Archivi tag: Storia

06/09/1991 – Assalto al Soviet Supremo

Nel trentaduesimo anniversario dell’indipendenza cecena, pubblichiamo un estratto del primo volume di “Libertà o Morte! Storia della Repubblica Cecena di Ichkeria” nella quale si ripercorrono i fatti che portarono allo scioglimento del Soviet Supremo Ceceno – Inguscio, ed alla proclamazione dell’indipendenza cecena.

——————

Ai primi di Settembre l’eco del Putsch di Agosto iniziò ad attenuarsi a Mosca e nelle principali città russe, ed Eltsin poté tornare a posare lo sguardo sulle turbolente periferie dell’impero. La Cecenia era passata in stato di agitazione, ma il presidente russo non dava troppo peso ai rapporti allarmanti provenienti dal Soviet Supremo locale. Egli era convinto che tutto quel baccano altro non fosse che un rigurgito anticasta come se ne erano visti tanti in quel periodo nell’URSS. Pensò che sarebbe bastato sostituire Zavgaev con qualcun altro per poter placare gli animi della gente e riportare la Cecenia – Inguscezia alla pace sociale. Così pensò a Salambek Hadjiev, un professore che era salito agli onori della cronaca qualche mese prima, quando era stato nominato Ministro dell’Industria Chimica e del Petrolio del governo sovietico. Nato in Kazakhistan, Hadjiev si era conquistato una posizione in ambito accademico, diplomandosi all’Istituto Petrolifero di Grozny e poi lavorandoci fino a diventarne direttore. Prolifico ricercatore, era membro dell’Accademia delle Scienze, nonché uno dei massimi esperti del settore petrolchimico di tutta la Russia. Noto per essere un moderato antimilitarista (era capo del Comitato per le armi chimiche ed il disarmo) rappresentava a tutti gli effetti l’alter ego “maturo” del capopopolo Dudaev. Eltsin lo apprezzava perché sapeva parlare sia agli intellettuali che agli imprenditori, aveva una visione moderna dello Stato ed era un gran lavoratore. Sembrava avere tutte le carte in regola per competere con il Generale, il quale dalle sua aveva la sua bella divisa, una buona retorica e poco altro. L’idea di sostituire Zavgaev con Hadjiev piacque anche al Presidente del Soviet Supremo Khasbulatov, che come abbiamo visto non aveva certo in simpatia l’attuale Primo Segretario. Hadjiev invece era uomo di alte qualità intellettuali come lui (che era professore) e come lui aveva una visione moderata e riformista. Sistemare uno dei “suoi” al potere in Cecenia gli avrebbe fatto anche comodo in chiave elettorale, quindi si adoperò affinché il cambio avvenisse il prima possibile.

Doku Zavgaev

Khasbulatov si diresse quindi in Cecenia per assicurarsi un indolore cambio della guardia. La sua notorietà, ora che era al vertice dello stato sovietico, la sua cultura e la sua capacità politica gli avrebbero permesso di spodestare l’odioso rivale e di installare una valida alternativa che scongiurasse la guerra civile e favorisse la sua posizione. Tuttavia c’era da fare i conti con i nazionalisti, cresciuti all’ombra della crisi ed insorti durante il colpo di stato.

Per sgominarli Khasbulatov elaborò un piano. Dal suo punto di vista i nazionalisti erano un amalgama di disillusi, disperati e opportunisti, tenuto insieme da un’avanguardia di giovani idealisti incapaci di governare la bestia che stavano allevando. Affrontati sul terreno del dibattito politico, molto probabilmente avrebbero finito per ridursi ad una frazione residuale. Solo il contesto, secondo lui, permetteva loro di occupare la scena. Disperazione e mancanza di alternative erano gli ingredienti della miscela che rischiava di far scoppiare la rivoluzione. Per neutralizzare la minaccia bisognava “cambiare aria”: l’opposizione si era rafforzata contro Zavgaev ed il suo regime corrotto, toglierlo di mezzo era il primo passo da fare. C’era da sostituirlo con qualcuno che avesse dei buoni numeri. E Hadjiev sembrava quello giusto. La soluzione, tuttavia, non poteva calare dall’alto. Era necessario costituire un fronte di consenso alternativo a Dudaev e per questo serviva tempo. I nazionalisti avevano conquistato le piazze cavalcando l’onda della crisi istituzionale. Impantanarli in una diatriba politica lasciando passare il tempo, mentre la situazione si normalizzava, avrebbe tolto ai dudaeviti (così iniziavano a chiamarsi i sostenitori del Generale) il terreno sotto ai piedi. Man mano che le condizioni sociopolitiche si fossero stabilizzate i disperati sarebbero stati sempre meno disperati, i disillusi sempre meno disillusi. La gente avrebbe prestato orecchio a chi invocava la calma e le riforme anziché la rivoluzione e la guerra, ed i radicali sarebbero stati marginalizzati. Infine, con una bella elezione democratica i moderati avrebbero vinto e i rivoluzionari avrebbero perso. Fine della partita.

Un piano perfetto, nella teoria, che però si basava su due variabili non da poco. La Pima: che Dudaev ed i suoi avessero troppa paura di forzare la mano, lasciando così l’iniziativa a lui. La seconda: che a Mosca la situazione non degenerasse ulteriormente. E Khasbulatov, purtroppo per lui, non poteva controllare né la prima né la seconda. Eppure da qualche parte si doveva pur cominciare e così, dal 23 Agosto, il Presidente del Soviet Supremo si recò a Grozny, accompagnato da Hadjiev, con l’intenzione di far fuori Zavgaev. In una turbolenta riunione del Presidium del Soviet Supremo, al Primo Segretario che lo supplicava di autorizzare la proclamazione dello stato di emergenza e di disperdere l’opposizione, Khasbulatov rispose che il ricorso alla forza era tassativamente da evitare, e che la soluzione della crisi avrebbe dovuto essere assolutamente politica, il che significava una cosa sola: dimissioni.

Dopo aver messo Zavgaev con le spalle al muro, si recò a saggiare il suo avversario. Il suo primo colloquio con Dudaev sembrò essere promettente: il Generale lo accolse con affabilità ed accondiscese alla sua proposta di sciogliere il Soviet Supremo e sostituirlo con un’amministrazione provvisoria che traghettasse il Paese elle elezioni. Soddisfatto, rientrò a Mosca convinto di aver portato a casa un bel punto. Il vero obiettivo, tuttavia, lo aveva raggiunto proprio il leader dei nazionalisti. Scoprendo le carte di Khasbulatov, egli aveva ormai chiaro che nessuno avrebbe alzato un dito per difendere il legittimo governo della Cecenia – Inguscezia: sarebbe bastato un casus belli per forzare la mano e prendere il controllo delle istituzioni. Così, mentre a Mosca si brindava alla felice soluzione della crisi, a Grozny i dudaeviti prendevano il controllo della città ed assediavano il governo, ormai privo di un esercito che lo difendesse. Ciononostante Zavgaev non intendeva darsi per vinto. La sua abdicazione avrebbe potuto essere imposta soltanto da un voto del Soviet Supremo, e quasi nessuno dei deputati aveva intenzione di avallarlo, considerato che un attimo dopo lo stesso Soviet sarebbe stato sciolto. Così la situazione rimase in stallo per alcuni giorni, con il governo che non si dimetteva ed i nazionalisti che non abbandonavano le strade.

Dzhokhar Dudaev, circondato dai suoi sostenitori

Tra il 28 ed il 30 Agosto Dudaev iniziò a testare le reazioni di Mosca: la Guardia Nazionale irruppe in numerosi edifici pubblici, occupandoli e sloggiando chiunque vi si opponesse. Da Mosca non giunse un fiato. Allora il Generale ordinò la costituzione di ronde armate che presidiassero le strade, e ancora una volta non vi fu alcuna reazione. Il caos si stava impadronendo del Paese e sembrava che a nessuno importasse più di tanto[1].

Il 1 Settembre Dudaev convocò la terza sessione del Congresso. La Guardia Nazionale presidiava l’assemblea. Tutto intorno volontari armati erigevano barricate. Un gruppo di miliziani penetrò nel Sovmin, lo occupò ed ammainò la bandiera della RSSA Ceceno – Inguscia, issando al suo posto il drappo verde dell’Islam. Dei moderati non c’era più traccia: estromessi nella sessione di Giugno, erano ormai incapaci di condizionare in qualsiasi modo l’opinione pubblica. La scena era tutta per il grande capo, il quale esortò l’Ispolkom a decretare decaduto il Soviet Supremo e ad attribuirsi i pieni poteri. I delegati prontamente aderirono alla proposta, e dichiararono il Comitato Esecutivo unica autorità legittima in Cecenia. Ancora una volta, da Mosca, le reazioni furono tiepide, e per lo più di facciata. Lo stesso Khasbulatov, sottostimando la gravità della situazione, pensò che la sostituzione di Zavgaev sarebbe stata sufficiente a spaccare in due il fronte nazionalista. Adesso, secondo lui, sarebbe bastato costringere Zavgaev ad andarsene e sostituirlo con Hadjiev, o con qualcun altro, per mettere in minoranza i radicali. In realtà quello che stava succedendo a Grozny era qualcosa di molto più serio rispetto al gioco politico che Khasbulatov pensava di portare avanti. Dudaev aveva dalla sua parte quasi tutta l’opinione pubblica, aveva le sue guardie armate e stava costituendo un vero e proprio governo.

La cosa era assolutamente chiara al Primo Segretario, e lo fu ancora di più quando il 3 Settembre, ignorando le direttive di Mosca, egli tentò di introdurre lo stato di emergenza tramite una risoluzione del Presidium del Soviet Supremo: nessun reparto della polizia o dell’esercito rispose alla chiamata. Se molti uomini della Milizia del Ministero degli Interni avevano già cambiato bandiera, quelli che non avevano preso posizione semplicemente evitarono di muoversi. Nuovamente sconfitto, Zavgaev rimase rintanato nella Casa dell’Educazione Politica, dove si era asserragliato coi suoi seguaci. La sera del 6 Settembre, infine, la Guardia Nazionale irruppe anche là dentro: un manipolo di uomini guidato dal Vicepresidente dell’Ispolkom Yusup Soslambekov penetrò nell’edificio. Non si sa se fu un’azione premeditata o il salire dell’agitazione, fatto sta che la folla seguì i miliziani e si mise a devastare ogni cosa. I deputati furono pestati e ridotti al silenzio. Soslambekov mise davanti ad ognuno di loro un foglio ed una penna, ed ordinò che scrivessero le loro dimissioni di proprio pugno. Uno ad uno, tutti i deputati firmarono. Sotto la minaccia di essere giustiziato sul posto Zavgaev firmò un atto di rinuncia nel quale abbandonava “volontariamente” tutti gli incarichi pubblici. Soltanto il Presidente del Consiglio Comunale di Grozny, Vitaly Kutsenko, si rifiutò di firmare. Interrogato da Soslambekov, rispose: Non firmerò. Quello che stai facendo è illegale, è un colpo di Stato! Qualche attimo dopo Kutsenko volò dal terzo piano, schiantandosi al suolo. Più tardi sarebbe stato ricoverato in ospedale, dove sarebbe morto tra atroci sofferenze[2]. I moderati condannarono l’assalto, si dissociarono pubblicamente e fuoriuscirono dal Movimento Nazionale, costituendo una Tavola Rotonda alternativa al Congresso. Zavgaev fu cacciato da Grozny e si rifugiò nell’Alto Terek, sua terra natale. A Grozny l’Ispolkom iniziò ad operare come un vero e proprio governo, costituendo commissioni, emanando decreti ed occupando gli edifici pubblici.

Isa Akhyadov, futuro deputato al Parlamento di seconda convocazione, sulla statua di Lenin abbattuta

A Mosca la notizia dell’insurrezione fu accolta quasi con disinteresse. Ci vollero quattro giorni prima che una delegazione governativa, formata dal Segretario di Stato, Barbulis, e dal Ministro della Stampa e dell’Informazione, Poltoranin, giungesse in Cecenia per provare a ricomporre la crisi. Con Dudaev i due tentarono un approccio “alla sovietica”: negli anni ruggenti dell’URSS, quando un personaggio rappresentava un pericolo per il Partito e non lo si poteva inviare in un gulag a schiarirsi le idee, lo si promuoveva e lo si teneva buono. Poltoranin e Barbulis pensarono che se avessero offerto un ruolo di primo piano a Dudaev questi forse avrebbe colto la possibilità di uscire da quel casino in cambio di un buon posto ed una lauta pensione. Purtroppo per loro il Generale non era solo più furbo di quanto pensassero, ma era anche più coraggioso e determinato, ed in una Cecenia indipendente ci credeva davvero. Così l’incontro si risolse in un nulla di fatto.

Khasbulatov nel frattempo era rientrato in Cecenia, dove sperava di riprendere i negoziati con Dudaev dove li aveva lasciati. L’incontro tra i due si risolse con un nuovo progetto di accordo: il Soviet Supremo “decaduto” sarebbe stato sciolto, e al suo posto si sarebbe costituito un Soviet “provvisorio” che si occupasse dell’ordinaria amministrazione in attesa di nuove elezioni. A questo esecutivo avrebbero partecipato anche esponenti del Congresso. Confortato dall’apparente concessione del leader nazionalista, il Presidente del Soviet Supremo Russo parlò alle masse assiepate in Piazza Lenin. Davanti ad una nutrita folla (che chi addirittura parlò di centomila manifestanti) invitò tutti alla calma, chiese l’interruzione delle manifestazioni ed addossò tutta la colpa a Zavgaev, intimandogli in contumacia di non rifarsi vivo a meno che non volesse essere portato a Mosca in una gabbia di ferro. Infine, convocata un’assemblea straordinaria del Soviet Supremo, indusse i deputati a dimettersi ed a costituire un Soviet Provvisorio di 32 membri, alcuni provenienti dalla vecchia assemblea e alcuni dalle file del Comitato Esecutivo. L’ultimo atto del Soviet Supremo Ceceno – Inguscio fu un decreto con il quale si indicevano nuove elezioni per il 17 Novembre successivo.

Ancora una volta sembrò che la situazione fosse stata recuperata all’ultimo minuto, e Khasbulatov si accinse a tornare ai suoi doveri a Mosca non prima di aver avuto piena raccomandazione, da parte di Dudaev, del rispetto degli accordi. Non ebbe neanche il tempo di atterrare nella capitale russa che fu accolto da una delibera del Comitato Esecutivo del Congresso, appena fatta votare da Dudaev, nella quale l’Ispolkom riconosceva il Soviet Provvisorio come espressione della volontà del Congresso, e lo si diffidava ad andare contro la volontà espressa da esso[3]. La dichiarazione conteneva anche un calendario elettorale diverso da quello concordato: timorosi che la normalizzazione avrebbe indebolito la loro posizione, i nazionalisti decretarono che le elezioni si sarebbero svolte il 19 ed il 27 Ottobre, rispettivamente per le istituzioni del Presidente della Repubblica e del Parlamento. Di quale presidente e di quale parlamento si stesse parlando, a Mosca nessuno lo sapeva con certezza: la Costituzione della RSSA Ceceno – Inguscia non prevedeva nessuna di queste istituzioni. Dal tono della dichiarazione era ormai evidente che il Congresso Nazionale aveva intenzione di proclamare la piena indipendenza.

L’edificio che ospitava il Presidium del Soviet Supremo Ceceno – Inguscio

[1] I disordini esplosi a seguito del Putsch di Agosto avevano portato alla paralisi dei dicasteri governativi, la quale iniziava a mostrare i suoi primi effetti nefasti sulla vita di tutti i giorni. Il 28 Agosto circa quattrocento detenuti della colonia penale di Naursk insorsero, attaccando la guarnigione di presidio, dando alle fiamme le torri di guardia devastando i locali di servizio ed occupando la struttura penitenziaria. Ancora due giorni dopo cinquanta di loro, armati di coltelli ed armi artigianali occupavano un’ala dell’edificio. Tutti gli altri erano evasi, disperdendosi tra i manifestanti.

[2] Non è chiaro se Kutsenko si lanciò dal palazzo in un attacco di panico o se fu deliberatamente defenestrato. Secondo alcuni fu lui stesso a buttarsi di sotto, battendo la testa contro un tombino di ghisa. Altre versioni parlano di una guardia di Dudaev, o dello stesso Soslambekov, il quale lo avrebbe scaraventato contro una finestra al suo rifiuto di firmare le sue dimissioni. Anche riguardo al suo ricovero le testimonianze sono discordanti. Secondo alcuni la folla inferocita si accanì su di lui riempiendolo di calci e sputi. Altri, come lo stesso Yandarbiev nelle sue memorie raccontano che Kutsenko venne prontamente raccolto e portato in ospedale, ma si rifiutò di farsi visitare da qualsiasi medico ceceno per paura di essere finito. Non essendoci medici russi a disposizione finì in coma, per poi spirare qualche giorno dopo. Le indagini riguardo la morte di Kutsenko non avrebbero comunque acclarato nessuna responsabilità. La versione ufficiale riportata dalla Procura fu che il Presidente del Consiglio Comunale di Grozny si era volontariamente buttato di sotto, impaurito dalla calca.

[3] Il testo della dichiarazione, organizzato in sedici punti programmatici, iniziava condannando il Soviet Supremo, colpevole di aver perduto il diritto di esercitare il potere legislativo, di aver compiuto un tradimento degli interessi del popolo e di aver voluto favorire il colpo di Stato. Al Soviet Provvisorio venivano nominati alcuni dei principali esponenti politici del Congresso (Hussein Akhmadov come Presidente, oltre ad altri nazionalisti scelti tra le file del VDP). Il Soviet avrebbe operato nel rispetto del mandato affidatogli dal Congresso: se si fosse verificata una crisi di fiducia questo sarebbe stato ricusato dal Comitato Esecutivo e prontamente sciolto. Si invocava inoltre la solidarietà dei Parlamenti di tutto il mondo e dei paesi appena usciti dall’URSS, in opposizione al tentativo delle forze imperiali di interferire e continuare il genocidio contro il popolo ceceno.

Memorie di Guerra: Francesco Benedetti intervista Akhmed Zakayev (Parte 2)

Quella che segue è la trascrizione della seconda parte dell’intervista tra Francesco Benedetti ed Akhmed Zakayev realizzata da Inna Kurochkina per INEWS (alleghiamo il link al video originale, che presto sarà accompagnato da sottotitoli in inglese ed italiano)

Il 6 marzo 1996 le forze armate della ChRI hanno lanciato la loro prima grande azione offensiva del conflitto: la cosiddetta Operazione Retribution. Secondo quanto mi disse Huseyn Iskhanov, allora Rappresentante di Stato Maggiore, il piano fu concepito a Goiskoye e vide la sua partecipazione, oltre a quella del Capo di Stato Maggiore, Maskhadov, e del Vice Capo di Stato Maggiore, Saydaev. Si ricorda come fu pianificata questa operazione?

Sì, certo che me lo ricordo. Questo, in linea di principio, è venuto fuori dall’operazione che abbiamo effettuato per bloccare la città di Urus-Martan al fine di impedire le elezioni. Dopo questa operazione, io e il mio capo di stato maggiore Dolkhan Khozhaev ci siamo incontrati con Dzhokhar Dudayev. E abbiamo suggerito l’opzione di fare qualcosa del genere. Abbiamo capito che di fronte a qualsiasi nostra azione, per tentare di cambiare questa situazione, i russi avevano bisogno di almeno tre giorni, in teoria. Abbiamo iniziato a parlare della possibilità di bloccare più distretti contemporaneamente. E poi Dzhokhar Dudayev ha detto: “Vedi com’è bello quando una squadra lavora!” Io, dice, ero con questi pensieri e ho pensato al modo migliore e al tipo di operazione da eseguire. Fu allora che nacque l’idea di eseguire questa operazione nella città di Grozny, che in futuro si sarebbe chiamata Città di Dzhokhar. Lo stesso giorno, è stato deciso di invitare Aslan Maskhadov, capo di stato maggiore, a chiamarlo al nostro fianco, e da quel momento, quasi due o tre giorni dopo averne discusso con Dzhokhar Dudayev, abbiamo iniziato i preparativi su questa operazione. In pratica, avevamo la nostra intelligence a Grozny, sapevamo dove era concentrata ogni unità russa, abbiamo svolto un lavoro aggiuntivo e identificato tutti i punti in cui si trovano le unità russe. Dove sono i posti di blocco, gli uffici del comandante, le unità militari. Sì, Umadi Saidaev, il defunto Umadi Saidaev, era il capo del quartier generale operativo, e poi, in seguito, è arrivato lì Aslan Maskhadov, e insieme ai comandanti delle direzioni che avrebbero dovuto prendere parte, abbiamo sviluppato questa operazione.

Tornando di nuovo all’operazione Retribution, questo è stato un successo che la leadership ChRI ha scelto di utilizzare più simbolicamente che strategicamente. Nella sue memorie ricorda che all’epoca la decisione di ritirarsi da Grozny, nonostante fosse sotto il vostro controllo, non le piacque, e che ancora oggi lei ritiene che quanto realizzato nell’agosto successivo, con l’Operazione Jihad, avrebbe potuto essere raggiunto con Operazione Retribution. Infine, lei afferma: Nel marzo del 1996 probabilmente abbiamo avuto l’opportunità di concludere vittoriosamente la guerra, e in quel caso gran parte della nostra storia recente sarebbe potuta andare diversamente. Cosa intende con questa frase? Allude al fatto che Dudayev era ancora vivo, o al fatto che le elezioni presidenziali russe non si erano ancora svolte? O ancora, a qualcos’altro?

Ho pensato alle elezioni in Russia per ultima cosa, perché lì non ci sono mai state elezioni. Sì, il fatto stesso che Dzhokhar fosse vivo in quel momento avrebbe potuto essere di grande importanza, e il corso della storia sarebbe potuto essere completamente diverso se la guerra fosse finita con Dzhokhar Dudayev vivo. I russi hanno fatto ogni sforzo per eliminare Dzhokhar Dudayev e successivamente per cercare la pace. Per quanto riguarda questa operazione, ne sono proprio sicuro. Sì, allora abbiamo programmato l’operazione perché durasse tre o quattro giorni, ma non c’è stata una decisione concreta, secondo la quale ci saremmo dovuti ritirare in tre giorni. Quando Dzhokhar Dudayev è arrivato a Grozny, si sistemò nel mio quartier generale nella città di Grozny, nel mio settore della difesa, in quella parte della città in cui combattevano le unità sotto il mio comando, è arrivato lì, e la sera precedente eravamo insieme al Quartier Generale. Ricordo la reazione di Dzhokhar Dudayev quando ha saputo che c’era un ordine di lasciare la città, che alcune unità avevano già iniziato a lasciare Grozny. Non era d’accordo con questo, perché puoi davvero valutare la situazione quando vedi la situazione nel processo, come cambia, e sulla base di ciò devi trarre conclusioni e prendere decisioni. Dzhokhar Dudayev era a Grozny per la prima volta dall’occupazione russa, abbiamo viaggiato con lui di notte, a Grozny di notte, siamo andati alla stazione degli autobus, ha assistito a tutta questa distruzione e quando siamo tornati al quartier generale, alcuni dei nostri le unità avevano già iniziato a partire. Ha detto: “Bene, se c’è un ordine, è necessario eseguirlo”. E ci siamo ritirati. E poi ci ho ripensato, perché ad Agosto non abbiamo fatto niente di più di quello che avevamo fatto a marzo. Questa operazione è stata ripetuta nello stesso modo, e con le stesse forze e mezzi. E quindi, sono sicuro che se fossimo rimasti a Grozny … (beh … la storia non tollera il congiuntivo). Quello che doveva succedere è successo. Ma rimango della mia opinione che avrebbe potuto essere diverso. Questo è già dall’area del “potrebbe”. E non è successo.

Nel marzo 1996 lei ha affrontato, come comandante, quella che forse è stata la più grande battaglia difensiva combattuta dall’esercito ceceno nel 1996. Mi riferisco alla battaglia di Goiskoye. Ho letto pareri contrastanti sulla scelta di affrontare i russi in quella posizione. Alcuni sostengono che la difesa del villaggio fosse insensata, provocando numerose vittime ingiustificate per le forze cecene. Altri sostengono che se Goiskoye fosse caduto troppo presto mani federali, l’intero sistema di difesa ceceno avrebbe potuto andare in frantumi. Dopo tutti questi anni, cosa ne pensa?

Impedire al nemico di raggiungere le colline pedemontane, bloccarlo nel villaggio di Goyskoe, questa è stata, dal punto di vista strategico, militarmente una decisione assolutamente corretta. Questa decisione è stata presa dal Comando supremo delle forze armate della Repubblica cecena di Ichkeria. Sì, so anche che esiste una dichiarazione del genere, ma sulla base di perdite reali, non abbiamo subito perdite gravi durante la difesa di Goiskoye. Sì, c’erano morti, diverse persone che sono morte sono rimaste ferite, ma non ci sono state perdite del genere. Non c’è guerra senza perdita. Ebbene, in senso strategico, la protezione e la difesa di Goiskoye hanno permesso di mantenere la linea del fronte, che si sviluppava da Bamut ad Alkhazurovo. Alkhazurov era caduta sotto il controllo russo, ed anche Komsomolskoye era caduta sotto il controllo russo. Ma a Goyskoye non li abbiamo lasciati andare oltre. Abbiamo impedito il passaggio dei russi fino alle pendici. E così abbiamo mantenuto il fronte e la linea del fronte. E questo era di importanza strategica, tanto più sullo sfondo del fatto che i russi avevano iniziato a parlare di negoziati, di tregua. Nel caso di una tregua finalizzata ad un dialogo politico, naturalmente, la conservazione di un certo territorio che controllavamo, era di grande importanza, e in relazione a questo, Dzhokhar Dudayev ha preso la decisione di proteggere Goiskoye . Sì, siamo durati un mese e mezzo. E solo più tardi, dopo la morte di Dzhokhar Dudayev, quando Bamut era già caduta, si decise di lasciare Goiskoye. Ma finché Achkhoy e Bamut erano in mano nostra, mantenemmo la linea di difesa anche a Goyskoye. Quando lì il fronte fu interrotto, a quel punto fu inutile continuare a tenere posizione e perdere i nostri combattenti. E così si decise di ritirare le nostre unità in montagna. Successivamente, ci distribuimmo più vicino alla città e iniziammo a prepararci per l’operazione di agosto.

Dopo la morte di Dudayev, il potere è stato trasferito al vicepresidente Yandarbiev, che è entrato in carica come presidente ad interim. La decisione di trasferirgli il potere è stata unanime? O ci sono state discussioni a riguardo?

In linea di principio non ci sono state discussioni, solo un voto era contrario, il resto si espresse a favore del riconoscimento di Zelimkhan Yandarbiyev come vicepresidente. Era in linea con la nostra costituzione, con le disposizioni presidenziali, ed è stata accettata. E Zelimkhan Yandarbiev ha iniziato a fungere da presidente.

Dopo che Yandarbiev ha assunto i poteri presidenziali, l’ha nominata assistente presidenziale alla sicurezza. Quali erano i suoi doveri in questa posizione?

SÌ. Mi ha nominato Assistente del Presidente per la Sicurezza Nazionale. E allo stesso tempo, sono stato contemporaneamente nominato Comandante della Brigata Speciale Separata. Cioè, l’unità che ho comandato, che all’epoca era Terzo Settore, è stata elevata allo status di Brigata sotto il Presidente della Repubblica cecena di Ichkeria. Fondamentalmente, questo è stato necessario perché Zelimkhan Yandarbiyev (dopo essere rimasto con noi  all’interno del Palazzo Presidenziale fino all’ultimo momento, fino a quando non abbiamo lasciato la città) non è stato più coinvolto in operazioni militari nell’anno e mezzo successivo, e in quel periodo erano state create nuove unità e nuove persone sono apparse nella gerarchia militare. E naturalmente, Zelimkhan aveva bisogno di una persona che conoscesse militarmente l’intero sistema. Abbiamo lavorato con lui e nel periodo successivo Zelimkhan è stato introdotto in tutte le direzioni, nei fronti e nelle nostre unità, e poi come comandante supremo, ha iniziato a gestire personalmente questi processi. Il mio compito era quello di raccordo [tra lui e gli ufficiali, NDR]. Poi, terminate le operazioni militari, è diventato quello di “Segretario del Consiglio di sicurezza”. Fino a prima delle elezioni, in linea di principio, svolgevo queste funzioni.

Memorie di Guerra: Francesco Benedetti intervista Akhmed Zakayev (Parte 1)

Quella che segue è la trascrizione della prima parte dell’intervista tra Francesco Benedetti ed Akhmed Zakayev realizzata da Inna Kurochkina per INEWS (alleghiamo il link al video originale, che presto sarà accompagnato da sottotitoli in inglese ed italiano)

1. Il 6 dicembre 1994, pochi giorni prima che l’esercito federale invadesse la Cecenia, una delegazione nominata da Dudayev si recò a Vladikavkaz per conferire con il ministro russo per le Nazionalità, Mikhailov. Nelle sue memorie lei dice che un certo numero di imprenditori petroliferi si è unito alla delegazione guidata dal ministro dell’Economia Abubakarov. Quale pensa fosse lo scopo della loro presenza? È possibile che tra le proposte che la delegazione avrebbe dovuto presentare ci fosse un accordo sullo sfruttamento del petrolio ceceno o sullo sfruttamento delle raffinerie cecene?

In quel momento e durante quel periodo, la presenza in questa delegazione del Ministro dell’Economia e delle Finanze Abubakarov, e del Vice Primo Ministro Amaliyev, non era associata ad alcun possibile accordo sul funzionamento delle raffinerie di petrolio. Erano i nostri rappresentanti e delegati di Dzhokhar Dudayev. Non solo hanno “aderito”, ma sono stati inclusi in questa delegazione. E da lì sono andati da Kizlyar a Mosca, per approfondire la questione della prevenzione dell’aggressione militare dalla Russia, per prevenire una guerra. Dzhokhar ha fatto tutto il possibile per prevenire lo scoppio delle ostilità in Cecenia. E praticamente la nostra delegazione era a Mosca, guidata da Tyushi Amaliyev, con Abubakarov, il ministro delle finanze e dell’economia, quando la Russia ha iniziato a bombardare Grozny. L’11 dicembre, nonostante tutto, Eltsin ha firmato un decreto sull’introduzione delle truppe e l’inizio di una campagna militare. Quindi, in quel momento e in quel periodo, non si trattava del funzionamento dei pozzi petroliferi, o meglio, dell’utilizzo delle raffinerie di petrolio, o del petrolio ceceno che si produceva in quel momento.

2. Allo scoppio della guerra lei si è messo al servizio del presidente Dudayev e nel giro di pochi mesi le è stato affidato il compito di allestire un fronte autonomo. All’epoca lei era Ministro della Cultura, di certo nessuno si aspettava che prendesse le armi e facesse la guerra. Perché ha deciso di arruolarsi?

(ride)

Il fatto è che non sono andato al servizio di Dudayev. Sono stato nominato ministro della cultura della Repubblica cecena di Ichkeria con decreto di Dudayev. Nessuno ha servito nessuno. Abbiamo lavorato per il nostro stato e Dzhokhar Dudayev, in qualità di presidente, aveva l’autorità di nominare e revocare. La mia nomina fu in ottobre, quando Dzhokhar Dudayev mi ha offerto di lavorare nella sua squadra. L’ho accettata nonostante tutto quello che è successo. Dico solo nel mio libro che per me non c’era differenza, era assolutamente ovvio che ci sarebbe stata una guerra. E ho detto a Dzhokhar: “Dzhokhar, non fa differenza per me in quale veste difenderò la nostra patria, il mio posto è qui, con la mia gente. Come un bidello, o come un ministro .. ” Dzhokhar ha poi detto, ricordo le sue parole, ne ho appena scritto. Egli ha detto: “No, non ci sarà nessuna guerra. Il mondo non lo permetterà. Non lo permetterò. Non ci sarà la guerra, dobbiamo fare un lavoro creativo. E il tuo posto è esattamente in questa direzione. E quindi devi accettare la mia offerta. Ho accettato questa offerta. Sono tornato nella repubblica e già il primo giorno, il 18 novembre, sono andato ufficialmente a lavorare e il 26 novembre è iniziata la guerra.

In linea di principio, questa è la prima invasione delle truppe russe con il pretesto della ‘”opposizione cecena” nella città di Grozny, dove furono sconfitte. E ora per la seconda parte della domanda. Il fatto è che secondo la nostra legislazione, penso che sia lo stesso in Italia, i membri del governo, se inizia una guerra, diventano responsabili del servizio militare, indipendentemente dalla loro posizione. Cultura, o arte, non importa, tutti diventano responsabili del servizio militare. Io, in linea di principio, prima di essere nominato comandante del settimo fronte, mi sono unito alla milizia popolare. Ricordo quel giorno, il 28 dicembre, quando fu bombardato il mio ufficio del Ministero della Cultura, nel palazzo del Sindaco, e lo stesso giorno io… C’era gente in piazza che si arruolava volontaria nella milizia popolare. Mi sono iscritto alla milizia e solo l’11 gennaio Dzhokhar mi ha richiamato dalla carica di ministro della Cultura, perché era prevista una riunione del governo. E sono tornato dalle mie posizioni alla riunione del governo l’11 gennaio. E in questo giorno Dzhokhar mi ha affidato un altro compito, ne ho scritto anche nelle mie memorie, e poi, già a marzo, quando la città è stata abbandonata e ci siamo ritirati a piedi, a quel tempo Dzhokhar firmò il Decreto sulla creazione del Settimo Fronte e mi nominò Comandante. Cioè, abbiamo iniziato a formare questo fronte, in generale, da zero.

3. Dopo la caduta di Grozny in mano russa, e il ritiro delle forze cecene sulla linea di difesa della montagna, il governo è stato riorganizzato per sopperire alle defezioni di alcuni alti funzionari, ma anche per funzionare in modo più snello in un contesto di guerra totale. Questo “governo di guerra” ha continuato a funzionare per tutto il durata del conflitto, e superò la morte di Dudayev, mettendosi a disposizione del Presidente ad interim, Yandarbiev. Come ha operato questo governo, e come è riuscito a incontrarsi, a tenersi in contatto con il Presidente?

Il Governo Militare, quello che tu chiami il Governo Militare, era il Comitato di Difesa dello Stato, formatosi con Decreto Presidenziale quando iniziò l’aggressione militare. E questo corpo era l’organo supremo dello Stato. Il Parlamento ha interrotto la sua attività legislativa. Il governo era già stato trasferito su una base militare e il Comitato di difesa dello Stato era stato formato come Organo supremo del potere statale. Comprendeva membri del Governo, membri del Parlamento, il Comando Militare Principale rappresentato dallo Stato Maggiore Generale, i Comandanti di Fronti e Direzioni. E questo governo ha funzionato per tutto questo periodo. Come sono stati gli incontri? Naturalmente, sapevamo tutti dove si trovava il comandante in capo supremo, in quale parte della repubblica. E periodicamente convocava una riunione del Comitato per la difesa dello Stato, e discutevamo questioni relative alla continuazione della resistenza. Sono state discusse questioni di natura militare in relazione alla preparazione di operazioni militari o attacchi al territorio nemico. Tutti questi punti sono stati discussi durante la riunione del Comitato per la difesa dello Stato, che ha funzionato in modo molto efficace. Era un piccolo numero di persone, ma erano persone direttamente coinvolte in tutti i processi: questioni politiche, militari, economiche. Questi compiti non erano gli unici che avevamo, perché dovevamo anche fornire alle unità le disposizioni necessarie, anche questo era di competenza del Comitato per la difesa dello Stato. E tutte queste questioni sono state discusse e hanno funzionato in modo molto efficace proprio per il fatto che Dzhokhar Dudayev non è andato sottoterra, nelle foreste, nelle montagne, dove sarebbe stato impossibile rintracciarlo, ma ha tenuto incontri personali con tutte le unità, no solo con il Comitato di Difesa dello Stato ma anche con le unità militari. È andato in prima linea, al fronte, ha incontrato soldati ordinari. E tutta la nostra difesa e tutti i nostri combattenti della resistenza, hanno assunto un atteggiamento molto responsabile perché dietro di loro c’era Dzhokhar Dudayev. Voglio dire, lungo la linea del fronte, dove si svolgevano le ostilità attive, i soldati sapevano che dietro di loro, dietro le loro spalle, c’era già il quartier generale del comandante supremo.

Quando [Dudaev] attraversava l’Argun, andando dall’altra parte, le Forze Armate [che operavano lì] hanno annunciato con orgoglio che il Comandante Supremo era ora dalla loro  parte del fronte. C’era un’atmosfera molto amichevole. Quando ricordo questi tempi, questo periodo, noto che nonostante tutte le difficoltà che abbiamo vissuto allora, c’era una guerra, ma le persone erano diverse. Eravamo diversi. I ceceni erano completamente diversi. Erano diversi dai ceceni di oggi, quelli che vivono nel territorio e quelli che sono fuori. E tutto ciò era collegato, credo, al fatto che siamo stati sotto l’occupazione sovietica per settant’anni e per la prima volta abbiamo avuto la possibilità di costruire il nostro stato. Stato indipendente. E il leader di questo movimento e dello stato, e in seguito il leader della Difesa e il leader del movimento di liberazione nazionale, ha ispirato in molti modi e non solo i combattenti, ma l’intero popolo ceceno a resistere e respingere l’aggressione. Erano tempi semplicemente fantastici nella storia del popolo ceceno, quando l’intero popolo ha effettivamente compiuto un’impresa. È stato grazie all’impresa del popolo ceceno che siamo riusciti a preservare le strutture di potere che ciò che stavamo costruendo. E fondamentalmente a vincere.

4. Tra marzo e maggio 1995, secondo quanto lei riferisce nelle sue memorie, lei si è occupato di allestire, a tempo di record e con mezzi pressoché inesistenti, il cosiddetto “Settimo fronte” a sud di Urus – Martan, che avrebbe dovuto essere il punto di contatto tra la roccaforte di Bamut e il resto dello schieramento ceceno. Nel suo libro racconta di come è nato il Settimo Fronte. Potrebbe spiegarci come si è sviluppato, quali unità lo componevano e quali operazioni ha svolto fino al giugno 1995?

Questo è successo a marzo, Dzhokhar Dudayev ha firmato un decreto. A questo punto tutte le nostre unità si erano spostate ai piedi delle montagne, perchè la parte pianeggiante era già principalmente sotto il controllo degli aggressori russi, e rimanevano i contrafforti, a partire da Bamut e ad Alkhazurovo, in questa direzione, e lì più in alto, verso la regione di Grozny, a Chishki, a Dacha Borzoi. Questa parte non era ancora occupata dai russi, ed era necessario creare una difesa unificata in questa direzione, da Bamut ad Alkhazurovo. E lo scopo del Settimo Fronte, il compito del Settimo Fronte, era proprio questo. Questo è il cosiddetto distretto di Urus – Martanovsky. Si credeva che quest’area fosse fedele alla Russia, agli aggressori russi, perché lì funzionava il regime di occupazione, le strutture del potere di occupazione, guidate da Yusup Elmurzaev, l’allora prefetto, che fu nominato dalle autorità di occupazione. Il compito principale  di questo fronte era la creazione di basi militari in tre gole: Martan Chu, Tangi Chu, Roshni Chu. Fu in queste tre gole che in pochi mesi formammo tre basi militari. Sebbene al momento della firma del decreto, non vi fossero praticamente unità militari (c’erano solo milizie, persone che facevano parte della milizia popolare, ma non c’era un comando centralizzato) noi in breve tempo, da quelle unità, da quelle milizie popolari che erano allora in questa regione, creammo questo Settimo Fronte, e un’unità militare centralizzata, sotto il comando del Comandante in Capo Supremo Dzhokhar Dudayev. Successivamente, questo Settimo Fronte fu trasformato in Settori del Fronte Sud-Occidentale: Il Primo, il Secondo, e ilTerzo Settore. Questi settori erano sotto la mia responsabilità. Successivamente sono stato responsabile del Terzo Settore del Fronte Sudoccidentale. Citando i cognomi, questi sono, in linea di massima, i nostri giovani comandanti di medio livello, Dokka Makhaev, Dokka Umarov, Khamzat Labazanov, Isa Munaev, questi ragazzi …

Akhyad (non lo chiamerò con il suo cognome, perché è vivo ed è sul territorio), Khusein Isabaev, erano questi ragazzi l’anello intermedio dei comandanti che guidavano questi settori e questa direzione. Sebbene fosse già un’unica unità militare, che faceva parte delle Forze Armate ed era già stata strutturata nello Stato Maggiore delle Forze Armate della CRI.

5. Nella primavera del 1995 lei poteva considerarsi uno dei principali ufficiali dell’esercito della ChRI, ed era sicuramente monitorato dall’FSB e dall’intelligence dell’esercito russo. In che modo le forze federali hanno cercato di impedire a lei e ad altri alti ufficiali di partecipare alla resistenza? E come siete riusciti a eluderle?

Prima di tutto, Dio ci ha protetti. E, in secondo luogo, sono stati i ceceni e il popolo ceceno. Eravamo a casa. Eravamo nei nostri villaggi nativi, nei nostri insediamenti nativi. E, naturalmente, il popolo ceceno era la principale protezione di coloro che erano allora nelle forze armate. E il presidente Dzhokhar Dudayev, sai, la repubblica è piccola, per tutto questo tempo è stato tra i ceceni, era in diversi insediamenti, in ogni villaggio dove i combattenti si sono fermati, anche se c’erano anche persone di mentalità opposta e codarde. Ma in generale, i nostri sostenitori, sostenitori e indipendenza, e coloro che hanno sostenuto il nostro movimento di liberazione nazionale, erano molto più forti ed erano molto più numerosi. Riuscirono a sventare sia i tentativi di assassinio che quegli agguati che tesero non solo me, ma anche coloro che allora furono coinvolti ed erano inseriti nei ranghi, come hai detto, nella più alta composizione del Comando. Tutti erano protetti dal Popolo ceceno. E, naturalmente, non tutto era sotto il controllo né dell’FSB né dei russi. La vita e la morte sono nelle mani di Dio. E quelle ragioni, quelle azioni che sono state intraprese da noi per sopravvivere, e cosa hanno fatto i ceceni con noi, il popolo ceceno, proteggendo i loro comandanti, le persone che hanno difeso la loro patria, la loro patria e se stesse.

I NEWS intervista Francesco Benedetti

Alcuni giorni fa Francesco Benedetti ha incontrato a Firenze Inna Kurochkina di I NEWS. L’intervista che ne è uscita fuori riprende i discorsi affrontati in un’altra chiacchierata, svoltasi più o meno un anno fa, poco prima che la Russia invadesse l’Ucraina. Nel corso di questo anno molte cose sono cambiate, il lavoro di Francesco è andato avanti e con esso la sua consapevolezza di quanto sia importante per l’Occidente la storia della Cecenia.

Riproponiamo il video dell’intervista, allegandone la trascrizione in lingua italiana.

TRASCRIZIONE IN ITALIANO DELL’INTERVISTA

Prima di tutto vorrei congratularmi con te da parte di tutti i visitatori, gli abbonati che hanno già letto il tuo primo volume. Da oggi è possibile avere questo secondo volume. Com’è possibile averlo?

Prima di tutto grazie a te, e grazie a tutti coloro che hanno apprezzato il primo volume, e che mi hanno dato questa considerazione. Il libro in questo momento è disponibile in italiano, su Amazon, ma sarà presto disponibile in inglese, grazie alla collaborazione di Orts Akhmadov, figlio di Ilyas Akhmadov, che sta lavorando con me alla versione inglese, e presto sarà disponibile anche in lingua russa e cecena, come per il primo volume.

L’altra volta che ci siamo visti ed abbiamo parlato del tuo libro era il Dicembre del 2021 e forse ci aspettavamo la guerra, questa tragedia. Poi ci siamo incontrati a Bruxelles nel primo giorno della guerra, quando sia noi che tu incontrammo per la prima volta Akhmed Zakayev. Con il tuo aiuto partecipammo ad alcuni eventi di Radicali Italiani, queste ottime persone che organizzarono la visita di Akhmed Zakayev in Italia, quindi in qualche modo sei coinvolto nelle nostre attività ed in quelle di Ichkeria. Com’è cambiata la tua vita durante questo anno?

Sicuramente ho avuto esperienze più reali rispetto a questo tema. Ero un semplice studente della storia della Repubblica Cecena di Ichkeria, ma la mia esperienza era puramente teorica, astratta, non concreta, materiale. Da quel giorno ho avuto modo di parlare con molte persone, e questo secondo libro è scritto anche grazie alle memorie di circa un centinaio di persone con le quali ho parlato. Così, la mia conoscenza di quella esperienza storica e dell’esperienza umana dei ceceni è cresciuta enormemente. Da Febbraio ad oggi ho dato volti, nomi ed vite ad un’esperienza che per me fino ad allora era stata soltanto teoretica.

Io e te stiamo lavorando alla storia della Repubblica Cecena di Ichkeria, perché anch’io sto facendo un ciclo di cronache. Capisci l’espressione “nella tua pelle”? Come hai sentito sulla tua pelle come la guerra stesse arrivando in Cecenia?

Una delle domande che mi faccio studiando la storia della Cecenia, e in particolare studiando questo periodo è stata proprio “come mi sarei sentito se mi fossi trovato in quella situazione?” E mi faccio questa domanda quasi tutti i giorni, perché il mio studio si basa sulle memorie delle persone che intervisto, e le mie interviste si focalizzano proprio si questo aspetto di ogni evento storico: naturalmente chiedo informazioni, nomi, date eccetera, ma la prima domanda che ho fatto in quasi tutte le interviste è stata “come ti sentivi in quel momento?” “Come passasti il periodo tra il 26 Novembre e l’11 Dicembre (il lasso di tempo tra l’assalto a Grozny da parte dell’opposizione filorussa e l’invasione). Personalmente provo ogni giorno ad immaginarmi quali fossero i sentimenti delle persone che aspettavano la guerra, cosa pensavano: i loro figli, le loro famiglie, come mettere in salvo le loro famiglie, come mettere in salvo le loro cose, i loro soldi, le loro auto, le loro case. Un evento come questo può distruggere completamente la vita, cambia per sempre la vita della gente. Credo di essere una persona abbastanza empatica, e ti assicuro che scrivendo questo libro ho sofferto molto. Come ogni autore rileggo molto spesso il libro che ho letto, ed ogni volta ho la stessa sensazione da una parte di tragedia, dall’altra di ammirazione per quelle persone che sono sopravvissute alla guerra, in questo caso riuscendo a vincerla, contro i loro invasori.

Vorrei comprendere come inquadri la natura del popolo ceceno. Io sono nata in Georgia, sono ucraina. Vorrei lavorare per il popolo georgiano, o per quello ceceno, ma tutto il mio cuore ora appartiene al popolo ceceno, non so perché. Come potresti descrivere il tuo sentimento verso il popolo ceceno? Perché se ti sei innamorato per questo popolo, lo hai fatto perché hai in te una passione.

Capisco quello che pensi perché, se ci penso, è veramente strano ciò che mi è capitato. Vivo in Toscana, e non ho alcun collegamento familiare, economico o di qualsiasi altro genere con la Cecenia. Eppure fin da quando ero bambino, la prima volta in cui ho ascoltato il nome “Cecenia” è successo qualcosa. Non so cosa precisamente, un’affinità elettiva che è cresciuta dentro di me, e non so precisamente perché.

Ciò che amo del popolo ceceno, riguardo a questa storia, è la sua capacità di mostrare la felicità nella tragedia. In loro ho visto persone che non vogliono essere considerate vittime, ma persone che riescono a trovare la bellezza della vita in ogni cosa. Loro hanno mostrato al mondo come si ride di fronte alla morte, e come si conserva l’umanità anche in una situazione che, se mi immagino di essere al loro posto, strapperebbe via l’umanità anche da me. Se una guerra distruggesse la mia vita forse diventerei pazzo. Ho parlato con molte persone che hanno combattuto una guerra e non sono impazzite, ma anzi hanno conservato la loro gentilezza, il loro essere persone buone. Non so se sarei in grado di conservare in me queste qualità, combattendo una guerra. Penso che questo tratto caratteriale dei ceceni sia bellissimo: il fatto che siano riusciti a conservare felicità e voglia di vivere nonostante abbiano dovuto affrontare esperienze così amare.

Conoscendo questo tratto caratteriale speciale di questo popolo, pensiamo a quanto la Russia si sia impegnata a distruggerli. E’ una storia biblica per me. Tu che ne pensi?

Quando un bullo prova a picchiare una vittima, e questa gli sorride, il bullo diventerà ancora più rabbioso, ma alla fine sarà sconfitto dalla resilienza della sua vittima. In questo senso ho amato la lotta dei ceceni, i quali hanno mostrato ai russi che il loro spirito non si sarebbe mai spezzato.

In quest’ultimo anno ci siamo resi conto che gli ucraini non avevano capito cosa fosse stata la guerra in Cecenia, perché esattamente come i russi non se ne erano preoccupati. Adesso hanno capito, ed il parlamento ucraino ha riconosciuto l’indipendenza, lo stato di occupazione ed il genocidio del popolo ceceno. Cosa deve succedere perché anche i liberali russi capiscano questa tragedia? Nella loro visione della vita non c’è nessuna guerra cecena e nessuna tragedia cecena, e ovviamente non c’è nessuna Ichkeria. Cosa ne pensi?

Penso che i liberali russi siano anche loro parte dell’impero russo. Forse vogliono un “impero liberale”? Forse è un non – senso. Non credo che in questo senso ci sia tanta differenza tra i partiti radicali e quelli moderati, o liberali. Tutti vogliono la stessa cosa: rafforzare l’impero, in una forma o nell’altra. Forse i liberali russi, non vogliono combattere la guerra in Ucraina, ma non vogliono neanche perdere l’integrità del loro impero. Non vedo niente di strano in questo. Sono più abituato a studiare ed a leggere le notizie di un altro impero, quello americano, ed i liberali dell’impero americano non sono meno arrabbiati ed aggressivi rispetto ai nazionalisti. I cittadini di un impero crescono pensando che l’unico modo per preservare il paese sia tenero unito e schiacciare ogni voce dissonante.

Sono stata molto sorpresa dal tuo “hobby”. Mostrerò dei pezzi di uno dei video della tua band, che si chiama “Inner Code”. Parlami di questa canzone che parla dell’impero. Sono così sorpresa perché sei di Firenze, noi non riusciamo a mettere in relazione il concetto di “impero” con la città di Roma,  che è così bella.

Roma in questa canzone è l’archetipo dell’impero. Quando pensiamo all’impero romano pensiamo all’impero per definizione. Lo stesso impero russo si ispira all’impero romano. La parola “Zar” è la traduzione del latino “Caesar”, il Kaiser dell’impero tedesco è la traduzione germanica di “Caesar”, e così via. “Brucerà Roma” parla della caduta di Roma, ma per estensione parla della caduta di tutti gli imperi. Per quanto grande e forte, ogni impero prima o poi cadrà. Quando ascolto questa canzone trovo un collegamento con la storia di cui stiamo parlando, essendo una storia che può funzionare con qualsiasi impero, anche per quello russo. Consiglio comunque di ascoltare la canzone a volume basso!

[…]

Fondamentalmente, tutto ciò di cui stiamo parlando gira intorno alla parola “Libertà”. Tu sei una persona libera sotto tutti i punti di vista, come vedo. Vedi la libertà di Ichkeria sotto attacco? Pensi che le forze imperiali, l’Fsb, vogliano cancellare questo obiettivo di libertà? Noi percepiamo questi attacchi, per esempio quelli che stanno venendo portati contro Akhmed Zakayev, una persona che è un simbolo della libertà di Ichkeria. Percepisci questi attacchi dall’Italia?

Immagino che questo comportamento sia coerente con la situazione. Ho una percezione indiretta di questo, perché sfortunatamente i giornali italiani non raccontano molto ciò che succede in Cecenia o nella diaspora cecena. Tuttavia avendo alcuni contatti con i membri della diaspora cecena per via dei miei studi, immagino che queste persone stiano parlando di progetti  presenti e futuri per raggiungere l’indipendenza e la libertà della Cecenia e che talvolta lo facciano discutendo animatamente, o arrabbiandosi. Parlo da italiano, non penso di avere il diritto di dire ai ceceni ciò che devono fare. Solo, vedendo da fuori ciò che succede nella diaspora cecena, noto che ci sono delle “questioni irrisolte” ed è possibile che l’Fsb, o chiunque non voglia una Cecenia indipendente possa enfatizzare queste divisioni del fronte indipendentista per indebolirlo. Spero che le persone non cadano in questa trappola. Non so se l’indipendenza della Cecenia è lontana o vicina, ma è importante che ad ogni passo ci si trovi nella migliore condizione per raccogliere insieme tutte le forze per conquistare la libertà.

Negli ultimi mesi, anche grazie a te ed ai Radicali Italiani (penso all’incontro a Roma tra Zakayev e Benedetto della Vedova, al discorso al parlamento italiano, al riconoscimento di Ichkeria da parte del parlamento ucraino, all’appena terminato intervento di Zakayev al parlamento europeo ecc..) abbiamo visto un’evoluzione nella proposta del governo di Ichkeria. A Bruxelles Zakayev ha presentato un progetto di ricostituzione della Repubblica della Montagna, costituita nel 1918 e dissolta dai Bolscevichi, e che a suo tempo Zviad Gamsakhurdia e Dzhokhar Dudaev volevano ricostituire negli anni ’90.  Adesso Zakayev sta portando avanti quest’idea, questo progetto, ed il Ministro degli Affari Esteri, Inal Sharip è andato a Washington DC e lo sta presentando là. Da storico, pensi che questo progetto della Repubblica della Montagna sia più sicuro, più realizzabile rispetto alla Cecenia indipendente? Pensi che da sola la Cecenia riuscirebbe a sopravvivere ai suoi vicini così “mostruosi”?

Penso che creare una confederazione sia molto difficile, ma se questa è guidata da un centro forte, può moltiplicare la forza di ogni suo singolo membro. Se la confederazione è una semplice somma di soggetti non credo che durerà a lungo. Un esempio può essere quello dell’Unione Europea: una somma di paesi, ma la sua forza non è equivalente alla somma delle forze che la compongono. Perché ogni paese difende i suoi interessi, e questo è un problema perché uno stato costruito in questo modo non può resistere a forze di paesi come Stati Uniti, Russia, Cina. Il problema della nostra confederazione  è che non abbiamo un centro, una nazione che tiene unite tutte le altre. E ogni volta che una delle nazioni europee prende la supremazia le altre la combattono. Così la nostra confederazione europea è politicamente debole. Se i ceceni vogliono guidare una confederazione non devono farlo come lo hanno fatto gli europei. Se saranno abbastanza credibili da attrarre le altre nazioni in una confederazione della quale loro siano il centro, non come un centro imperiale, ma come il luogo di coloro che credono più di tutti gli altri a questo progetto,  e che per questo sono pronti a sacrificarsi più degli altri per tenere tutti insieme, allora credo che questo sia un progetto politico che può durare. Come, per esempio, gli Stati Uniti, i quali sono una confederazione che, dopo alcuni grossi problemi, è diventata la più potente nazione della terra. Una confederazione, quindi, può durare, ma ti serve un centro che abbia la credibilità e la forza per tenere insieme tutti gli altri, non con la forza ma dando l’esempio. Penso che i ceceni abbiano mostrato più di una volta al mondo grandi esempi.

Nel 1997 Russia e Cecenia firmarono un trattato di pace che poi fu tradito. Cosa pensi del desiderio da parte della comunità mondiale di convincere l’Ucraina a firmare un trattato simile con la Russia?

Guardando alla storia si capisce perfettamente che il reale valore dei documenti dipende dal fatto che questi riflettano o meno la situazione reale. Nel 1997 la Russia firmò un trattato di pace, ma mentre lo firmava stava preparando la seconda invasione. Secondo me se adesso accettasse un compromesso con la Russia, questo compromesso in nessun caso potrebbe sistemare alcuna situazione, perché non credo che i russi sarebbero soddisfatti, e neanche gli ucraini lo sarebbero. Credo che adesso un compromesso sarebbe soltanto un modo per spostare in avanti la guerra di tre o quattro anni. Credo che questo sia un momento nel quale è necessario risolvere un problema che è nato proprio in Cecenia. In una bellissima recensione di Adriano Sofri, un italiano che conosce bene la Cecenia, e che ha scritto un bellissimo articolo su questo libro, lui dice che quello che è successo in Ucraina è un remake di quello che è successo in Cecenia e in Georgia, e che l’Ucraina è la fine di una linea che inizia in Cecenia. E’ il momento di interrompere questa linea una volta per tutte, altrimenti dovremo aggiungere un altro punto a questa linea, tra quattro o cinque anni. Come europeo rifletto sul fatto che questa linea non si dirige lontano dall’Europa, ma dalla Cecenia verso l’Europa. Il punto successivo sarà ancora più vicino a casa nostra, non più lontano. Credo che l’Europa dovrebbe pensare a questo. Se non interrompono questo processo adesso, lo affronteranno di nuovo ancora più vicino a casa.

“Un manuale su come sconfiggere un impero” – Adriano Sofri presenta “Libertà o Morte!”

Il 13 Dicembre scorso, due giorni dopo l’uscita del secondo volume di “Libertà o Morte! Storia della Repubblica Cecena di Ichkeria, Adriano Sofri ha presentato il libro sulle colonne de Il Foglio, nella sua rubrica Piccola Posta. Riportiamo di seguito le sue parole, pubblicate anche su Facebook, su Conversazione con Adriano Sofri.

Adriano Sofri

Il singolare caso del giovane uomo che sa tutto della Cecenia e non si è mosso da Firenze

Segnalo oggi un caso culturale e umano piuttosto straordinario. Riguarda la Cecenia, e un giovane fiorentino che non ci è mai stato, non ne conosce la lingua, non conosce (ancora) il russo, ed è diventato lo studioso più autorevole della storia contemporanea di quel piccolo paese dai destini fatali. Francesco Benedetti è nato nel 1987, si è laureato in storia, ha una famiglia, una sua professione, una pratica musicale metal, e si appassionò presto alla vicenda di quel territorio grande, cioè piccolo, come una minore regione italiana, e popolato da poco più di un milione di persone, che si è ribellato per secoli all’impero russo e che, alla fine della versione imperiale sovietica, ha preteso l’indipendenza, ha sconfitto l’esercito russo in una devastante guerra aperta tra il 1994 e il 1996, e ne è stato sconfitto in una seconda guerra di sterminio nel decennio tra 1999 e 2009. Al costo della falcidie di un quinto della sua gente, dell’esilio di migliaia, della sottomissione dei rimasti alla corte di Putin, di cui sono diventati i pretoriani esosi ed efferati. Benedetti ha deciso di ricostruire su giornali, trasmissioni e memorie la cronaca quotidiana di questa vicissitudine, e di raccoglierne direttamente tutte le voci ancora disponibili, in ogni parte di mondo in cui si sono disseminate. Mette così insieme una mole impressionante di racconti, che va diventando il riferimento internazionale principale per chi voglia conoscere il conflitto fra Cecenia e Russia dopo il 1991, e per gli stessi protagonisti. Se ne è fatto editore, stampando (e vendendo, in volume, 15 euro, o kindle, 5,99) attraverso Amazon, e intanto mettendo in rete una profluvie di interviste e fonti su Facebook, al suo nome e a quello di Ichkeria.net – il nome della repubblica cecena.

Solo in certi bambini speciali o in certi inquietanti concorrenti al rischiatutto sorge e dura il proposito di sapere tutto di qualcosa. Un pezzo leggendario del Caucaso, Pushkin e Tolstoi e Lermontov – e Anna Politkovskaya – chi non vorrebbe? Senza una simpatia intima per il suo tema una simile ambizione non potrebbe esistere, e tuttavia nell’opera di Benedetti ai valori dell’audacia, della tenacia e della fiera tradizione montanara sono congiunti il disonore, la rivalità, il fanatismo e la violenza che nel corso di una lotta così strenua, impari e spietata si sono fatte strada. La Cecenia del ’91 aveva il suo passato tragico da vendicare, e lo rivendicò più presto che altri paesi, compresa l’Ucraina: dopo alla grande carestia del Holodomor ucraino negli anni ‘30, che aveva infierito anche nel Caucaso, venne la brutale deportazione del 1944 in Siberia e in Kazakistan: nessun ceceno dei nati fra il 1944 e il 1956 (e oltre) nacque in Cecenia. Il primo volume, “Libertà o morte. Storia della repubblica cecena di Ichkeria (1991-1994)”, 425 pagine, era uscito in italiano e in inglese (c’è una versione cecena in corso) nel febbraio 2020. Il secondo, “La prima guerra russo-cecena. 1994-1996”, 373 pagine, è uscito l’altroieri (in inglese a marzo). L’autore lo presenta così, in un modo che raccomando energicamente:

“La guerra in Ucraina è iniziata in Cecenia. Può sembrare una provocazione. Eppure, è la realtà che rivelano le pagine di questo secondo volume, interamente dedicato alla Prima Guerra Russo–Cecena. Genesi, sviluppo e svolgimento di questo sanguinoso conflitto sembrano la bozza del copione cui il mondo sta assistendo in questi mesi tra il Donbass e la Crimea. Anche allora, come oggi, la Russia invase uno stato libero, mascherando la guerra che stava scatenando dietro alla definizione di ‘operazione speciale’. Anche allora, come oggi, il nemico dello stato russo era stato etichettato e demonizzato: se Zelensky ed il suo governo sono chiamati oggi ‘nazisti’, Dudaev ed i suoi ministri furono chiamati allora ‘banditi’. Anche allora, come oggi, convinti della loro superiorità, i comandi militari marciarono sulla capitale, pretendendo di piegare un popolo alla loro volontà, come avevano fatto più volte in epoca sovietica. Ma anche allora, come oggi, furono costretti a ritirarsi, per poi scatenare una sanguinosa guerra totale, la più devastante guerra europea dal 1945.

La Prima Guerra Russo–Cecena fu il primo tragico prodotto del revanscismo russo: il ‘punto zero’ di una parabola che da Grozny porta a Kiev, passando dalla Georgia, dalla Crimea, dalla Bielorussia e dal Donbass. Con una differenza sostanziale: che quella prima guerra contro la Cecenia, i russi, la persero. Le loro ambizioni, poggiate sulle fondamenta logore di un impero fatiscente, finirono frustrate dalla caparbietà di una nazione immensamente inferiore, per numero e per mezzi, a quella ucraina, che oggi difende la sua terra dalla guerra scatenata da Putin.

Questa storia può impartire a chi avrà la pazienza di leggerla due importanti lezioni: cosa succede quando si assecondano le ambizioni di un impero, e come si fa a sconfiggerlo. Se è già tardi per mettere in pratica la prima, per la seconda siamo ancora in tempo”.

Libertà o morte! Storia della Repubblica Cecena di Ichkeria – Esce oggi il secondo volume in italiano

La guerra in Ucraina è iniziata in Cecenia. Può sembrare una provocazione. Eppure, questa è la realtà che rivelano le pagine di questo secondo volume, interamente dedicato alla Prima Guerra Russo – Cecena. Genesi, sviluppo e svolgimento di questo sanguinoso conflitto sembrano la bozza del copione cui il mondo sta assistendo in questi mesi tra il Donbass e la Crimea.

Anche allora, come oggi, la Russia invase uno stato libero, mascherando la guerra che stava scatenando dietro alla definizione di “operazione speciale”.

Anche allora, come oggi, il nemico dello stato russo era stato etichettato e demonizzato: se Zelensky ed il suo governo sono chiamati oggi “nazisti”, Dudaev ed i suoi ministri furono chiamati allora “banditi”.

Anche allora, come oggi, convinti della loro superiorità, i comandi militari marciarono sulla capitale, pretendendo di piegare un popolo alla loro volontà, come avevano fatto più volte in epoca sovietica. Ma anche allora, come oggi, furono costretti a ritirarsi, per poi scatenare una sanguinosa guerra totale, la più devastante guerra europea dal 1945.

La Prima Guerra Russo – Cecena fu il primo tragico prodotto del revanscismo russo: il “punto zero” di una parabola che da Grozny porta a Kiev, passando dalla Georgia, dalla Crimea, dalla Bielorussia e dal Donbass. Con una differenza sostanziale: che quella prima guerra contro la Cecenia, i russi, la persero. Le loro ambizioni imperiali, poggiate sulle fondamenta logore di un impero fatiscente, finirono frustrate dalla caparbietà di una nazione immensamente inferiore per numero e per mezzi, a quella che ucraina, che oggi difende la sua terra dalla guerra scatenata da Putin.

Questa storia può impartire a chi avrà la pazienza di leggerla due importanti lezioni: cosa succede quando si assecondano le ambizioni di un impero, e come si fa a sconfiggerlo. Se è già tardi per mettere in pratica la prima, per la seconda siamo ancora in tempo.

Acquista il volume qui:

FREEDOM SOLD OR WAR BOUGHT? – REFLECTIONS BY APTI BATALOV (part 1)

I believe I am not mistaken when I say that one of the tragedies of the Chechen people originated on the day when Chechnya proclaimed itself an independent state. After choosing the first president, the Chechens naively believed that Russia would respect their choice. After all, Yeltsin said “take all the freedom you can swallow!” The Chechens did not know that “Swallowing freedom” they would regurgitate their blood.

The conquest of freedom

The Russians did not recognize the presidential elections held on October 27, 1991 in Chechnya. Rejecting any possibility of peaceful separation from Chechnya, the Kremlin has focused on the definitive solution of the Chechen “problem”. In planning actions against Chechen sovereignty, it was obvious that the Russian government would prioritize provocative and subversive activities, and this was evident from the growing activity of pro-Russian provocateurs on the territory of Chechnya. Funded and armed by Moscow, the leaders of the “anti-Dudaevites” began to form criminal groups under the cover of political slogans, calling themselves “opposition of the Dudaev regime”. In reality, the ideologues of this movement were full-time agents of the Russian special services and, following the instructions of the Lubyanka , they caused a civil war in the Chechens. Through these ” Mankurts ” [1], in the first half of the 90s of the twentieth century, Chechnya was transformed into a land of internal contrasts and social instability. Having already gained political independence from Moscow, many officials who held high positions in the state did what they could to discredit the idea of independence. With their actions they compromised the government, corrupted it, doing everything to make the Chechens repent of their choice. Every day, these people desecrated the idea of a free and sovereign state, and achieved many successes in this action, furthering the premises of the 1994/1996 Russo-Chechen War.

However, one detail had not been taken into consideration: the war imposed by the Kremlin would have ignited the genetic memory of the Chechens. All the people, with rare exceptions, took up arms and stood up to defend that choice. Evidently, after receiving the order to intensify their activities, the Russian special services agents began to increase their efforts to destabilize the political, economic and social situation throughout the Ichkeria territory. By sowing discord among the leaders of the state, creating an atmosphere of mutual distrust and enmity in the relations between yesterday’s comrades, the Russian mercenaries achieved the objectives set by Moscow. Instead of rallying around the president, in this hard and difficult time for the fate of the Chechen nation, and exercising their authority to defend and strengthen the authority of Ichkeria, the leaders of the country faced each other in the political arena with every sort of intrigue, against each other, using their credit only for speculative and populist purposes. After withdrawing troops from Ichkeria in 1996, the Russians invaded it with their agents. Terrible times came for Ichkeria, banditry assumed the proportions of a national catastrophe, kidnapping and the slave trade became the profession of a significant part of the former freedom fighters, lack of work and poverty swelled the ranks of criminals.

Heroes yesterday, enemies today

Thus there was no effective authority in Ichkeria. The comrades in arms of the President of yesterday, having had the opportunity to strengthen it, did not do so, but rather, having become politicians, they were the real antagonists of the President, doing everything to weaken his power. On every occasion, and under various pretexts, his authority was undermined: not a day passed without some “emergency” directed against the President. At that time I was convinced that these antagonists wanted to break Maskhadov psychologically. Imagine the state in which a person subjected to daily torture can be, every day more sophisticated and insidious. One fine day, the President collapsed… all this turmoil around the presidency drove the people to despair, their faith in authority and yesterday’s heroes disappeared. Social inequality, the absence of any guarantee of security, corrupt authorities at all levels, poverty and devastation: the Chechen people faced the 1999 war in these conditions … With an economic blockade, political and information isolation in place, the Chechen leadership he had no way of adequately preparing for Russian aggression.

The signs that the Russians were preparing a new war against Ichkeria appeared as early as February – March 1999. In February 1999, a demonstration of many thousands of people was held in support of the President’s policy in the city of Dzhokhar [formerly Grozny, NDR ]. The participants in the demonstration approved and supported in unison Maskhadov, the foreign and internal policy he pursued, and expressed the desire and willingness to take up arms to restore order in the country. Two or three Russian journalists were present at this gathering, being able to work without any restrictions. They assured me that the Russian media would report the demonstration, but not a single TV channel mentioned it. On the other hand, Russian public opinion began to be influenced by the idea that Maskhadov was a weak and indecisive person, that he had lost the support of the people, that power in Ichkeria was in the hands of the field commanders, that banditry and the slave trade flourished in Ichkeria. Obviously it would be wrong to deny these claims, which were partly true, but that the people did not support Maskhadov, or that he was weak, that was an absolute lie. The Chechen people had responded to the President’s appeal, and were willing to defend him. But the Russian media hid this fact from their audience. As for the field commanders, most of them obeyed without question the President and Commander the Chief of the Armed Forces.

But, as they say, no family is without monsters. On the occasion of the second anniversary of the signing of the Peace Treaty between Ichkeria and Russia on May 12 , 1997, well-organized celebrations were held in the city of Dzhokhar: events were held in the city center, horse races were held on the outskirts of the capital, with prizes in prize money, including “VAZ” 6 car models. It was a bright and festive day, during which the Ichkeria leadership showed all its desire for peace with Russia. Once again, Russian TV reporters worked on the event, as always without restrictions. And once again the media did not say a single word about the fact that similar celebrations were held in the city of Dzhokhar. All of this suggested that there would be no celebration the following year.


[1] Figuratively speaking, the word ” mankurt ” refers to people who have lost touch with their ethnic homeland , who have forgotten their kinship . For further information: https://en.wikipedia.org/wiki/Mankurt

THE GENERAL OF NAUR – MEMORIES OF APTI BATALOV (PART IV)

Battle in Ilaskhan – Yurt

After leaving Argun, we moved to a wooded mountainous area in the Nozhai – Yurt district. Here we organized our base, well hidden in a gorge near the village of Shuani. On the afternoon of March 25, a messenger arrived at the base: we were ordered to go in force to the village of Novogrozny, today Oyskhara. When we arrived Maskhadov gave me a brief report on the situation: “The Russians have left Gudermes, and are moving in the direction of Novogrozny. They crushed our defenses. We have to delay them at least for a few hours, until we evacuate the hospital and the documents. I have no one else to send except your battalion. I ask you to detain the Russians as much as possible: there are many wounded in the hospital, if the Russians find them they will shoot them all. ” Then Maskhadov told me that on the eastern outskirts of Ilaskhan – Yurt a unit of militiamen from nearby was gathering and they would give us a hand.

There were few people with me, about thirty in all, because after the retreat from Argun many of the militiamen, cold and tired, had dispersed to the surrounding villages to recover their strength. We immediately set off towards Ilaskhan – Yurt and, having reached the goal, we reunited with 70 militia men. The Russians advanced on the wooded ridge overlooking the village, traveling in the direction of Novogrozny. We settled in positions previously equipped, and then later abandoned. Their conditions were not the best: due to the heavy rains of those days they were full of water, and we guarded the positions with mud up to our knees. We tried to drain them, but the water returned to fill them in a few hours, due to the damp soil.

Soon our presence was noticed by the Russians, who began bombing our trenches from their high positions. Using mortars and field artillery. In that bombing we suffered the wounding of three or four men. However , they did not proceed to an attack, allowing us to hold them back for many more hours. Having left in a hurry, we had brought neither food nor water with us: we spent the next night hungry and cold in our damp trenches, under constant enemy bombardment. We were so starved that, when we managed to get our hands on a heifer the next day, we ate its almost raw meat, but not before getting permission from a local clergyman.

March 29 , the first Russian patrol reached our trenches. We managed to repel the assault: the enemy lost two men and retreated quickly. From the uniforms and weapons found in the possession of the fallen Russians, we understood that we had a paratrooper unit in front of us. As soon as the Russians were back in their trenches the artillery began a pounding bombardment on our positions with mortars and 120 mm artillery, causing many injuries among our units. After a long preparatory bombardment, the infantry moved on to the attack, and we began the unhooking maneuvers: some of us took the wounded away, others retreated into the woods, or returned to their homes. Only five of us remained in position: Vakha from Chishka, Khavazhi from Naurskaya, Yusup from Alpatovo, Mammad from Naursk station and myself. When we finally managed to get away we were exhausted: I came out with chronic pneumonia, which would accompany me in the years to follow.

Combined Regiment Naursk

In April, if memory serves me well, on April 2, as he said, the head of the main headquarters of the armed forces of the CRI, General Maskhadov, came to my base. The Chief of Staff briefly introduced me to the latest events and changes on the lines of contact between us and the Russians: it was clear from his words that our situation was not good. Consequently he asked me to become subordinate to the commander of the Nozhai- Yurta leadership, Magomed Khambiev. The same day I went to Nozhai-Yurt, where I met the new commander. He assigned the battalion’s area of responsibility to a location not far from the village of Zamai-Yurt, southwest of this village. Once deployed, we dug trenches and equipped shooting points for the machine gun. Here at the base, we, in our Naur battalion, were joined by groups of militias from Gudermes and the Shelkovsky district, for a total of 200 people. As a result, our battalion became the “Combined Naur Regiment”. I was confirmed by Maskhadov himself as commander of this new unit.

The Regiment held the assigned position until the early days of 1995, fighting a war of position against Russian forces. These faced us mainly with artillery, throwing a hail of mortar rounds at us, and increasing the dose with incursions of combat helicopters MI – 42 and MI – 18. During this phase we mourned the death of one of us, Dzhamleila of Naurskaya , and the wounding of ten men. Finally, in the first days of June , we received the order to switch to guerrilla warfare.

VERSIONE ITALIANA

IL GENERALE DI NAUR – MEMORIE DI APTI BATALOV (PARTE 4)

Battaglia ad Ilaskhan – Yurt

Dopo aver lasciato Argun, ci trasferimmo in una zona montuosa coperta di boschi, nel distretto di Nozhai – Yurt. Qui organizzammo la nostra base, ben nascosta in una gola vicino al villaggio di Shuani. Nel pomeriggio del 25 Marzo giunse alla base un messaggero: ci era ordinato di dirigerci in forze al villaggio di Novogrozny, oggi Oyskhara. Quando arrivammo Maskhadov mi fece un breve rapporto sulla situazione: “I russi hanno lasciato Gudermes, e si stanno muovendo in direzione di Novogrozny. Hanno schiacciato le nostre difese. Dobbiamo ritardarli almeno per qualche ora, finchè non evacuiamo l’ospedale ed i documenti. Non ho nessun altro da inviare, tranne il tuo battaglione. Ti chiedo di trattenere i russi il più possibile: ci sono molti feriti nell’ospedale, se i russi li trovano li fucileranno tutti.” Poi Maskhadov mi disse che alla periferia orientale di Ilaskhan – Yurt si stava radunando un reparto di miliziani provenienti dalle vicinanze, i quali ci avrebbero dato man forte.

Insieme a me c’erano poche persone, una trentina in tutto, perché dopo la ritirata da Argun molti dei miliziani, infreddoliti e stanchi, si erano dispersi nei villaggi circostanti per recuperare le forze. Ci mettemmo subito in marcia verso Ilaskhan  – Yurt e, raggiunto l’obiettivo, ci ricongiungemmo con 70 uomini della milizia. I russi avanzavano sulla cresta boscosa che dominava il villaggio, viaggiando in direzione di Novogrozny. Ci sistemammo in posizioni precedentemente attrezzate, e poi successivamente abbandonate. Le loro condizioni non erano delle migliori: a causa delle forti piogge di quei giorni erano piene d’acqua, e presidiavamo le posizioni con il fango fino alle ginocchia. Cercavamo di drenarle, ma l’acqua tornava a riempirle in poche ore, a causa del terreno umido.

Ben presto la nostra presenza fu notata dai russi, i quali iniziarono a bombardare le nostre trincee dalle loro posizioni elevate. Usando mortai ed artiglieria da campagna. In quel bombardamento patimmo il ferimento di tre o quattro uomini. Tuttavia non procedettero ad un attacco, permettendoci di trattenerli ancora per molte ore. Essendo partiti in fretta e furia, non avevamo portato con noi né cibo né acqua: trascorremmo la notte successiva affamati ed infreddoliti nelle nostre trincee umide, sotto il costante bombardamento nemico. Eravamo così provati dalla fame che, quando il giorno dopo riuscimmo a mettere le mani su una giovenca, ne mangiammo la carne quasi cruda, ma non prima di aver avuto il permesso da un religioso locale.

A mezzogiorno del 29 Marzo la prima pattuglia russa raggiunse le nostre trincee. Riuscimmo a respingere l’assalto: il nemico perse due uomini e si ritirò velocemente. Dalle divise e dalle armi trovate in possesso dei russi caduti capimmo di avere davanti un reparto di paracadutisti.  Non appena i russi furono rientrati nelle loro trincee l’artiglieria iniziò un bombardamento martellante sulle nostre posizioni con mortai ed artiglieria da 120 mm, provocando molti ferimenti tra le nostre unità. Dopo un lungo bombardamento preparatorio, la fanteria passò all’attacco, e noi iniziammo le manovre di sganciamento: alcuni di noi portarono via i feriti, altri si ritirarono tra i boschi, o tornarono alle loro case. In posizione rimanemmo soltanto in cinque: Vakha da Chishka, Khavazhi da Naurskaya, Yusup da Alpatovo, Mammad dalla stazione di Naursk ed io. Quando finalmente riuscimmo ad allontanarci eravamo esausti: io ne uscii con una polmonite cronica, che mi avrebbe accompagnato negli anni a seguire.

Reggimento Combinato Naursk

Ad aprile, se la memoria mi serve bene, il due aprile, come ha detto, il capo del quartier generale principale delle forze armate della CRI, il generale Maskhadov, è venuto alla mia base. Il capo di stato maggiore mi ha brevemente presentato gli ultimi eventi e i cambiamenti sulle linee di contatto tra noi e i russi: era chiaro dalle sue parole che la  nostra situazione non era buona. Di conseguenza mi chiese di diventare subordinato al comandante di la direzione Nozhai-Yurta,  Magomed Khambiev. Lo stesso giorno mi recai a Nozhai-Yurt, dove incontrai il nuovo comandante. Egli assegnò l’area di responsabilità del battaglione ad una posizione non lontana dal villaggio di Zamai-Yurt, a sud-ovest di questo villaggio. Una volta schierati, abbiamo scavato trincee e attrezzato punti di tiro per la mitragliatrice. Qui alla base, noi, nel nostro battaglione Naur, siamo stati raggiunti da gruppi di milizie di Gudermes e del distretto di Shelkovsky, per un totale di 200 persone. Di conseguenza, il nostro battaglione divenne il “Reggimento Combinato Naur”. Fui confermato dallo stesso Maskhadov comandante di questa nuova unità.

Il Reggimento tenne la posizione assegnata fino ai primi di giorni del 1995, combattendo una guerra di posizione contro le forze russe. Queste ci affrontavano principalmente con l’artiglieria, lanciandoci contro una grandine di colpi di mortaio, e rincarando la dose con incursioni di elicotteri da combattimento MI – 42 e MI – 18. Durante questa fase piangemmo la morte di uno di noi, Dzhamleila di Naurskaya, ed il ferimento di dieci uomini. Nei primi giorni di Giugno, infine, ricevemmo l’ordine di passare alla guerra partigiana.

THE GENERAL OF NAUR: MEMORIES OF APTI BATALOV (Part III)

Defending Grozny

When the federal forces reached Grozny, my men and I were in Gudermes, where we had quartered to form an organized unit made up entirely of men from the Naur District . On January 4th , a runner sent by Maskhadov was placed in our command post. He gave me the order to converge on our capital with all the men at my disposal. Once in the city, I met a young volunteer, who made himself available to organize our group and put it in coordination with the other fighting units. It is called Turpal Ali Atgeriev. In conversation with him, I learned that he had taken part in the war in Abkhazia and that he had some fighting experience. There was not a single war veteran among us, starting with me: I was in desperate need of someone with combat experience. For this I asked Atgiriev to become my deputy, and he accepted my proposal. Since he didn’t have a weapon, I handed him an RPK-74 machine gun. Someone criticized my decision, accusing me of having appointed a stranger as my deputy. I was not interested in this gossip and intrigue, I was worried about only one thing itself: saving lives and at the same time beating the enemy.

We were deployed in defense of the Pedagogical Institute. A regiment of Russian marines had targeted the building: if this had been taken, it would have been possible to easily reach Maskhadov’s headquarters, which was literally fifty meters from our position, under the Presidential Palace. The Russians tried to break through our defenses almost every day, until January 19 , 1994, but without success. In these attacks they lost many soldiers, whose corpses remained in the middle of the road, in no man’s land, prey to stray dogs. We tried to remove them, to save their bodies, but without a respite we could not have prevented them from being eaten. Several times, during the fighting, our command and the Russian one reached an agreement for a 48-hour truce, precisely to clean the streets of the corpses of Russian soldiers. During these truces we talked to the Russian patrols stationed on the side streets. I remember one of these conversations with a Russian captain, to whom I had thrown a pack of cigarettes: Guys he said, quit, you will not win, because you are not fighting the police, but the army. His voice was not arrogant, he was a simple Russian peasant. That battle was also difficult because to supply our armories we had to capture weapons and ammunition from the Russians. In every disabled armored transport vehicle we found a heap of weapons, cartridges and grenades, which we looted. Later the Russians became more careful, and we didn’t find much in their means. On the other hand, their vehicles were stuffed with all sorts of carpets, dishes and other goods looted from the population.

January 19 , when it became clear that the defense of the Pedagogical Institute would no longer slow down the fall of the Presidential Palace, we withdrew. I was ordered to organize the defense of the Trampark area , and we occupied positions on Novya Street Buachidze . Trampark changed hands several times, and there were fierce battles until February 7th . Right in via Novya Buachidze suffered a shock from a tank bullet which, entering the window of the room where I was with some of my men, hit two of them in full, killing them. This shock still undermines my health. Finally, on the evening of February 7 , a messenger from Maskhadov handed me a note in which I was ordered to leave the position, join Basayev in Chernorechie and leave the city. I should have assumed the defense in the parking area in Via 8 Marzo, where the departments were concentrating to prepare for the exit from the city. Once there we counted all those present: also considering the staff of the Headquarters, we were 320 men. Obviously some departments were not present: detached units fought in other areas of the city, and besides them there were the so-called “Indians”, armed gangs who did not obey anyone, they fought when it was favorable gold and along the way they plundered everything that they could find. When Maskhadov lined up us in the square, he told us that our descendants would be proud of us, that the victory would be ours, that we were leaving Grozny only to return one day. The night between 7 and 8 Fenbbraio we left the capital.

The Naursk Battalion

It was after the retreat from Grozny that my unit, still an amalgam of more or less organized groups, began to become a real tactical unit. This same process was also taking place in the other units that had formed spontaneously at the beginning of the war. Moreover, in the Chechen resistance there were no military units and formations in the classical sense of the term: “battalions”, “regiments” and “fronts” were symbolic terms that did not correspond to a battle order in the classical sense. For example, what was called the “Argun Regiment” was an association of several groups, often poorly armed, made up of a variable number of people, each of which replied to its own commander. The members of these units, all volunteers, could leave at any time, there was no precise chain of command.

Our team spirit had already been forged in the battles we had fought together, and which unfortunately had forced us to count the first fallen. The first of our men to die for the defense of Chechnya was Beshir Turluev , who fell at the Ishcherskaya Checkpoint in December 1994. Since then, other young Chechens had sacrificed their lives for their homeland. Among those who remained alive, and who fought more assiduously with me, a group of “veterans” began to form, who by character or competence acquired the role of “informal officers”. Thus, for example, a 4th year student of a medical institute, whose name was Ruslan, became the head of the medical unit, while Sheikh Khavazhi , from the village of Naurskaya , became the head of logistics. The latter was in charge of keeping in touch with the Naur region , from which the supplies for our unit came. The inhabitants collected the food intended for our livelihood and delivered it to us via a KAMAZ truck, driven by Umar, from the village of Savelieva, and his companion Alkhazur . Sometimes money was also collected, usually a small amount, which was scrupulously recorded and distributed among the men. For the needs of the battalion, for the entire period of the 1994-1996 war, I, from the central command, did not receive more than 3 thousand dollars.

Defending Argun

After we had withdrawn from Grozny, Maskhadov ordered us to fall back on Argun, to help defend the city. We quartered ourselves in the city hospital, now empty and unused. The commander of the stronghold was Khunkarpasha Israpilov, and the commander of the largest unit, the so-called “Combined Regiment”, was Aslambek Ismailov. We were deployed in the sector of the so-called “Indian village”, a front of about 350 meters along the Argun River. On our left were the so-called “Black Wolves”, characterized by wearing very dark jeans. On the other side were Alaudi ‘s men Khamzatov , guard posts on the main bridge over the Argun. In front of us was a Russian paratrooper unit. We learned that we were facing special forces from a Russian soldier whom we captured when, with his squad, he attempted a reconnaissance close to our lines. At that juncture, as soon as the other side learned that their group had been identified and attacked, the Moscow artillery launched a massive bombing on our positions, during which two of our militiamen fell: Daud, coming from the village of Kalinovsky and Rizvan , from Naurskaya . To scare us, the Russians played Vladimir Vysotsky ‘s “Hunting for Wolves” at very high volume . We responded with “Freedom or Death”. The supply of the militias in the city of Argun, as well as in Grozny, was very scarce, there was a severe shortage of ammunition, there was a catastrophic lack of machine gun cartridges, RPG-7 grenade launcher shells and only dressing bandages they were more or less in abundance among the drugs.

On the morning of March 20, the Russians began testing our defenses along the entire line of contact, simulating a force attack from our side. In reality, the main attack took place, surprisingly, at the Moskovsky state farm . We did not expect the enemy to break in from that side, and after a fierce battle during which we lost many men (including the commander of the Melkhu – Khe militia , whose name was Isa and a brave, young Lithuanian named Nicholas) we had to leave the city, to retreat to the wooded region of Nozhai – Yurt. In the defense of Argun, Abuezid , from the village of Naurskaya , Umar, Mekenskaya , Muslim, Nikolaevskaya also fell , while another ten of us were wounded. We left Argun in the night between 21st and 22nd March 1995.

IL TRADIMENTO CHE NON CI FU – L’OPERAZIONE “SCHAMIL” (I Parte)

Quando, nel Febbraio del 1944, Stalin decretò la deportazione di massa dei Ceceni in Asia centrale, egli motivò la terribile “punizione” con la supposta collaborazione dei Ceceni con le forze armate germaniche. Tale collaborazione sarebbe avvenuta, secondo la versione ufficiale, nel corso del 1942, in concomitanza con un’azione di intelligence e sabotaggio compiuta dalla Wehrmacht, chiamata in codice “Operazione Schamil”. Il marchio dell’infamia, gettato su tutti i ceceni dalla teoria del “tradimento”, avrebbe condizionato l’esistenza di un intero popolo il quale, ridotto a paria nel consesso delle nazioni che abitavano l’impero sovietico, fu costretto ad accettare una frustrante discriminazione sociale, economica e politica. Questa condizione fu uno tra i detonatori del desiderio di rivalsa che pervase i ceceni alla fine degli anni ’80, e alimentò quel desiderio di libertà che poi si concretizzò con l’indipendenza nel 1991.

Oggi in Russia si è accettata l’idea che la deportazione del 1944 fu un crimine terribile. Eppure rimane ben radicata dell’opinione pubblica l’idea che questo tradimento dei ceceni si sarebbe realmente consumato, e che pertanto vi sia una “colpa” ancestrale che i Vaynakh dovrebbero “espiare” di fronte alla madrepatria. Tralasciando il fatto che molti ceceni non considerano affatto la Russia la loro casa, e che quindi non si sentirebbero affatto dei “traditori” di una patria che non riconoscono, il fatto è che questa “colpa” non è affatto certa. Anzi, è piuttosto chiaro, dalle evidenze storiche, che la maggior parte dei ceceni combattè con onore nelle file dell’Armata Rossa, e che la popolazione civile non solidarizzò con i tedeschi più di quanto non lo fecero le altre nazioni sottoposte al giogo di Stalin.

Recentemente Pieter Van Huis, ricercatore dell’Università di Leida, nei Paesi Bassi, ha pubblicato una tesi dal titolo Banditi di montagna e fuorilegge della foresta. Ceceni e Ingusce sotto il dominio sovietico nel 1918-1944. Lo studioso dedica un capitolo proprio alla celebre “Operazione Schamil”: attingendo alle fonti documentali disponibili presso gli archivi della Wehmacht e dell’NKVD, ha saputo ricostruire la genesi e lo svolgimento di questa azione. Riepiloghiamo in sintesi quanto è emerso dagli studi di Van Huis, a loro volta riportati da Anastasia Kirilenko sul sito del Nodo Caucasico: https://www.kavkaz-uzel.eu/

I RAPPORTI LANGE

Le prime fonti cui fa riferimento Van Huis sono tre rapporti operativi, due firmati dal Tenente Maggiore Erhard Lange ed uno dal volontario osseto Boris Tsagolov. Tutte e tre le fonti, sebbene differenti nello stile, concordano sul fatto che l’operazione fu un sostanziale fallimento principalmente a causa della pronta reazione delle unità dell’NKVD, le quali procedettero a punire i residenti che davano ospitalità al nemico bruciando le loro case, o applicando punizioni collettive alle comunità che non si opposero attivamente al suo passaggio. Tutti e tre i rapporti, in ogni caso, concordano sul fatto che ad eccezione di alcune bande di irregolari, peraltro già attive prima dell’invasione, non fornirono un supporto sufficiente al buon esito dell’operazione.

Il primo di questi rapporti fu inviato da Ehrard Lange il 5 Gennaio 1943. In esso si riepiloga che l’Operazione Schamil ebbe inizio il 25 Agosto 1942, quando un aereo della Luftwaffe decollato da Armavir paracadutò 11 tedeschi e 19 volontari caucasici nei pressi di Chishki e di Dachu – Barzoi, a circa 30 kilometri da Grozny. Il cielo era sgombro, e la luce della luna illuminò fin da subito i paracadutisti, i quali furono presi di mira dal nemico. La maggior parte delle armi e dell’equipaggiamento fu quindi frettolosamente abbandonato, e ci vollero alcuni giorni prima che il gruppo potesse ricompattarsi, non prima di aver accertato alcune perdite e diserzioni. Il gruppo, ridotto a 22 uomini, tentò di racimolare qualche arma da fuoco sequestrandola agli abitanti dei villaggi vicini, mentre tentava di guadagnare un rifugio sicuro. Tuttavia, essendo stati notati fin dal loro arrivo, gli uomini del commando divennero da subito oggetto di una spietata caccia da parte dell’NKVD, che giunse a mobilitare addirittura 2.000 effettivi per stanarli. Lange tentò quindi di prendere contatto con i ribelli locali, arroccati sulle montagne, cercando di riunirli in un’unica banda organizzata, e di aggiungere a questa massa critica un contingente di 400 ribelli georgiani. Il piano, tuttavia, non riuscì a causa del fatto che il 24 Settembre 1942 l’NKVD intercettò Lange, costringendolo ad aprirsi una via di fuga con la forza. I sopravvissuti raggiunsero Kharsenoy, ma qui furono nuovamente intercettati e costretti a combattere. Dopo aver perduto altri uomini, Lange decise di abortire la missione. Dopo aver abbandonato le divise ed indossato abiti civili, riuscì a spacciare i resti del suo gruppo (cinque tedeschi e quattro caucasici) per una banda di banditi Cabardini, finché non riuscì ad ottenere la collaborazione di alcuni residenti locali, i quali accettarono di aiutarlo a patto i membri della banda fossero divisi e distribuiti secondo le loro volontà. Non potendo fare altro, Lange acconsentì. Lui e i suoi uomini rimasero nascosti fino al 9 Dicembre successivo, quando appresero che l’armata rossa aveva intercettato e distrutto la maggior parte dei ribelli operanti in Cecenia. Il giorno successivo Lange raccolse i suoi, e li portò oltre la linea del fronte. Rientrato alla base, l’ufficiale compilò una memoria nella quale indicò una lista di nomi di “103 persone assolutamente affidabili, che potrebbero fungere da guide”.

Successivamente, il 23 Aprile 1943, Lange depositò un secondo rapporto, nel quale specificava maggiormente lo scopo della sua missione: mettere in atto operazioni militari per ostacolare la ritirata nemica lungo la direttrice Grozny – Botlikh. Il compito, si specificava, non era stato portato a termine a causa del fatto che la maggior parte delle armi era andato perduto durante l’atterraggio, ma anche per via della scarsa collaborazione dei residenti locali. Secondo questo rapporto, una volta constatata la dispersione del “Gruppo Lange”, il comando tedesco aveva inviato una seconda unità, chiamata “Gruppo Rekert” a cercare di recuperare i dispersi. Questo secondo drappello, tuttavia, era stato sbaragliato ed i suoi componenti risultavano scomparsi. Rispetto al suo rapporto con i civili, Lange precisa che il gruppo era nelle mani della popolazione civile e correva quotidianamente il rischio di un tradimento da parte loro, e che soltanto dopo lunghe discussioni il commando riuscì a liberarsi da questa tutela. Infine, il resoconto specificava anche l’obiettivo secondario seguito da Lange una volta che quello principale (il sabotaggio) si rivelò irraggiungibile: Verificare la veridicità dei rapporti al Fuhrer secondo i quali ceceni e ingusci sarebbero particolarmente coraggiosi nella lotta contro i bolscevichi e, nel caso, fornire loro supporto logistico ed armi per proseguire la guerriglia. Per raggiungere questo secondo obiettivo Lang avrebbe dovuto passare alcune settimane in Cecenia, confidando nello spirito di ospitalità dei residenti locali. Egli sapeva che per un ceceno l’ospitalità è sacra. Nel rapporto riferisce, infatti: le regole locali sull’ospitalità richiedono di proteggere la vita di un ospite anche a costo della propria. Consci di questo, i tedeschi non risparmiarono ai ceceni veri e propri ricatti morali, minacciando di far sapere a tutti del disonore gettato sulla famiglia e sul Teip da persone che non accettavano di ospitarli e di collaborare con loro.

Se ottenere l’ospitalità dei ceceni sembrava piuttosto facile, molto più difficile risultò garantirsi la loro alleanza nel costituire un movimento di resistenza antisovietica. Sempre citando Lange:  I residenti locali non sono interessati a nulla, tranne che al destino del loro villaggio, nel quale vorrebbero vivere come contadini liberi. Essi non hanno alcun rispetto per il tempo, per lo spazio, né per il rispetto degli accordi presi. […] Tutto questo crea pessimi requisiti per una rivolta. Citando un evento accaduto al Gruppo Reckert, Lange ricorda che dopo aver ricevuto le armi, gli uomini sono tornati in fretta ai loro villaggi. A conclusione del suo rapporto, Lange consigliava di non investire uomini e mezzi in questa operazione, giacchè la popolazione locale non avrebbe combattuto per la Germania, ma al massimo per liberarsi delle fattorie collettive e riappropriarsi della terra.

ENGLISH VERSION


THE BETRAYAL THAT DID NOT HAPPEN – OPERATION “SCHAMIL” (Part I)

When, in February 1944, Stalin decreed the mass deportation of the Chechens to Central Asia, he motivated the terrible "punishment" with the alleged collaboration of the Chechens with the Germanic armed forces. According to the official version, this collaboration took place during 1942, in conjunction with an intelligence and sabotage action carried out by the Wehrmacht, codenamed "Operation Schamil". The stigma thrown on all Chechens by the theory of "betrayal", would have conditioned the existence of an entire people who, reduced to pariah in the assembly of nations that inhabited the Soviet empire, was forced to accept a frustrating social, economic and political discrimination. This condition was one of the detonators of the desire for revenge that pervaded the Chechens in the late 1980s, and fueled that desire for freedom which then materialized with independence in 1991.

Today in Russia it is accepted that the 1944 deportation was a terrible crime. Yet public opinion remains firmly rooted in the idea that this betrayal of the Chechens would actually be consummated, and that therefore there is an ancestral "guilt" that the Vaynakhs should "atone" in the face of the motherland. Leaving aside the fact that many Chechens do not consider Russia their home at all, and therefore would not at all feel like "traitors" to a homeland they do not recognize, the fact is that this "fault" is by no means certain. Indeed, it is quite clear from the historical evidence that most Chechens fought with honor in the ranks of the Red Army, and that the civilian population did not sympathize with the Germans any more than did other nations under Stalin's yoke. .

Pieter Van Huis, a researcher at the University of Leiden in the Netherlands, recently published a thesis entitled Mountain Bandits and Forest Outlaws. Chechens and Ingush under Soviet rule in 1918-1944. The scholar dedicates a chapter to the famous "Operation Schamil": drawing on the documentary sources available in the Wehmacht and NKVD archives, he was able to reconstruct the genesis and development of this action. We summarize in summary what emerged from the studies of Van Huis, in turn reported by Anastasia Kirilenko on the Caucasian Node website: https://www.kavkaz-uzel.eu/
THE LANGE REPORTS

The first sources to which Van Huis refers are three operational reports, two signed by Lieutenant Major Erhard Lange and one by the Ossetian volunteer Boris Tsagolov. All three sources, although different in style, agree that the operation was a substantial failure mainly due to the prompt reaction of the NKVD units, which proceeded to punish the residents who housed the enemy by burning their homes. , or by applying collective punishment to communities that did not actively oppose its passage. All three reports, in any case, agree that with the exception of some bands of illegal immigrants, which were already active before the invasion, they did not provide sufficient support for the success of the operation.
The first of these reports was sent by Ehrard Lange on January 5, 1943. It summarizes that Operation Schamil began on August 25, 1942, when a Luftwaffe plane taken off from Armavir parachuted 11 Germans and 19 Caucasian volunteers near Chishki. and Dachu - Barzoi, about 30 kilometers from Grozny. The sky was clear, and the light of the moon immediately illuminated the paratroopers, who were targeted by the enemy. Most of the weapons and equipment were therefore hastily abandoned, and it took a few days before the group could regroup, not before having ascertained some losses and desertions. The group, reduced to 22 men, attempted to scrape together some firearms by seizing them from nearby villagers, while trying to gain a safe haven. However, having been noticed since their arrival, the men of the commando immediately became the object of a merciless hunt by the NKVD, which even mobilized 2,000 troops to track them down. Lange then attempted to make contact with the local rebels, perched in the mountains, trying to unite them in a single organized band, and to add a contingent of 400 Georgian rebels to this critical mass. The plan, however, failed due to the fact that on September 24, 1942, the NKVD intercepted Lange, forcing him to forcibly open an escape route. The survivors reached Kharsenoy, but here they were again intercepted and forced to fight. After losing other men, Lange decided to abort the mission. After abandoning his uniforms and wearing civilian clothes, he managed to pass off the remains of his group (five Germans and four Caucasians) as a band of Cabardini bandits, until he succeeded in obtaining the collaboration of some local residents, who agreed to help him provided the members of the gang were divided and distributed according to their will. Unable to do anything else, Lange agreed. He and his men remained in hiding until the following December 9, when they learned that the Red Army had intercepted and destroyed most of the rebels operating in Chechnya. The next day Lange gathered his own, and carried them over the front line. Returning to the base, the officer compiled a memo in which he indicated a list of names of "103 absolutely reliable people, who could serve as guides".
Subsequently, on April 23, 1943, Lange filed a second report, in which he further specified the purpose of his mission: to carry out military operations to obstruct the enemy retreat along the Grozny - Botlikh route. The task, it was specified, had not been completed due to the fact that most of the weapons had been lost during landing, but also due to the lack of cooperation from local residents. According to this report, once the dispersion of the "Lange Group" was ascertained, the German command had sent a second unit, called the "Rekert Group" to try to recover the missing. This second squad, however, had been defeated and its members had disappeared. With respect to his relationship with civilians, Lange specifies that the group was in the hands of the civilian population and daily ran the risk of betrayal on their part, and that only after long discussions did the commandos manage to free themselves from this protection. Finally, the report also specified the secondary objective followed by Lange once the main one (sabotage) proved unattainable: Verifying the veracity of the reports to the Fuhrer according to which Chechens and Ingush are particularly courageous in the fight against the Bolsheviks and, in the case, provide them with logistical support and weapons to continue the guerrilla warfare. To achieve this second goal, Lang would have had to spend a few weeks in Chechnya, trusting in the spirit of hospitality of the local residents. He knew that hospitality is sacred to a Chechen. In fact, in the report he reports: the local rules on hospitality require you to protect the life of a guest even at the cost of your own. Aware of this, the Germans did not spare the Chechens real moral blackmail, threatening to let everyone know of the dishonor thrown on the family and on the Teip by people who did not accept to host them and to collaborate with them.
While obtaining the hospitality of the Chechens seemed easy enough, it was much more difficult to secure their alliance in forming an anti-Soviet resistance movement. Again quoting Lange: Local residents are not interested in anything except the fate of their village, in which they would like to live as free farmers. They have no respect for time, space, or compliance with the agreements made. […] All this creates bad conditions for a riot. Citing an event that happened to the Reckert Group, Lange recalls that after receiving the weapons, the men quickly returned to their villages. At the end of his report, Lange advised not to invest men and means in this operation, since the local population would not fight for Germany, but at most to get rid of the collective farms and regain possession of the land.