinvolgere i governi occidentali in un negoziato trilaterale con la Federazione Russa (per approfondire, leggi il libro “Libertà o Morte! Storia della Repubblica Cecena di Ichkeria, acquistabile QUI).
Ilyas Akhmadov the Minister of Foreign Affaires for the Chechen rebel government. (Photo by Alex Smailes/Sygma via Getty Images)
Presto fu tuttavia chiaro che nessuno dei governi in grado di fare la differenza in una trattativa con la Russia sarebbe intervenuto, appoggiando tout – court la posizione dei secessionisti. Così, dal 2001, il Ministro degli Esteri si mise ad elaborare un piano di pace che ponesse in essere le premesse di una separazione senza costringere il Cremlino ad accettarla sul piano formale. Il progetto, che pubblichiamo in versione italiana (scaricabile QUI in PDF) si basava sull’idea di trasformare la Cecenia in una sorta di protettorato, sotto il mandato delle Nazioni Unite, per un periodo di 10 o 15 anni, durante i quali il paese sarebbe stato ricostruito e le istituzioni democratiche sarebbero state implementate, sul modello di quanto stava succedendo in Kosovo ed a Timor Est. Maskhadov avrebbe rassegnato le sue dimissioni, l’esercito russo si sarebbe ritirato e le forze armate cecene avrebbero smobilitato. Una volta che la situazione si fosse stabilizzata e le istituzioni democratiche avessero iniziato a funzionare sotto la protezione delle forze armate dell’ONU, nuove elezioni avrebbero portato alla costituzione di una Cecenia indipendente.
Il piano girava tutto intorno al concetto di “indipendenza condizionata”:
“Il riconoscimento condizionato di un governo o di uno Stato è il principio che consiste nel rendere il riconoscimento dell’entità in questione soggetto all’adempimento di condizioni precedentemente convenute. Una appropriata applicazione di questo principio attraverso il meccanismo di una amministrazione internazionale può risolvere il conflitto russo – ceceno con un approccio in cui vincono entrambe le parti. L’idea è semplice: la trasformazione della Cecenia in uno Stato realmente democratico e pacifico attraverso un periodo di transizione di diversi anni di amministrazione internazionale. Questa formula può non essere un miracolo, ma fornisce un modo per risolvere la sfida di soddisfare le legittime aspirazioni della Cecenia andando simultaneamente incontro alle autentiche esigenze di sicurezza della Russia, come alle preoccupazioni relative alla sicurezza della Georgia ed alla sicurezza ed agli interessi complessivi della comunità internazionale.
UNA STRADA IN SALITA
Il piano era di difficile attuazione, perché avrebbe dovuto passare dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, del quale la Russia faceva parte, e difficilmente il Cremlino avrebbe accettato la presenza di forze di pace entro quelli che considerava i propri confini. Un segnale incoraggiante comunque giunse da Putin, che in relazione al piano proposto rispose: “Oggi la questione dell’indipendenza o meno della Cecenia dalla Russia è assolutamente non di fondamentale importanza. Ciò che è di fondamentale importanza per noi è soltanto una questione. Non vogliamo permettere che questo territorio venga usato ancora una volta come testa di ponte per un attacco alla Russia.” in questi termini, Putin poteva essere teoricamente disponibile a congelare nuovamente la questione dell’indipendenza in cambio della completa smilitarizzazione della Cecenia. Il piano venne sottoposto a Maskhadov qualche settimana dopo, sponsorizzato dallo scrittore francese Andrè Glucksmann e dal politico belga Olivier Dupuis, che si dissero disponibili a farsene relatori presso le autorità europee ed all’ONU. Esso tuttavia era debole per due motivi: prima di tutto la situazione della Cecenia non poteva essere assimilata a quella del Kosovo, perchè Russia non era la Serbia né in fatto di peso politico né in fatto di rapporti con l’occidente.
Vladimir Putin, Presidente della Federazione Russa. Allo scoppio della Seconda Guerra Cecena giustificò l’intervento armato come un’operazione volta a garantire la sicurezza della Russia. Il “Piano Akhmadov” muoveva dalla necessità di garantire a Putin il riconoscimento delle sue “ragioni di sicurezza” senza ledere il diritto della Cecenia all’autodeterminazione.
In secondo luogo, come spiegò Maskhadov nella sua risposta alla proposta di Akhmadov, “La mentalità della resistenza cecena era sempre più religiosa e sempre più frustrata rispetto all’Occidente ed alla democrazia, rispetto a quanto non fosse durante la prima guerra. […] dovete capire che quello che la gente vede riguardo alle democrazie occidentali sono dichiarazioni preoccupate di routine, gestualità vuote, che irritano soltanto la gente. Dovete capire che questo è tutto quello che hanno visto di codeste democrazie”. Maskhadov confidò che non sarebbe riuscito a tenere insieme il fragile fronte indipendentista se un simile piano fosse stato sponsorizzato da lui. In particolare, una simile soluzione avrebbe messo la resistenza in rotta di collisione coi suoi finanziatori, che erano per lo più comunità religiose mediorientali le quali mai avrebbero supportato finanziariamente un movimento che andava a braccetto con l’ONU, vista dai più come una sovrastruttura al servizio del potere occidentale. Rispose quindi che il piano poteva essere presentato, ma come una iniziativa personale di Akhmadov e dei suoi amici, e non come un documento ufficiale della ChRI.
IL PIANO NAUFRAGA
Anche all’interno di ciò che restava della gerarchia repubblicana, il dibattito sul piano fu acceso ed i funzionari non riuscirono a trovare un accordo. Laddove Umar Khambiev, Ministro della Sanità ed inviato personale di Maskhadov in Europa, appoggiò entusiasticamente il piano, Akhyad Idigov, ex Presidente del Parlamento dudaevita, lo attaccò pesantemente accusando Akhmadov di voler vendere l’indipendenza della Cecenia e di attentare alla costituzione. Akhmadov propose il piano in via personale nel marzo 2003, ma proprio in quei mesi iniziò la seconda invasione americana dell’Iraq, e la questione cecena finì nelle ultime pagine dei giornali. Olivier Depuis, raccolse comunque le firme per presentare il piano alle Nazioni Unite, e per la metà del 2003 ne aveva già raccolte 30.000. L’azione di Depuis, che era un deputato del Partito Radicale Transnazionale, avrebbe portato, nel febbraio del 2004, il Parlamento Europeo a varare una risoluzione nella quale per la prima volta si riconosceva l’Ardakhar del 1944 come “genocidio”, ma oltre all’adozione di questa risoluzione, non ci sarebbe stato altro di politicamente rilevante. In ogni caso la discussione del “Piano Akhmadov” non riuscì neanche a decollare, giacché l’11 settembre 2001 Osama Bin Laden aveva lanciato il suo attacco terroristico agli Stati Uniti. Da quel momento il timore del terrorismo islamico si era impadronito delle società occidentali, ed anche i secessionisti ceceni avevano finito per essere considerati parte del fenomeno.
Alhyad Idigov, Deputato al Parlamento di I e II Convocazione e rappresentante del Parlamento all’Estero, criticò duramente il “Piano Akhmadov”, accusando il Ministro degli Esteri di voler sacrificare l’indipendenza della Cecenia, secondo il suo parere già acquisita nel 1991 e confermata nel Trattato di Pace del 1997. La mancanza di unità nel fronte secessionista fu una delle principali cause del naufragio della proposta di pace.
Come scrive Akhmadov: “Le cose sono cambiate radicalmente dopo l’11 settembre 2001, quando la maggior parte delle persone in Occidente, e certamente la maggior parte dei governi, ha iniziato a guardarci attraverso la lente dell’antiterrorismo. Il pretesto che l’uccisione di massa di civili ceceni da parte della Russia abbia contribuito alla guerra contro il terrorismo ha permesso all’Occidente di mantenere stretti rapporti con la Russia e di assolvere la sua coscienza collettiva ignorando le atrocità. Vedere questa guerra come uno dei fronti di guerra contro il terrorismo globale ha liberato l’Occidente dai suoi obblighi al rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale nei suoi rapporti con la Russia.”. La resistenza cecena, che per parte sua aveva compiuto atti di terrorismo e che, radicalizzandosi, aveva assunto i turpi connotati del fanatismo religioso, fu pesantemente colpita dai nefasti effetti dell’azione di Al Qaeda, che gli alienarono completamente le simpatie dell’occidente, fatta eccezione per qualche giornalista, qualche associazione umanitaria e qualche uomo politico di scarso peso. Le autorità russe si resero conto di avere campo libero nel portare a termine la loro invasione e chiusero a qualsiasi negoziato che potesse portare anche soltanto ad una tregua.
Dopo la strage di Beslan, il movimento nazionalista ceceno cessò di esistere in quanto tale. I funzionari della ChRI rimasti erano rappresentativi quasi soltanto di loro stessi, e la loro voce non fu più ascoltata. Basayev ed i fondamentalisti avevano preso il monopolio dell’immagine della resistenza. Il 14 gennaio 2005, in un ultimo tentativo di riprendere il controllo del suo esercito, Maskhadov proclamò una “tregua unilaterale”. Era una mossa azzardata, perché se le operazioni fossero continuate, l’ultimo barlume di credibilità di Maskhadov sarebbe andato a farsi benedire. Incredibilmente, Basayev dichiarò che, malgrado non ritenesse la tregua necessaria, si sarebbe adeguato all’ordine. Fu un piccolo miracolo: per un mese le attività dei separatisti cessarono, e Maskhadov dimostrò al mondo che egli era ancora in grado di esercitare una forte influenza sul movimento di resistenza. Per un attimo, sembrò possibile ricostruire i ranghi della ChRI e riportare la guerriglia nell’alveo del conflitto armato più o meno “tradizionale”, nel quale aveva sempre voluto mantenerlo Maskhadov. Il 25 febbraio, confortato dall’obbedienza di Basayev e degli altri comandanti di campo che avevano rispettato il suo ordine, Maskhadov scrisse a Javier Solana, Alto Rappresentante dell’Unione Europea per la Politica Estera, il suo ultimo messaggio politico:
Aslan Maskhadov stringe la mano al plenipotenziario russo Alexander Lebed a margine degli Accordi di Khasavyurt del 1996
Signor Alto Rappresentante,
Mentre non passa giorno senza notizie di vittime tra la popolazione civile cecena e tra i combattenti russi e ceceni, senza che dei Ceceni, donne, bambini, uomini, non siano oggetto delle peggiori esazioni che esistano, i superstiti, tra i quali io stesso, hanno celebrato il decimo triste anniversario dell’offensiva militare lanciata l’11 dicembre 1994 dal Presidente Eltsin contro il popolo ceceno. Del milione di abitanti che contava la Cecenia di allora, più di 200.000 sono morti, 300.000 si sono rifugiati fuori del paese, decine di migliaia si sono spostati all’interno del paese, decine di migliaia soffrono delle conseguenze delle ferite ricevute, o delle torture subite. Migliaia di altri sono detenuti nelle prigioni e nei campi di “filtraggio” delle forze armate russe o dei loro collaboratori ceceni, nell’attesa del versamento di un riscatto o, più spesso, della morte dopo torture e privazioni innominabili.
Javier Solana, all’epoca Alto Rappresentante per la Politica Estera dell’Unione Europea
Come sapete, ho reiterato costantemente, dalla ripresa di quella che è stata chiamata la seconda guerra di Cecenia, nell’autunno 1999, la mia volontà di risolvere questo conflitto e tutte le controversie che esistono tra la parte russa e le parti cecene mediante un dialogo con le autorità russe. Fino ad oggi, queste domande ripetute di negoziati sono rimaste senza alcuna risposta da parte delle autorità russe, salvo un discorso su una falsa normalizzazione. Nel marzo 2003, con l’intermediazione del mio Ministro degli Affari esteri, Ilyas Akhmadov, ho reso pubblica una proposta di pace che, facendosi forte dell’esperienza della comunità internazionale nel Timor orientale e nel Kosovo, voleva portare un nuovo contributo alla risoluzione di questo conflitto prendendo in considerazione i legittimi interessi, in termini di sicurezza, della parte russa, e le tre esigenze alle quali la parte cecena non può rinunciare: un meccanismo di garanzia internazionale, sotto una forma o un’altra, di ogni nuovo accordo tra le due parti; un coinvolgimento diretto, per un periodo di transizione, della comunità internazionale nella costruzione di un Stato di Diritto e della democrazia in Cecenia, e nella ricostruzione materiale del mio paese; al termine di questo periodo di transizione, una decisione finale, secondo le norme internazionali in vigore, sullo statuto della Cecenia.
Purtroppo, questa proposta, come le precedenti, come l’ultima, cioè il cessate il fuoco unilaterale che ho ordinato all’inizio di questo anno, non ha suscitato altre reazioni da parte delle autorità di Mosca se non una nuova corsa in avanti in un processo di sedicente normalizzazione della tragedia del mio popolo, col suo corteo di elezioni fraudolente, di sofisticazione delle operazioni militari, di esazioni contro la popolazione civile. Ho seguito con tutta l’attenzione che la mia condizione di presidente-resistente mi permetteva gli avvenimenti in Ucraina, la “rivoluzione arancione”, ed il ruolo, decisivo secondo me, giocato dall’unione europea, nella sua felice conclusione. Ho constatato in particolare quanto l’Europa possa essere capace ed efficace quando decide di parlare con una sola voce, mediante gli interventi dei differenti Capi di stato o di governo, o mediante quella del suo Alto Rappresentante per la Politica estera e la Sicurezza Comune. Non ignoro la complessità delle relazioni con questo grande paese che è la Federazione della Russia, né l’importanza politica ed economica di queste relazioni. Al contrario, credo che proprio perché queste relazioni sono capitali per l’Unione Europea ritengo sia fondamentale ed urgente che queste vengano costruite sulle uniche fondamenta solide che possono esserci: la libertà, la democrazia e lo Stato di Diritto.
Aslan Maskhadov al seggio elettorale durante le elezioni del Gennaio 1997, dalle quali uscì vincitore.
Purtroppo, come gli avvenimenti dell’Ucraina ci ricordano, come le derive antidemocratiche in Russia ci mostrano già da troppi anni e come la tragedia che subisce il mio popolo da dieci anni basterebbe a dimostrare, queste basi solide non esistono in Russia. Sul terrorismo, quotidiano e massiccio, dello Stato russo e dei suoi accoliti ceceni, non ritornerò. Quanto agli atti terroristici perpetrati dalle frange della resistenza cecena, li ho, come sapete, ogni volta condannati. E continuerò a farlo. Resta il fatto che questo terrorismo non ha niente a che vedere col terrorismo fondamentalista internazionale. È l’opera di disperati che hanno, nella maggior parte dei casi, perso dei parenti in circostanze atroci, e che ritengono di potere rispondere all’aggressore ed all’occupante utilizzandone gli stessi metodi. Questo non è il mio punto di vista e non lo sarà mai. In effetti ho fatto tutto ciò che era in mio potere affinché le azioni della resistenza cecena si iscrivessero rigorosamente dentro il perimetro del diritto internazionale di guerra. Quando non riesco a prevenire il terrorismo, fallisco solamente in circostanze dove nessuno potrebbe riuscire. Il terrorismo all’opera in Cecenia, che sia opera delle forze di occupazione o di elementi isolati della resistenza, nasce e prospera sulla guerra, sulle violenze più abiette e sulle violazioni quotidiane e di massa dei diritti più fondamentali. Solo la pace e la democrazia possono scongiurarlo. Lungi dal volere esagerare l’importanza del mio popolo negli affari del mondo e dell’Europa, resta il fatto che è oggi vittima di un lento sterminio e che la questione cecena costituisce, per il potere di Mosca, un elemento chiave nella sua opera di decostruzione della democrazia e dello Stato di Diritto o, se si preferisce, di costruzione di uno Stato autoritario, para o pseudo-democratico.
Negoziati a Novye Atagi. Al centro – Isa Madaev, Gennady Troshev, Aslan Maskhadov. Foto dall’archivio di S. K. Kondratenko
So che il mio paese non è il Kosovo, e la Russia non è la Serbia. Ma so, perché l’ho visto durante la crisi ucraina, che quando l’unione europea è animata da una volontà, è in grado di contribuire a sventare ciò che sembrava ineluttabile. Ecco perché mi permetto di suggerire che attraverso di lei, l’Unione Europea si dia per compito di affrontare la questione della tragedia cecena in vista di creare le condizioni perché possano aprirsi, sotto gli auspici dell’Unione Europea e di qualsiasi altro Stato od organizzazione internazionale che giudicherà opportuno coinvolgere, dei veri negoziati tra il mio governo ed il governo del Presidente Putin. Per approfondire alcune di queste riflessioni, sarei molto felice se poteste incontrare, non potendo io stesso per il momento avere questo onore, Umar Khanbiev, mio rappresentante generale in Europa e ministro della Sanità nel mio governo. Ringraziandovi della vostra attenzione e con la speranza di leggervi, la prego di gradire, Signor Alto Rappresentante, l’espressione della mia più alta considerazione,
Aslan Maskhadov Presidente del Repubblica Cecena di Ichkeria.
Appena un mese e mezzo dopo, l’8 marzo 2005, il Presidente venne ucciso a Tolstoy Yurt in circostanze ancora da chiarire. La lettera a Solana fu l’ultimo suo comunicato ufficiale. Letta a posteriori, sembra quasi un testamento politico: in essa Maskhadov si dissociava dal terrorismo, pur sforzandosi di inquadrarlo in uno spazio differente da quello portato avanti dall’islamismo militante che in quegli anni iniziava la sua offensiva contro il mondo occidentale, e che avrebbe insanguinato mezzo pianeta nel quindicennio successivo. La lettera seguiva il cessate – il – fuoco unilaterale con il quale il Presidente della ChRI aveva dimostrato al mondo di essere ancora in grado di essere ubbidito dai suoi, e di poter quindi porre fine alla spirale di violenza nella quale la Seconda Guerra Cecena aveva portato il suo paese e l’intera Russia. La sua morte, tuttavia, pose fine a qualsiasi residua possibilità, invero molto remota, che Putin si sedesse ad un tavolo come aveva fatto il suo predecessore Eltsin dieci anni prima.
Durante la I Guerra Cecena comandò il Reparto Fucilieri di Montagna del Battaglione Ricognizione e Sabotaggio. Col suo reparto partecipò al Raid su Klizyar ed alla Battaglia del Primo Maggio (Assedio di Pervomaiskoye). Partecipò al Raid su Grozny del Marzo 1996 ed all’Operazione Jihad nell’Agosto 1996. Nel 1996 fu insignito del grado di Generale di Brigata e decorato con l’Onore della Nazione.
Candidatosi alla Presidenza della Repubblica alle elezioni del 1997, ottenne meno dell’1% dei voti e si allineò alle posizioni del blocco governativo, sostenendo la leadership di Aslan Maskhadov. Nominato Ministro della Sharia per la Sicurezza dello Stato (24/04/1999) mantenne tale carica fino alla sua morte.
Allo scoppio della II Guerra Cecena fu nominato membro del Comitato per la Difesa dello Stato (GKO) e nominato Comandante del Fronte di Nozhai – Yurt. Morì in uno scontro a fuoco con l’esercito federale, di ritorno da una riunione organizzativa con Maskhadov.