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LA VOCE DEL NEMICO: L’ICHKERIA SECONDO TROSHEV (PARTE 2)

IL MERCATO DEGLI SCHIAVI

Uno degli argomenti sostenuti con maggior vigore dal governo russo per giustificare la seconda invasione della Repubblica Cecena di Ichkeria era quello relativo al caos imperante negli anni successivi alla fine della Prima Guerra. Gennady Troshev nelle sue memorie circostanzia, citando le sue fonti, il contesto di illegalità diffusa e di connivenza di alcune autorità statali in crimini odiosi come la presa di ostaggi a scopo di riscatto, il traffico di droga ed il furto di petrolio. In questo paragrafo del suo racconto si parla del cosiddetto “Mercato degli schiavi”:

“Gli attacchi armati di banditi alle nostre truppe, anche fuori dalla repubblica, sono diventati regolari. Ma se già questo era un problema, il rapimento e la tratta di persone hanno assunto proporzioni senza precedenti. Senza troppe esagerazioni, possiamo dire che questa industria ha assunto proporzioni di primo piano nell’economia della repubblica. In pianura e sulle montagne, la maggior parte delle famiglie cecene aveva i propri schiavi – la propria forza lavoro gratuita.

Alle soglie del terzo millennio, nel pieno centro di Grozny, nell’area della cosiddetta piazza dei “Tre Bogatiri” per diversi anni, fino all’autunno del 1999, ha funzionato a dovere il più grande mercato di schiavi del Caucaso Settentrionale, dove uno schiavo poteva essere acquistato per tutti i gusti ad un prezzo ragionevole. E la contrattazione qui era abbastanza appropriata. Anche i bambini del posto sapevano che il prodotto più redditizio era un “non ceceno”. […] .

In cima alla scala venivano valutati gli stranieri, giornalisti famosi e politici: per loro si potevano ottenere grandi somme, fino a diversi milioni di dollari. Questi prigionieri erano tenuti in condizioni relativamente normali. Questo tuttavia non riguardava il comportamento della banda di Arbi Barayev, dove si torturavano tutti i prigionieri, anche quelli “super redditizi”. I rapitori più semplici preferivano “lavorare” con specialisti civili, E poiché c’era tensione con loro in Cecenia, gli ostaggi dovevano essere catturati nelle repubbliche vicine Inguscezia, Daghestan, Ossezia del Nord, Cabardino – Balcaria. Per questi non erano necessari i dollari, potevi concordare uno scambio di materiali da costruzione, veicoli, cibo… […].

La moneta più scarsa nel mercato degli schiavi era pagata per un soldato russo. A cause di varie circostanze questo prodotto, dopo Khasavyurt, non era protetto né dal governo federale né dal tesoro. E’ vero, alcune regioni a volte hanno cercato di tirare fuori dalla prigionia i loro connazionali. Ad esempio, l’amministrazione del Territorio di Krasnodar ha pagato cinquantamila dollari per i guardiamarina Soltukov e Moskalev, e per il rilascio di Berezhny e Vatutin i residenti di Krasnodar hanno dato 40 tonnellate di farina. Ma questi fatti sono piuttosto l’eccezione alla regola.

Centinaia di ufficiali e soldati russi, per diversi anni, hanno piegato le spalle ai padroni ceceni. Nei distretti di Vedeno e di Itum – Khale coltivavano tè di montagna; piantagioni di papaveri venivano coltivate vicino al villaggio di Alleroy, bestiame veniva pascolato nel distretto di Nozhay – Yurt e molti altri costruirono una strada per Shatili. Venivano tenuti in condizioni terribili: lavori pesanti dall’alba al tramonto, freddo, fame, percosse… non tutti resisterono a queste prove. Come ha osservato uno dei mercanti di schiavi locali: “I catturati rimarranno in prigione per molto tempo…se, naturalmente, rimarranno vivi.” Queste parole sono state confermate dalle statistiche: in dieci mesi, solo un militare che ha preso parte alle ostilità è stato rilasciato dalla prigionia cecena, mentre gli accordi di Khasavyurt prevedevano l’estradizione di tutti i prigionieri.

Giovani coscritti russi sotto minaccia armata di militanti separatisti

A onore del vero le affermazioni di Troshev, e in particolare quelle relative al fenomeno della cattività dei soldati russi prigionieri, non trovano riscontro nelle statistiche. Se ci fu ricorso a manodopera forzata tra i prigionieri di guerra non restituiti alla Russia, questo fu meno massiccio di quanto riferito dal Generale anche se, certamente, il fenomeno del rapimento per riscatto riguardo molte centinaia di persone, se non migliaia.

ANARCHIA E PULIZIA ETNICA NELLA CECENIA DEL DOPOGUERRA

I due tratti distintivi dell’Ichkeria postbellica furono certamente lo stato di diffusa anarchia che regnava nel paese ed il revanscismo anti – russo, a causa del quale decine di migliaia di cittadini di origine slava furono costretti ad abbandonare la città o ad accettare continue vessazioni. Ecco come Troshev descrive la situazione della Cecenia all’indomani della fine della Prima Guerra:

“Tre anni di “indipendenza” hanno portato la repubblica al disastro: le masse popolari sono stati private del diritto ad una vita dignitosa. L’approvvigionamento della popolazione è praticamente cessato, le scuole sono state chiuse, anche se gli insegnanti sono rimasti nei villaggi. Gli insegnanti non ricevettero alcuno stipendio dopo il 1995. Gli ospedali e le cliniche mancavano delle attrezzature e dei medicinali necessari, e in molti casi non c’era nulla per fornire anche il primo soccorso. Le pensioni venivano emesse in maniera estremamente irregolare. Ad esempio, l’ultima volta che i pensionati ricevettero denaro fu nel Luglio – Agosto 1997 per un importo di 300 – 350 rubli. La già difficile situazione della popolazione era aggravata dalla mancanza di elettricità e gas, che in precedenza venivano forniti dal Daghestan e dal Territorio di Stavropol. La maggior parte delle fabbriche erano inattive. E le merci che vi venivano prodotte, ad esempio, nelle zone di pianura, venivano semplicemente “espropriati” dalle autorità di Grozny.

Il bersaglio principale dei separatisti, storditi dalla permissività, erano gli “stranieri”: trecentocinquantamila russi, abbandonando ciò che avevano acquisito per anni, lasciarono la Cecenia. Chi rimase bevve a pieno il calice amaro. Quante volte abbiamo letto e sentito di massacri di “non ceceni”?

Negli ultimi anni i banditi ceceni hanno sequestrato più di centomila appartamenti e case appartenenti a russi, daghestani e persone di altre nazionalità. Quasi cinquantamila tra i loro vicini furono ridotti in schiavitù dai ceceni. E quanti “schiavi” hanno piegato le spalle alla costruzione di una strada di alta montagna attraverso la cresta principale del Caucaso fino alla Georgia, vagavano nelle raffinerie di petrolio artigianali, nelle piantagioni di papavero e canapa.

Anche in questo caso i numeri citati da Troshev fanno fatica a trovare conferma. La misura di centomila appartamenti e di cinquantamila schiavi è certamente simbolica, e non trova conferma nelle statistiche ufficiali. Certamente il “furto di appartamenti” conseguente alla distruzione dell’archivio di stato durante la guerra fu un problema endemico, e la minoranza russa ne patì i principali effetti.

La scritta “Benvenuti all’inferno” campeggia su un muro in rovina nel centro di Grozny

LA DROGA IN ICHKERIA

L’ultima frase del precedente intervento introduce un altro dei gravi problemi che afflissero il paese all’indomani della pace del 1996: il traffico ed il consumo di droga.

“Uno dei motivi per le rapine in Cecenia era e rimane la droga” ha testimoniato il giordano Khalid Al – Hayad, che è stato tra i combattenti ceceni per diversi mesi, nella banda dello stesso Gelayev. In precedenza al pari delle armi, le droghe venivano vendute nel centro di Grozny. Dopo che i russi hanno preso la città, la droga è diventata molto difficile da reperire ed i prezzi sono saliti alle stelle. I militanti, anche sotto il fuoco dell’aviazione federale e dell’artiglieria, erano pronti a portare al mercato sacchi di merci saccheggiate tutto il giorno, in modo che la sera, avendo venduto le loro cose, potessero procurarsi una siringa con una piccola dose e rilassarsi. Non si può dire che tutti i militanti fossero tossicodipendenti, ma ce n’erano abbastanza. Si iniettavano, fumavano cannabis, usavano qualsiasi cosa per ottenere uno sballo.

[…] La distrutta economia cecena, la disoccupazione ed altre questioni di natura sociale e domestica non potevano non influenzare la psiche di molti, anche di pacifici cittadini ceceni. Inoltre, è ben lungi dall’essere un segreto che nella “Ichkeria libera” la produzione di droga fosse essenzialmente un’attività legale. Un tempo gli stessi Basayev e Khattab ottennero un notevole successo in questo campo. Le piantagioni di papavero e canapa appartenevano a loro e si trovavano a Kurchaloy, nei distretti di Gudermes, Nozhai – Yurt e Vedeno. E il fratello di Shamil Basayev, Shirvani, acquistò proprio per questo motivo l’edificio della scuola numero 40 in Turgenev Street, trasformandolo in un impianto di produzione di droga. Esso venne recintato con filo spinato elettrificato. Tuttavia l’attrezzatura qui era tedesca, e professori e fermacologi indiani fungevano da consulenti […] durante il girono, a fabbrica miracolosa “intitolata ai fratelli Basayev” produceva tre chilogrammi di eroina pura. Sul mercato nero, un grammo di questa droga costa duecento dollari. I signori della droga Basayev aprirono quindi i loro “uffici” a San Pietroburgo, Volgograd, Krasnodar, Ufa, Kaluga. E il denaro scorreva verso di loro come un fiume. Le fabbriche “Ichkeria” per la produzione di oppio e la lavorazione dell’eroina erano situate anche nel sanatorio degli ingegneri energetici nel distretto di Vedeno, nel campo dei pionieri “Zorka” vicino a Shali e in altri luoghi.”

Shirvani Basayev, fratello minore di Shamil Basayev. Secondo Troshev, era uno dei signori della droga in Cecenia

Anche in questo caso le affermazioni di Troshev vanno prese con le dovute cautele. Sicuramente il consumo di eroina divenne endemico nella Cecenia del dopoguerra: molti militanti ne abusarono durante il conflitto, dove la terribile sostanza serviva a curare il dolore fisico delle ferite ed a placare lo stress della battaglia. Molti comandanti di campo ne divennero produttori e distributori, e la piaga della tossicodipendenza falcidiò lo stesso esercito separatista durante la Seconda Guerra.

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29/03/2000: L’IMBOSCATA DI DHZANI VEDENO

L’imboscata di Dzhani Vedeno fu uno dei più importanti fatti d’armi della Seconda Guerra Cecena, ed uno degli ultimi ascrivibili alla cosiddetta “fase militare” del conflitto. Il 18 Febbraio di quest’anno i servizi di sicurezza federali hanno arrestato tre ex militanti che allora presero parte all’attacco, il quale costò la vita a 43 militari tra funzionari OMON della polizia e soldati della Divisione Taman, oltre 17 feriti.

PREMESSE

Con la presa di Grozny (1 – 6 Febbraio 2000) e la conquista di Shatoi (22 – 29 febbraio 2000) l’esercito russo aveva costretto le ultime grandi unità dell’esercito separatista a frammentarsi in più tronconi: un piccolo distaccamento si era diretto sulle montagne al seguito di Maskhadov, mentre due grossi gruppi da combattimento di erano diretti ad Ovest (gruppo Gelayev) in direzione di Komsomolskoye (dove avrebbe combattuto l’omonima battaglia tra il 5 ed il 20 Marzo) e ad Est (gruppo Khattab) in direzione di Vedeno. Quest’ultimo si era fatto strada verso il sudest della Cecenia sfondando le linee russe all’altezza di Ulus – Kert, in una battaglia che avrebbe preso il celebre nome di “Battaglia per la Quota 776” (28 Febbraio  – 2 Marzo). Nonostante le grosse perdite subite, il distaccamento di Khattab (del quale facevano parte numerosi foreign fighters caucasici, arabi e centroasiatici) era riuscito a guadagnare la salvezza, potendo così riorganizzarsi e preparare una risposta ai gravi rovesci militari patiti dai separatisti nelle settimane precedenti. L’occasione fu fornita dallo stesso comando federale alla fine di Marzo, quando una colonna di polizia miliare, scortata da tre veicoli blindati al comando di un giovane ed inesperto comandante, il Maggiore Valentin Simonov, fu inviata da Vedeno a portare a termine un’operazione di pattugliamento nel villaggio di Tsentaroy, dove nei giorni precedenti si erano segnalati movimenti sospetti.

La mappa interattiva mostra le prime fasi della Seconda Guerra Cecena, dalla tarda estate del 1999 alla caduta di Grozny

LA COLONNA SI MUOVE

All’alba del 29 Marzo il convoglio, composto da 49 uomini (41 agenti di polizia antisommossa provenienti dai distretti di Perm e Berezniki più 8 militari della Divisione Taman) si mise in viaggio su tre veicoli: un veicolo da trasporto URAL, un camion ZIL – 131 ed un blindato per il trasporto della fanteria, un “iconico” BTR – 80 armato con una mitragliatrice pesante. I tre veicoli erano in quest’ordine di marcia. Giunta all’altezza della fattoria di Dzhani – Vedeno, a circa dodici chilometri dalla cittadina di partenza, il motore della ZIL si surriscaldò, costringendo la colonna a fermarsi. La zona era occupata da uno dei distaccamenti di Khattab, al comando del suo luogotenente Abu Kuteyb (anch’egli arabo, veterano della prima guerra cecena oltre che di molti altri fronti “jihadisti”). Il distaccamento separatista era appostato nei pressi della fattoria ed alcuni miliziani erano sistemati negli edifici del piccolo abitato.

Il reparto federale era composto per lo più da giovanissime reclute, le quali non possedevano l’addestramento necessario ad operare in un simile contesto. In particolare non venne istituito un perimetro di difesa, né, predisposta una formazione a riccio per difendere i veicoli da un’eventuale aggressione. Secondo quanto riportato in seguito sulla stampa, il comando della colonna non conosceva le frequenze radio delle unità aviotrasportate che avrebbero potuto portare un soccorso immediato in caso di attacco, e in ogni caso il convoglio possedeva un solo dispositivo radio, localizzato dentro il BTR, considerato il bersaglio principale di un’ipotetica imboscata. Lo stesso comandante del gruppo, Dmitrevich, si recò presso una abitazione unifamiliare a qualche decina di metri di distanza per chiedere dell’acqua con la quale raffreddare il motore dello ZIL, accompagnato soltanto da un poliziotto OMON munito di telecameraa. L’evento (ed i primi istanti della battaglia) venne filmato da quella telecamera. Il filmato è ancora disponibile QUI.

Elementi del gruppo di unità federali coinvolto nell’imboscata

L’IMBOSCATA

Dentro la casa erano asserragliati alcuni militanti del gruppo di Kuteyb, i quali aprirono immediatamente il fuoco uccidendo Simonov e l’operatore che era con lui. L’improvvida azione del Maggiore lasciò il reparto privo di un comandante fin dai primi attimi della battaglia, rendendo ancora più difficile il cordinamento della risposta federale. Nel giro di pochi secondi i separatisti si abbatterono con la colonna facendo ampio uso di armi leggere e di lanciagranate. I federali non erano neanche scesi dai loro automezzi, segno evidente della scarsa preparazione militare che era stata loro fornita. Rimasti seduti ai loro posti, divennero un facile bersaglio per i miliziani appostati tutt’intorno. Come da tattica ormai rodata, colpi di RPG si abbatterono sul camion URAL in testa alla colonna e sul BTR in coda, paralizzando il convoglio. Il mitragliere del BTR tentò di dare copertura sparando all’impazzata contro la collina che sovrastava la strada, facendo guadagnare ai superstiti qualche secondo utile per scendere dai veicoli e posizionarsi in un perimetro difensivo. Sparò finché un secondo colpo non prese in pieno il veicolo, incendiandolo ed uccidendo lo stesso mitragliere. La distruzione del BTR privò i militari dell’unica stazione radio mobile in grado di trasmettere al Comando.

La colonna si era fermata intorno alle 06:30, e la battaglia iniziò oltre un’ora dopo, ma ci volle fino alle 09:30 perché i comandi federali inviassero i primi soccorsi. Essendo rimasti privi di contatto radio, gli ufficiali del comando non presero contromisure finchè il pilota di un elicottero che sorvolava la zona non comunicò, intorno alle 9:00 di aver individuato uno scontro a fuoco nei dintorni di Dzhani Vedeno. Solo allora si mosse da Vedeno una colonna di soccorso, ma Kuteyb aveva previsto questa eventualità, e dovendo difendere un unico punto di accesso al luogo della battaglia (cioè l’unica strada carrabile che da Vedeno raggiungeva Dzhani Vedeno) gli fu sufficiente inviare un distaccamento poco più avanti e tentare di ripetere l’azione con il secondo gruppo. Poco dopo le 10:00 la colonna di soccorso cadde nell’imboscata preparata da Kuteyb: il veicolo blindato in testa al convoglio fu colpito e incendiato, ed i federali, temendo di finire bloccati come i loro commilitoni più avanti, si decisero ad arretrare. L’azione produsse comunque alcuni risultati positivi per gli uomini di Simonov: avendo infatti dovuto ritirare parte dei suoi uomini per contrastare il secondo gruppo di federali, Kuteyb indebolì l’anello di assedio intorno al primo gruppo, dal quale riuscirono a sganciarsi sei elementi (cinque poliziotti ed un soldato della Taman) i quali tentarono di raggiungere le linee russe, o di portarsi dietro quanti più miliziani possibile nel tentativo di alleggerire la pressione sui loro commilitoni.

Resti dello ZIL – 131 distrutto durante l’attacco

I resti del primo gruppo, ormai isolato, continuarono a combattere per tutto il giorno. L’ultimo messaggio che pervenne via radio fu trasmesso alle 16:45 dal soldato Vasily Konshin, il quale aveva preso il comando del gruppo dopo la morte del Maggiore Simonov. In esso egli raccomandava ai suoi uomini di sparare “a colpo singolo”, segno che le munizioni dovevano essere quasi esaurite. Per quell’ora nessuna unità di soccorso era ancora riuscita a raggiungere il luogo dell’imboscata.

L’ARRIVO DEI SOCCORSI E L’ESECUZIONE DEI PRIGIONIERI

I reparti federali riuscirono ad arrivare al luogo dell’agguato soltanto due giorni dopo, il 31 Marzo 2000. Il luogo della battaglia era ormai deserto, e sulla strada furono rinvenuti i corpi di 31 russi uccisi e di due combattenti di origine araba al seguito di Kuteyb. Tra i cadaveri i soccorritori trovarono un poliziotto gravemente ferito alle gambe ma ancora vivo: si trattava di Alexander Prokopov, miracolosamente scampato alla morte (in seguito avrebbe avuto una gamba amputata) probabilmente creduto morto dai miliziani dopo che, esaurite le munizioni, i superstiti della colonna si arresero loro. Nei giorni successivi Shamil Basayev, comandante separatista di quel fronte, si dichiarò disposto a consegnare i 12 prigionieri che dichiarava di avere in custodia (tra questi c’erano anche almeno 5 dei 6 militari riusciti a sfuggire all’accerchiamento nella tarda mattinata del 29 febbraio) a fronte della consegna di un Colonnello dell’esercito federale, Yuri Budanov, indagato per lo stupro e l’omicidio di una ragazza cecena. Al rifiuto dei comandi di consegnare l’ufficiale, Basayev dichiarò che avrebbe attuato una rappresaglia sui prigionieri i quali, effettivamente furono giustiziati e seppelliti nei pressi di Dargo, dove i loro corpi furono rinvenuti il 1° Aprile successivo. Dalle analisi forensi risultò che i prigionieri avevano molto probabilmente subito gravi percosse, e che furono giustiziati tramite sgozzamento.

Militari russi ispezionano la carcassa del BTR distrutto durante l’agguato

CONSEGUENZE

L’imboscata di Dzhani Vedeno rese chiaro ai comandi federali che le forze separatiste, date ormai per sconfitte, erano ancora in grado di controllare significative zone della Cecenia meridionale, possedevano discrete quantità di armi ed erano in grado di tenere sotto scacco grandi distaccamenti anche sulle principali vie di comunicazione. Nell’Aprile del 2000 l’esercito russo dovette lanciare numerose azioni militari, impiegando centinaia di soldati, artiglieria campale e forze aeree.

Perseverando nella logica di considerare i separatisti alla stregua di banditi, la Federazione Russa aprì un’indagine, considerando la battaglia come un “agguato” alle forze di sicurezza federali. Nel 2001 si aprì un processo nella capitale daghestana di Makhachkala ai danni di 6 imputati tutti daghestani, accusati di aver preso parte all’imboscata. Dalla ricostruzione degli eventi emerse che con molta probabilità Kuteyb non aveva predisposto in anticipo le manovre per l’attacco, e che l’imboscata fu frutto di una serie di particolari circostanze, come la presenza fortuita di alcuni dei suoi reparti nella zona delle operazioni, il guato al motore dello ZIL russo e l’improvvida decisione del comandante del convoglio di procedere con una certa leggerezza alle perlustrazioni in cerca di acqua per il radiatore del veicolo.

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