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Ieri Bamut, oggi Bakhmut. Indietro al 1995, un’altra fortezza che non si arrese ai russi

L’assonanza è soltanto fonetica, ma il significato storico è impressionante, se si considera che la Bamut del 1995, così come la Bakhmut del 2023, segnò l’arresto di una avanzata che sembrava inarrestabile, imbarazzò l’esercito russo di fronte al mondo e ispirò tutta la nazione (cecena allora, ucraina oggi) a resistere all’invasione. Quello che segue è un estratto dal secondo volume di “Libertà o Morte! Storia della Repubblica Cecena di Ichkeria”.

Bamut


Mentre il Gruppo di Combattimento Sever prendeva Argun, Gudermes e Shali e respingeva i dudaeviti verso il ridotto montano, ad Ovest ilGruppo di Combattimento Jug avanzava verso gli obiettivi designati. Di fronte aveva i reparti ceceni organizzati nel Fronte di Bamut, un’unità composita ma combattiva al comando di Ruslan Khaikhoroev. Il reparto era inizialmente composto da circa 200 volontari, ma per la fine di marzo, con l’arrivo del Reggimento Galachozh al comando di Khizir Khachukayev, si era già ingrossato giungendo a toccare i quattrocento miliziani. Alla metà di marzo 1995 ancora nessuno degli obiettivi prefissati per il Gruppo Jug era stato raggiunto, malgrado l’artiglieria avesse martellato quasi tutte le cittadine al fronte. La posizione cecena era favorevole, ancorché defilata rispetto alla linea principale delle operazioni. Il villaggio di Bamut, infatti, giaceva all’imbocco di una stretta gola, sovrastata ad est e ad ovest da ripide alture boscose. Ad occidente le posizioni cecene confinavano con l’Inguscezia, paese relativamente “amico”, dove gli indipendentisti potevano trovare supporto materiale ed umano. A poca distanza dal villaggio poi, su un’altura denominata “444.4” e chiamata dagli abitanti locali “Monte Calvo”, si trovava una base missilistica sovietica, in grado di resistere efficacemente sia ai bombardamenti di artiglieria che a quelli dell’aeronautica. I ceceni l’avevano occupata, trincerandola ulteriormente. In quest’area erano affluiti tutti gli equipaggiamenti pesanti a disposizione del Fronte Occidentale, oltre ad un discreto arsenale di mine antiuomo ed anticarro che Kachukhaev aveva fatto sistemare all’imbocco dell’unica strada carrabile verso la base, proveniente da Assinovskaya e diretta a Bamut. Il

18 Aprile i russi tentarono di prendere il villaggio. Una brigata si affacciò sull’abitato all’alba, ma finì ben presto sotto il tiro delle armi pesanti cecene. Nel tentativo di manovrare, i russi finirono dapprima in un campo minato, poi tra le strade del villaggio, anch’esse minate con ordigni antiuomo. Numerosi veicoli blindati ed alcuni carri da battaglia rimasero distrutti. Una volta impantanata tra le rovine, la brigata si trovò sotto il tiro dei cecchini, che falcidiarono la fanteria. Al termine dell’azione, conclusasi con il ritiro dei federali, si contarono decine tra morti e feriti. Un tentativo di alleggerimento della pressione, operato da un distaccamento delle forze speciali, finì in un fiasco, con la morte di 10 “Spetnatz” ed il ferimento di altri 17. L’esercito federale dovette così organizzare un metodico assedio delle posizioni cecene, impiegando il grosso delle forze a disposizione.

La mappa mostra l’offensiva russa in Cecenia tra il Marzo ed il Giugno 1995. A sinistra si può notare la fortezza di Bamut, che resisté alle offensive russe e rimase sotto assedio per più di un anno, fino al 24 Maggio 1996


Dopo aver schierato le truppe in assetto di battaglia, il 24 marzo Babichev riuscì a penetrare ad Achkhoy – Martan, occupandola per breve tempo prima che un contrattacco ceceno costringesse i russi a ripiegare. Il 7 aprile l’intero fronte occidentale venne investito da una violenta offensiva. Quel giorno vennero attaccate contemporaneamente
Samashki, Davydenko, Achkhoy Martan, Novy Sharoy e Bamut. L’offensiva produsse la conquista di Samashki, Davydenko e Novy Sharoy, le roccaforti più esterne, al costo di centinaia tra morti e feriti. Scontri particolarmente violenti si registrarono nei dintorni di Samashki,
dove i reparti di Mosca vennero investiti da una violenta controffensiva cecena e lasciarono sul campo una settantina di uomini. Nonostante la fiera resistenza dei militanti la preponderanza di uomini e mezzi a vantaggio dei russi era tale che la difesa della posizione non avrebbe mai
potuto produrre una controffensiva. Kachukhaev si organizzò quindi per una resistenza ad oltranza, richiamando tutti i combattenti che non avevano fatto in tempo a raggiungere il ridotto montano, o che operavano ancora in pianura. La maggior parte delle unità che giunse a portare soccorso erano milizie volontarie non inquadrate, mal coordinate tra loro, molte delle quali tentarono di raggiungere gli assediati attraverso la strada di collegamento tra Starye Achkhoy e Achkhoy – Martan, finendo intercettate dalle avanguardie russe. Altri gruppi, provenienti dal villaggio inguscio di Arshty, furono intercettati dall’aeronautica federale e dispersi. I rinforzi che riuscirono a raggiungere Bamut furono quelli che, faticosamente, si fecero largo tra le montagne passando da Sud, raggiungendo il fiume Martanka dietro Bamut e risalendolo fino alle posizioni dei difensori.

I ritardi nel concentramento dei reparti fecero sì che le unità che effettivamente raggiunsero Bamut fossero in numero grandemente inferiore alle aspettative, nonché esauste per la lunga marcia a piedi. Molti miliziani ebbero appena un paio di giorni per recuperare le forze in attesa del grande scontro. Man mano che i reparti raggiungevano la base, Kachukhaev schierava le unità lungo il perimetro difensivo sulla base della loro grandezza e della supposta capacità operativa. In tutto furono
schierate sulla linea del fronte dalle 100 alle 300 unità, cui si aggiunsero
nei giorni successivi alcune decine di volontari provenienti dall’Inguscezia, inquadrati nel cosiddetto Battaglione Inguscio. La linea difensiva correva lungo i resti del centro abitato, addossata agli edifici e organizzata in un mosaico di piccole trincee a zig zag, in ordine a contrastare le unità russe avanzanti senza offrire bersagli estesi all’artiglieria. Dietro la prima linea di trincee ne era stata scavata una seconda, così che le unità combattenti potessero agilmente cambiare posizione ed alleggerire la pressione, per poi rioccupare le posizioni avanzate alla fine dei bombardamenti d’artiglieria. Le vie d’accesso erano bloccate dai detriti delle abitazioni distrutte, ed il materiale di risulta era stato impiegato per costruire piccoli guadi attraverso i quali le unità combattenti avrebbero potuto attraversare agevolmente il Martanka, per sottarsi a combattimenti troppo pesanti o per effettuare manovre di aggiramento sulle colonne corazzate federali.

Soldati russi avanzano verso le posizioni cecene

Le truppe russe si posizionarono a circa un chilometro e mezzo da quelle cecene, a una distanza sufficiente da evitare di essere bersagliate dagli RPG, ed iniziarono a bombardare la linea di difesa di Bamut. La linea russa correva ora lungo l’argine settentrionale di un canale che, da ovest, disegnava un semicerchio a nord di Bamut per gettarsi nel fiume, che correva sul fianco orientale del villaggio. Da lì l’artiglieria iniziò a martellare la prima linea cecena. I difensori si ritirarono, lasciando ai russi soltanto una serie di trincee vuote da bombardare, ed al termine del martellamento tornarono ad occupare le posizioni avanzate. I federali, convinti di aver piegato la resistenza cecena, iniziarono a muovere in avanti: una colonna si diresse verso il villaggio attraverso la strada principale, la quale corre parallela al Martanka. Questa azione avrebbe dovuto attirare il grosso dei nemici, mentre una seconda colonna avanzava da Nordovest, varcando il canale e dirigendo direttamente verso il centro del villaggio. I ceceni tuttavia avevano fiutato la trappola, e pur mantenendo una fiera difesa della via principale
lungo il Martanka, non sguarnirono le posizioni Nordoccidentali. Conscio della natura del suo piccolo esercito, costituito più come un arcipelago di piccole unità autonome che come una forza unitaria, Kachukhaev lasciò ai comandanti locali l’onere di organizzare autonomamente la loro strategia, mantenendo come unico imperativo quello di non spostarsi dal proprio settore senza autorizzazione. Questo fece sì che i russi non riuscissero a capire quante e quali unità avessero davanti, e non avessero un’idea chiara di quale fosse il fronte della battaglia. Decine di piccoli scontri locali si accesero lungo tutta la linea di difesa, incendiando l’intero settore per tutto il primo giorno di battaglia. Le unità indipendentiste, dotate di grande mobilità, colpivano con gli RPG i veicoli blindati, li assaltavano e cambiavano immediatamente posizione, impedendo ai russi di tracciarle e di annichilirle con l’artiglieria. In questo modo i reparti che difendevano il fianco sinistro dello schieramento ceceno furono in grado di accerchiare i russi avanzanti, provocando loro gravi perdite e costringendo la colonna federale prima ad arrestarsi, poi a fare marcia indietro.

Combattenti ceceni del Battaglione Galanchozh a difesa di Bamut


Anche il fronte orientale riuscì a fermare l’attacco russo. Allorchè la pressione dei federali si fece troppo forte, Kachukhaev ordinò alle prime linee di minare le trincee e di ritirarsi sulla seconda linea. Non appena le truppe russe ebbero preso il controllo, Kachukhaev ordinò che fossero fatte brillare, uccidendo coloro che le occupavano. Persa la maggior parte delle unità di fanteria, i corazzati russi non avrebbero potuto avanzare da soli, o sarebbero finiti sotto una pioggia di RPG. Così gli attaccanti decisero di ritirarsi, vanificando i progressi ottenuti a caro prezzo in quella prima giornata di battaglia. L’artiglieria federale ora conosceva le coordinate della seconda linea difensiva cecena, ed iniziò a bombardarla, ma ancora una volta senza successo: i reparti ceceni, infatti, utilizzarono i guadi approntati nei giorni precedenti per disperdersi tra le colline intorno a Bamut, per poi tornare ad occupare le loro posizioni una volta che il bombardamento fu terminato. Quando i russi tornarono all’attacco, il giorno successivo, si trovarono davanti un dispositivo difensivo di tutto rispetto, e nel giro di una mezz’ora il comando russo ordinò di interrompere nuovamente le operazioni. La notte successiva un reparto esplorativo fu inviato ad individuare le posizioni cecene per un attacco d’artiglieria notturno. L’operazione fu un disastro: il reparto esplorante fu intercettato e finì sotto una pioggia di proiettili. 10 degli 11 componenti la squadra furono uccisi, e l’unico sopravvissuto fu fatto prigioniero. Interrogato sulla consistenza delle forze federali di fronte a loro egli riferì che gli attaccanti disponevano ancora di troppe unità perché Kachukhaev potesse capitalizzare il successo con un contrattacco, così il comandante ceceno decise di mantenere un atteggiamento difensivo, preferendo impegnare gli uomini nella ricostruzione delle trincee e nell’approntamento di nuovi sbarramenti.

FLAG STORIES – THE WOLF OF ICHKERIA

The flag is not just a colored rag: it is the spiritual synthesis of a people’s identity. This is more than ever true when it comes to the flag of the Chechen Republic of Ichkeria. Every Chechen who yearns for independence carries its colors in his memory, and gets excited every time he sees them. In the green cloth marked with red and white he finds the pride of a free nation, the tragedy of the blood shed by his brothers and the promise of a future redemption.

An informant who requested to remain anonymous has brought us some fascinating stories about the tricolor of Ichkeria, which we make available to our readers.

The official flag of Chechen Republic of Ichkeria

A flag at the market

September 6 , 1995. That day a major anti-war demonstration was scheduled in Grozny. At that time, a “filtration camp” was located in Neftyanka where prisoners from all over the republic were deported. Here they were tortured and if they survived, often set free for a ransom, they remained bent in body and spirit for the rest of their short lives.

In front of the camp there was a market teeming with people, organized for the military, the only ones who had money to make purchases. On the other side of the road, the armored vehicles on which the camp inmates were transported were stationed. Above them sat bored soldiers, swollen with beer bought at the market, waiting for a new “crop” of prisoners, victims of this terrible conveyor belt of death. Suddenly from a crossroads came a Zhiguli . The car parked between the market and the armored vehicle parking lot. A passenger came out of the car carrying a large ChRI flag, and began tying it to the door.

Panic immediately broke out: the sellers fled, spilling the goods, the soldiers suddenly awoke from their torpor, locking themselves inside their vehicles. The passenger of the Zhiguli , without flinching, finished arranging his flag, got into the car and slammed the door behind him. After that he set off again in complete tranquillity. It was enough for a patriot to display the flag of the Chechen Republic, with the wolf guarding it, to unleash panic among the Russian military. They had seen what miracles the Chechens had performed under this banner, defending their land from invaders.

The flag on the wall of the Council of Ministers, 1992

The flag on the crane

During the war, someone hoisted a large ChRI flag on a tall construction crane at the “new stop” in Staropromyslvsky district . The occupation authorities, noticing her, demanded that she be seized. However, they could not find anyone willing to ride the crane, not even for a reward. There were rumors that somewhere there was a sniper guarding the flag, who would electrocute anyone who approached the flag. Thus, the tricolor of Ichkeria continued to fly on the crane until August 1996, when the Chechens liberated Grozny and victoriously ended the war.

The flag of the Presidential Palace

ChRI’s most famous flag was the one that flew from the Presidential Palace. In times of peace, citizens could see this great banner waving in the sky. During the first war this was impetuously bombed and, after two anti-bunker bombs managed to penetrate up to the basement of the structure, it was necessary to evacuate it to avoid a massacre. The Palace gave shelter to hundreds of people (up to 800) and the bombings had so deeply affected the structure that its defenders, and the wounded, risked ending up buried under the rubble. So it was decided to abandon it: not before, however, having removed the flag from the mast to save it. Under a massive barrage a patrol ventured onto the roof of the palace, removed the flag and took care of it, preventing it from falling into the hands of the Russians, who would no doubt display it as a trophy. It seems that the national flag is still preserved and protected waiting to be able to wave again for a free Chechnya.

A boy waves the flag of Ichkeria in the ruins of Grozny

Bamut’s flag

One of the most legendary and iconic places of the First Russo-Chechen War is undoubtedly the Bamut fortress. Here the Chechens resisted the attacks of the Russian army for many months, enduring a terrible siege. One day, after yet another bombardment, the defenders realized that there was not a single building left intact enough to hang the flag. It was then decided to hoist it on the village water tower. The Russians, who evidently feared that that flag alone would prevent them from advancing, fired artillery at the tower until it collapsed to the ground, taking the flag with it. It was evident that the Russians were so afraid of the Chechen cloth that they were unwilling to fight under it. The defenders then decided to hang the flag from the tallest mast, so that it would continue to instill fear in the enemy.