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Assalto al Palazzo Presidenziale – Estratto da “Libertà o Morte! Volume II”

Quello che sarebbe passato alla storia come il “fiasco di Capodanno” fu un disastro per Grachev e un trionfo di Dudaev. Ma soprattutto fu il mito fondativo della resistenza.  Più tardi, alla fine della guerra, il governo indipendentista avrebbe istituito un ordine di medaglie dedicato a coloro che avevano combattuto in quei giorni, l’Ordine del Difensore di Grozny[1]. Mentre i ceceni vivevano la loro prima giornata di gloria, a Mosca Grachev iniziava a prendere coscienza di aver fatto fare ad Eltsin una figuraccia planetaria. Davanti alle telecamere il Ministro della Difesa rimase apparentemente ottimista, al punto da dichiarare che l’operazione era stata un sostanziale successo[2]. Non poteva esserci niente di più falso, e lo sapeva bene, perché ancora il 2 gennaio i russi erano impegnati a salvare i loro reparti rimasti assediati in città, e niente faceva pensare ad una risoluzione veloce della battaglia[3]. Se non altro, comunque, la disfatta costrinse il comando russo a cambiare tattica, a cominciare dall’organigramma delle forze in campo. La responsabilità del fallimento venne addossata ai comandanti sul campo, che vennero in gran parte sostituiti, mentre il Gruppo d’Assalto Nord e Nord – Est vennero fusi in un solo Gruppo d’Assalto Nord al comando del Generale Rochlin, l’unico che avesse salvato la faccia in quell’operazione così maldestramente condotta. Le colonne federali furono riorganizzate in piccoli reparti appoggiati da carri armati ed elicotteri, dotate di maggiore mobilità e più prudenti nell’avanzare verso il centro cittadino. Abbandonata l’idea di un rapido blitz vittorioso, il comando del Raggruppamento delle Forze Unite tornò coi piedi per terra, e prima di tutto si occupò di salvare le unità ancora assediate nel centro cittadino. I rinforzi richiamati da tutti i distretti militari poco prima dell’assalto furono inviati a consolidare le posizioni faticosamente conquistate: nel corso dei primi giorni di Gennaio le unità federali riuscirono a tenere una precaria linea del fronte che dall’ospedale, a Nord, correva fino alla stazione ferroviaria, lambendo la piazza del mercato centrale cittadino. I mezzi corazzati rimasti operativi furono frettolosamente ritirati dalla zona di combattimento e disposti a supporto della fanteria, la quale da quel momento in poi avrebbe avanzato casa per casa. Nessuna azione offensiva fu intrapresa prima che artiglieria ed aeronautica avessero annichilito le posizioni (probabili o effettive) dalle quali i cecchini ed i tiratori di RPG nemici avrebbero potuto colpire. La strategia cambiò radicalmente: anziché puntare tutti verso il centro, i reparti federali avrebbero conquistato i distretti uno ad uno, aprendosi la strada lentamente.

. Il 4 gennaio, dopo 48 ore di incessante bombardamento, l’attacco alla città riprese ed i reparti federali tentarono di sfondare il fronte lungo tutto l’arco compreso tra la stazione ferroviaria (ovest) l’ospedale (nord) e la base di Khankala (est). I bombardamenti si concentrarono sui quartieri residenziali nel centro cittadino, ancora occupati dai dudaeviti. La tragedia umanitaria che l’attacco stava generando ne fu ulteriormente amplificata, e la pressione mediatica su Eltsin cominciò a farsi forte, al punto che questi decise di sospendere i bombardamenti dal 5 Gennaio. Intanto continuavano ad affluire rinforzi dalle basi navali del Baltico e del Pacifico, e numerosi reggimenti di fanteria di marina prendevano posizione nelle retrovie, mentre i difensori schieravano unità fresche, come gli uomini del Battaglione Naursk, i quali erano riusciti a calare dal nord del Paese tra il 3 ed il 4 Gennaio[4]. Tra il 5 ed il 10 gennaio i combattimenti si svilupparono lungo tutta la linea del fronte, fino al bombardamento da parte dell’artiglieria russa di un ospedale psichiatrico dove sembrava che fosse presente un nucleo di combattenti indipendentisti. Il bombardamento provocò lo sdegno della comunità internazionale e mise in imbarazzo Eltsin, che propose pubblicamente una “tregua umanitaria” per permettere lo sfollamento dei civili rimasti in città. Il 9 sembrò che le parti fossero riuscite ad accordarsi per un cessate – il – fuoco di 48 ore, durante il quale poter raccogliere morti e feriti e scambiarsi i prigionieri. 13 Prigionieri russi in mano cecena vennero restituiti alle autorità federali, mentre i dudaeviti approfittavano della tregua per far affluire in città nuovo equipaggiamento. Tuttavia, come le telecamere si furono allontanate, Eltsin rimpiazzò la sua tregua con un “ultimatum” per il disarmo delle milizie, e già dalle prime ore del 10 gennaio l’artiglieria russa ricominciò a bombardare la città[5]. Il Gruppo di Battaglia Est, ribattezzato Gruppo di Battaglia Sud – Est, ebbe l’incarico di chiudere il braccio destro della tenaglia occupando i quartieri meridionali, con l’obiettivo di completare l’accerchiamento e mettere Grozny sotto assedio.

Nel frattempo le unità dispiegate in città avanzavano lentamente, casa per casa dirette verso il quartiere governativo. I centri nevralgici della difesa cecena in quel settore erano costituiti dall’edificio del Parlamento (ex Consiglio dei Ministri della RSSA Ceceno – Inguscia, il cosiddetto “SovMin”) dal Palazzo Presidenziale, dall’istituto pedagogico[6] e dall’Hotel Kavkaz. Il quartiere era protetto ad est dal Sunzha, mentre a sud era coperto dalla imponente struttura del circo cittadino, che gli indipendentisti utilizzavano come una sorta di bunker. L’unico modo per approcciare le posizioni cecene senza rischiare di finire in trappola era avanzando da Nord. Questo accesso era protetto dall’Istituto Petrolifero di Grozny, un imponente complesso di tre palazzi al centro del quale svettava un corpo centrale di dodici piani, soprannominato “Candela”[7]. Il 7 Gennaio elementi del 45° Reggimento Aviotrasportato, giunti da pochi giorni in supporto alle unità di prima linea, assaltarono l’edificio. La battaglia infuriò a fasi alterne per tre giorni, durante i quali l’edificio fu preso, poi riperso, poi ripreso nuovamente. Consapevoli che la perdita dell’Istituto Petrolifero avrebbe aperto la strada ai federali per la conquista dell’intero quartiere, gli indipendentisti reagirono rabbiosamente, alternando contrattacchi in massa a fitti bombardamenti con i mortai. Fu in uno di questi bombardamenti che perse la vita il primo di numerosi alti ufficiali russi caduti in questa guerra. Centrato da un colpo di mortaio cadde il Generale Viktor Vorobyov (omonimo del già citato Edvard Vorobyov) mentre, al comando di un’unità OMON del Ministero degli Interni, si apprestava a costituire un posto di blocco dietro al grande edificio principale. Dopo essersi assicurati il controllo delle rovine dell’Istituto Petrolifero i federali arrestarono l’avanzata, lasciando spazio ad un imponente bombardamento aereo e di artiglieria non soltanto sulla guarnigione a difesa della città, ma lungo tutto il fronte, comprese le retrovie a Sud e sui centri montani del paese. 

artiglieria federale in azione

I difensori si trincerarono all’interno dei fatiscenti edifici del quartiere governativo, supportati da contingenti provenienti dall’altra sponda del Sunzha che all’occorrenza intervenivano a bloccare gli sporadici attacchi dell’esercito federale[8]. La sera del 12 gennaio il Generale Rochlin, ordinò l’assalto al Sovmin[9]. Nella notte un reparto di paracadutisti della 98a Divisione Aviotrasportata riuscì a raggiungere la base dell’edificio. La struttura era stata pesantemente bombardata, e per i ceceni era stato quasi impossibile rifornire le unità a difesa dell’edificio nelle 48 ore precedenti. Alle 5:30 del mattino gli attaccanti assaltarono il palazzo, ma i ceceni asserragliati ai piani superiori reagirono prontamente, riuscendo a bloccare l’assalto e provocando tra i paracadutisti numerosi morti e feriti. Nel frattempo Maskhadov richiamava da Sud tutte le forze disponibili per respingere l’attacco: qualora il Sovmin fosse caduto, il Palazzo Presidenziale avrebbe potuto essere colpito direttamente, e non sarebbe stato più possibile rifornire la guarnigione che vi era asserragliata[10]. Dall’edificio, infatti, era possibile tenere sotto tiro il grande ponte sul Sunzha che collegava il Quartier Generale alla parte orientale di Grozny.

Nella tarda mattinata del 13 i paracadutisti russi iniziarono ad essere supportati da consistenti reparti corazzati, affiancati dalla fanteria ordinaria e dai fanti di marina del 33° reggimento, appena giunto sul campo di battaglia. Le unità raccolte da Basayev in Piazza Minutka ed inviate di rinforzo verso il Palazzo Presidenziale tentarono inutilmente di sloggiare i federali, lanciando violenti attacchi fino al 19 Gennaio, in uno scontro casa per casa e stanza per stanza senza esclusione di colpi[11].  Nel corso dei giorni, tuttavia, le controffensive cecene si esaurirono, man mano che i reparti federali assalivano gli edifici circostanti il Sovmin, come l’Ispettorato di Polizia Fiscale, subito ad est dell’edificio, aumentando così la copertura delle unità poste alla sua difesa[12]. I federali riuscirono ad aver ragione dei contrattacchi dei ceceni soltanto dopo alcuni giorni di intensi combattimenti. Il 19 gennaio, fallita l’ultima controffensiva cecena, Rochlin potè dichiarare di aver preso il Sovmin. Da questa posizione i russi potevano facilmente assediare il Palazzo Presidenziale. Nel corso dei giorni precedenti questo era stato colpito incessantemente dall’artiglieria e dall’aeronautica, al ritmo di un colpo al secondo, e due potenti bombe a detonazione ritardata erano penetrate fin nei sotterranei dell’edificio, dove si trovavano i centri di comunicazione, il comando e l’ospedale da campo, sventrando il palazzo.  A complicare ulteriormente la posizione dei difensori occorse, all’alba del 19, la conquista dell’Hotel Kavkaz e la cattura del vicino ponte sul Sunzha. I pochi reparti della Guardia Presidenziale ancora operativi, asserragliati tra le imponenti rovine del Reskom, non avrebbero potuto resistere a lungo. Già alcuni giorni prima la squadra speciale della Guardia (i cosiddetti “Leoni di Dudaev”), al comando di Apti Takhaev, era stata distrutta in un contrattacco nel distretto di Boronovka, a nordovest del Quartier Generale[13]. Se voleva salvare i resti delle sue forze d’élite, Maskhadov avrebbe dovuto tirarle fuori da quella che stava diventando ogni giorno di più una bara di cemento. Così il comandante ceceno. che non aveva mai abbandonato la posizione, si decise ad andarsene sfruttando l’ultimo corridoio aperto in mezzo alle unità federali. Basayev coordinò efficacemente il ritiro della maggior parte dei reparti combattenti sulla sponda destra del Sunzha, organizzando una solida linea di difesa[14]. Il giorno successivo i soldati di Eltsin innalzarono sul pennone la bandiera russa[15]. La presa del Palazzo fu poco più che un successo politico. Per prenderlo i russi avevano sacrificato più di un migliaio di uomini, centinaia di mezzi corazzati, sparato decine di migliaia di proiettili d’artiglieria ed impiegato una marea di aerei ed elicotteri. E alla fine, a dirla tutta, lo avevano preso perché erano stati i ceceni ad abbandonarlo. La battaglia per la presa della sponda occidentale del Sunzha aveva richiesto l’impiego di quasi la totalità delle forze federali, dando il tempo a Dudaev di organizzare una solida linea a sud della capitale.

truppe russe nei pressi delle rovine del Palazzo Presidenziale

Il Presidente ceceno si ritirò senza fretta a Shali, dove pose la capitale provvisoria della Repubblica. In città rimase Basayev, ormai divenuto una leggenda vivente, con l’ordine di rallentare i federali quanto più possibile. Maskhadov si ritirò ad Argun, ponendovi il suo Quartier Generale[16]. A Mosca, la notizia della cattura del Palazzo Presidenziale fu accolta con grande ottimismo: Eltsin tenne un discorso pubblico nel quale associò la presa del Palazzo Presidenziale alla imminente cessazione delle ostilità. La realtà era ben diversa: l’esercito federale era riuscito a prendere a malapena un terzo della città, giacché il grosso di Grozny si estende oltre la sponda orientale del fiume. E dall’altra parte c’era Basayev, con una nutrita guarnigione di almeno 1.500 uomini (cui si aggiungevano altre centinaia di volontari) deciso a tirare avanti la difesa della città il tempo necessario a far sì che Maskhadov potesse completare il dispiegamento del fronte meridionale. Il successo di cui parlava Eltsin (costato comunque tra i 500 e i 1000 morti e tra i 1.500 ed i 5.000 feriti) non era sufficiente neanche a dichiarare di aver preso Grozny, tantomeno di aver prodotto la cessazione delle ostilità. La maggior parte del territorio ceceno rimaneva saldamente nelle mani degli indipendentisti, e la vittoria sul campo era ancora ben lontana da venire[17].


[1] Il lettore che volesse approfondire il tema dei premi di stato della ChRI può consultare la sezione Premi della Repubblica sul sito www.ichkeria.net.

[2] Il 2 Gennaio, Grachev dichiarò alla stampa che l’operazione per la presa della città si sarebbe conclusa in non più di cinque, sei giorni. Il 9 Gennaio, quando ormai era chiaro che le sue ottimistiche previsioni non stavano trovando riscontro nella realtà sul campo, parlando ad una conferenza stampa ad Alma – Ata, il Ministro della Difesa ebbe a dichiarare che L’operazione per prendere la città era stata preparata in tempi molto brevi, ed è stata eseguita con perdite minime […] E le perdite, voglio dirvelo francamente, si sono verificate solo perché una parte dei comandanti di grado inferiore ha vacillato. Si aspettavano una vittoria facile e poi, semplicemente, avevano ceduto sotto pressione […]. Un cambio di prospettiva apparentemente minimo, ma che rivelava la presa d’atto che il blitz fosse fallito, e che la conquista della città avrebbe richiesto tempi e sforzi molto maggiori.

[3] Come ebbe a dire successivamente il Generale Rokhlin, che da questo momento in poi avrebbe avuto l’onere principale nella conquista di Grozny: Il piano operativo, sviluppato da Grachev e da Kvashnin, divenne di fatto un piano per la morte delle truppe. Oggi posso dire con assoluta certezza che questo non fu suffragato da alcun calcolo operativo – tattico. Un piano del genere ha un nome molto preciso: una scommessa. E considerando che come risultato della sua attuazione sono morte centinaia di persone, fu un gioco d’azzardo criminale.

[4] Secondo quanto riportatomi da Apti Batalov in una delle nostre conversazioni, il Battaglione, forte di 97 uomini, raggiunse prima Gudermes, dove fu accolto dal Prefetto locale Salman Raduev e sistemato nella Casa dei Ferrovieri, poi si diresse verso il Palazzo Presidenziale, sfruttando la tregua appena dichiarata, e raggiungendo la posizione nella tarda serata del 5.

[5] Secondo quanto ricordò Aslan Maskhadov nel suo libro elettorale L’Onore è più caro della vita: Una volta, nel Gennaio 1995, Dudaev mi disse di essere d’accordo con Chernomyrdin di cessare le ostilità per 48 ore. “Prendi contatto con Babichev” mi disse “e concorda sulla rimozione dei cadaveri ed il salvataggio dei feriti gravi”. Contattai Babichev e gli ripetei che questa era la volontà di Dudaev e di Chernomyrdin. Babichev mi disse che mi avrebbe ricontattato entro 30 minuti. Poi mi chiamò e abbastanza seriamente, con la voce di un presentatore televisivo, disse: “Le condizioni sono le seguenti. Una bandiera bianca viene appesa al Palazzo Presidenziale, i capispalla vengono rimossi, le armi non vengono portate con voi, uscite con le mani alzate e dirigetevi verso Via Rosa Luxembourg…” Ho ascoltato con difficoltà queste chiacchiere, come i deliri di un pazzo, e moto educatamente l’ho mandato dove di solito ti mandano i contadini russi. A quanto pare neanche Babichev gradì la mia risposta, ed il fuoco più intenso di tutte le armi fu aperto sul Palazzo Presidenziale.

[6] In questo edificio, secondo quanto riportatomi da Apti Batalov, si era asserragliato il Battaglione Naursk. Secondo i suoi ricordi, i suoi uomini tennero la posizione fino al 19 Gennaio.

[7] L’Istituto Petrolifero di Grozny era una vera e propria istituzione non soltanto in Cecenia, ma in tutta la Russia. Fondato nel 1920, era stato per decenni il punto di riferimento negli studi tecnici relativi all’estrazione ed alla produzione di idrocarburi. Presso le sue strutture si erano formati circa cinquantamila studenti, tra i quali illustri personaggi politici dell’URSS. La costruzione, alta e massiccia, fu utilizzata dai indipendentisti per difendere da posizione favorevole il quartiere governativo, e la sua cattura avrebbe provvisto i federali di un’ottima posizione di osservazione e di tiro sulle difese cecene. Per questo motivo il complesso fu al centro degli scontri per la presa della città, finendo completamente distrutto prima dai bombardamenti, poi dai violenti scontri combattutisi al suo interno.

[8] Un episodio degno di nota esplicativo della situazione strategica al 10 Gennaio 1995 è riportato da Dodge Billignsley nel suo Fangs of the lone wolf. Il 10 Gennaio i reparti avanzati federali occupavano l’edificio del Servizio di Sicurezza Nazionale (ex KGB) e sparavano dalla piazza del mercato direttamente contro il Reskom (nome originale del Palazzo Presidenziale). Altri mezzi corazzati stazionavano nei pressi dell’Hotel Kavkaz, a pochi metri dal principale ponte sul Sunzha (il ponte su Via Lenin, oggi Putin Avenue), coprendo l’avanzata della fanteria che stava tentando di occupare l’edificio. Al di là del ponte si trovava un drappello di indipendentisti intenzionato a portare supporto a Maskhadov, attaccando i carri appostati all’Hotel Kavkaz. Il piccolo reparto si divise in due: metà avrebbe continuato ad occupare la posizione, l’altra metà avrebbe attraversato il fiume a nuoto, avrebbe attaccato i carri e si sarebbe nuovamente ritirata. L’azione ebbe successo, uno dei due veicoli fu colpito dagli RPG e saltò in aria, mentre l’altro si ritirò velocemente al coperto. In questo modo l’azione offensiva russa subì un certo rallentamento, costringendo i federali a tenersi alla larga dagli argini del fiume onde evitare di finire nuovamente sotto attacco da parte degli incursori ceceni. Azioni di questo tipo si susseguirono fino al 18 Gennaio quando, caduto il Sovmin, la difesa del Palazzo Presidenziale perse di senso strategico e gli indipendentisti si ritirarono al di là del fiume.

[9] Lo spettacolo che i russi si trovarono davanti quando giunsero ai piedi dell’edificio fu straziante, secondo quanto riporta lo stesso Rochlin: “Alla vigilia dell’assalto i militanti avevano appeso i cadaveri dei nostri soldati alle finestre […] Nei primi giorni dell’assalto scoprimmo una fossa comune piena di paracadutisti, i cui cadaveri erano stati decapitati. Successivamente trovarono cadaveri dei nostri soldati con lo stomaco strappato, pieno di paglia, con le membra recise e tracce di altre profanazioni. I dottori, esaminando i cadaveri, hanno affermato che stavano martoriando persone ancora vive.”

[10] Come abbiamo detto il Palazzo Presidenziale non era soltanto un edificio simbolico per gli indipendentisti. Nel bunker al di sotto dell’imponente struttura si trovava il Quartier Generale ceceno, e da lì Maskhadov diramava gli ordini alle unità che difendevano il quartiere governativo.

[11] Lo scontro assunse caratteri di inaudita ferocia, tale da far saltare i nervi ai soldati. Il  Tenente Colonnello Victor Pavlov, Vicecomandante del 33° Reggimento Fanti di Marina, scrisse nelle sue memorie: Il personale del gruppo d’assalto, che teneva la difesa del Consiglio dei Ministri […]si è rivolto al comandante del gruppo, Maggiore Cherevashenko, chiedendo di poter lasciare la posizione […] con enormi sforzi Cherevashenko riuscì a impedirlo […] i soldati giacevano negli scantinati del Consiglio dei Ministri, non mangiavano né bevevano, si rifiutavano persino di portar fuori i loro compagni feriti. Ci sono stati casi di esaurimento psicologico tra i soldati. Quindi il soldato G. […] ha dichiarato che non poteva più tollerare una situazione del genere ed ha minacciato di sparare a tutti […].

[12] Il 16 Gennaio, alle ore 5:20, i canali radio registrarono una conversazione tra Ruslan Gelayev (in codice “Angel  – 1”) e Maskhadov (in codice “Ciclone”). In essa il Capo di Stato Maggiore ceceno confessava all’altro di aver appena assistito alla prima battaglia perduta.

[13] Le circostanze della morte di Apti Takhaev mi sono stare riportate dall’attuale Segretario di Stato della ChRI, Abdullah Ortakhanov.

[14] Secondo quanto riferitomi da Ilyas Akhmadov, il ritiro delle forze cecene sulla sponda destra del fiume fu anche frutto di un “effetto domino” determinato dalla peculiare organizzazione delle forze combattenti: Il tempismo della nostra ritirata da una sponda all’altra del Sunzha è stato in parte non intenzionale. Avremmo potuto resistere ancora un po’. C’erano molti gruppi diversi che correvano sparando a qualsiasi nemico potessero vedere. Alcune di queste unità non provenivano dalla città ed erano venute a combattere per 3-4 giorni, per poi ritirarsi nelle loro case e riposare una settimana nel loro villaggio. Quando un’unità schierata stabilmente in città chiedeva dove stavano andando, era imbarazzante dire “stiamo andando a casa”, quindi i volontari rispondevano: “abbiamo un ordine di Maskhadov di ritirarci”. Senza alcun modo per verificarlo e senza motivo di dubitare della loro spiegazione, anche l’altra unità si ritirava attraverso il Sunzha. Questo ha accelerato il passaggio sull’altra sponda.

[15] Non si sa se per coincidenza o per scelta, la squadra che salì sul tetto del Palazzo Presidenziale per issarvi il tricolore russo apparteneva al 33° Reggimento Motorizzato, la stessa unità che aveva issato la bandiera rossa sulle rovine del Reichstag alla fine della Battaglia di Berlino.

[16] Là lo raggiunse un giovane laureato in Scienze Politiche, che per qualche tempo aveva servito al Ministero degli Esteri, e che ora si metteva a disposizione della resistenza armata: Ilyas Akhmadov. Di lui parleremo approfonditamente più avanti e nei prossimi volumi di quest’opera.

[17] Per visualizzare la Battaglia di Grozny, vedi la carta tematica E.

“The Future of the North Caucasus” – Francesco Benedetti at the European Parliament

Last November 8th Francesco Benedetti was called to speak at the conference “The Future of the Northern Caucasus”, organized by the MEP Anna Fotyga. Below we report his speech, filmed by @INEWS cameras

The speeches of all the conference participants are available on the INEWS YouTube channel (https://www.youtube.com/@INEWSI ) and on the website https://www.caucasusfree.com

English Transcription of the speech

Good evening to all present

Thank you, Minister.

Over the past decade, a series of political and military crises have crossed the world. Visualizing them on the map, we can identify a “line of friction” that starting from Finland runs from North to South through Eastern Europe, reaches the Caucasus, crosses the Middle East and then wedges into Africa, cutting it from East to West. If the hot spots on this front are currently Ukraine, Nagorno Karabakh, Syria and Palestine, no less concern is aroused by its secondary segments, such as the Russian Federation, Belarus, Georgia, Iraq, Libya and the West African Republics. The Caucasus is one of the pieces of this front.

The war unleashed by Putin in February 2022 against Ukraine has exposed the Russian Federation to the risk of a collapse. This would give the North Caucasus republics an opportunity to reassess their position in a regional association along the lines of the North Caucasus Mountain Republic. Similar projects, after all, were theorized as early as the late 1980s and early 1990s, notably by Dzhokhar Dudaev and Zviad Gamsakhurdia, and with them a vast movement of opinion that had animated debates, discussions, and projects. I can try to make a modest contribution by bringing to your attention my own experience as a citizen of a member state of a supranational union, at whose main institution, the European Parliament, we find ourselves right now.

European Union has been established, given itself a Parliament, created legislative, governing and supervisory bodies, procedures and regulations of all kinds, social, economic and cultural projects of the highest order. However, at this very moment, when a solid and strong Europe, capable of influencing the course of world events and protecting the interests of European citizens would be needed more than ever, the Union is revealing some difficulties.

Personally, I believe that the problem lies mainly in the fact that even today, seventy-four years after the establishment of the Council of Europe, the European Union does not have a “Mission.” European citizens feel part of a larger community than that of the nation to which they belong, but they do not know how to recognize its “depth,” so they call themselves first “French” “Spanish” “German,” then “European.” Precisely from this problem I try to translate the discussion to the North Caucasus.

A union of North – Caucasian republics can be a viable curb on the imperial pretensions of neighboring powers, and Russia in particular. Moreover, it could grant the republics that would compose it greater specific weight in international fora, and start a process of building a Caucasian identity that, as an outside observer, I trace already exists in a rather pronounced way. A defensive purpose, however, cannot be a sufficient “mission.”

I believe that the project of a unification of the North Caucasus, fascinating and potentially successful in itself, must be accompanied by deep reflection regarding what its “mission” in history should be. If until a few decades ago new states arose out of opportunity, embodying the national ambitions of peoples, today we are witnessing the emergence of new states out of necessity. The end of the U.S.-led unipolar world, the rise of new world powers, and the agglomeration of economic power and demographic weight makes the “small homelands” so irrelevant that they are forced to consort if they want to avoid becoming pawns in the great international power games.

What need, then, should guide the creation of a Confederation of the Peoples of the North Caucasus? What historical mission should it set itself? What added value should it bring to the Caucasian community, and to the human community at large? On what distinctive features should it be articulated? To put it even more simply: how will a citizen of Dzhokhar, Magas, or Machackala feel honored to be a Citizen of the Caucasus? I believe that the ability of the peoples of the North Caucasus to erect a solid institution, capable of guaranteeing them a future of freedom and prosperity, will depend on the attention paid to these questions.

My time is up, thank you for your attention.

Memorie di Guerra: Francesco Benedetti intervista Akhmed Zakayev (Parte 2)

Quella che segue è la trascrizione della seconda parte dell’intervista tra Francesco Benedetti ed Akhmed Zakayev realizzata da Inna Kurochkina per INEWS (alleghiamo il link al video originale, che presto sarà accompagnato da sottotitoli in inglese ed italiano)

Il 6 marzo 1996 le forze armate della ChRI hanno lanciato la loro prima grande azione offensiva del conflitto: la cosiddetta Operazione Retribution. Secondo quanto mi disse Huseyn Iskhanov, allora Rappresentante di Stato Maggiore, il piano fu concepito a Goiskoye e vide la sua partecipazione, oltre a quella del Capo di Stato Maggiore, Maskhadov, e del Vice Capo di Stato Maggiore, Saydaev. Si ricorda come fu pianificata questa operazione?

Sì, certo che me lo ricordo. Questo, in linea di principio, è venuto fuori dall’operazione che abbiamo effettuato per bloccare la città di Urus-Martan al fine di impedire le elezioni. Dopo questa operazione, io e il mio capo di stato maggiore Dolkhan Khozhaev ci siamo incontrati con Dzhokhar Dudayev. E abbiamo suggerito l’opzione di fare qualcosa del genere. Abbiamo capito che di fronte a qualsiasi nostra azione, per tentare di cambiare questa situazione, i russi avevano bisogno di almeno tre giorni, in teoria. Abbiamo iniziato a parlare della possibilità di bloccare più distretti contemporaneamente. E poi Dzhokhar Dudayev ha detto: “Vedi com’è bello quando una squadra lavora!” Io, dice, ero con questi pensieri e ho pensato al modo migliore e al tipo di operazione da eseguire. Fu allora che nacque l’idea di eseguire questa operazione nella città di Grozny, che in futuro si sarebbe chiamata Città di Dzhokhar. Lo stesso giorno, è stato deciso di invitare Aslan Maskhadov, capo di stato maggiore, a chiamarlo al nostro fianco, e da quel momento, quasi due o tre giorni dopo averne discusso con Dzhokhar Dudayev, abbiamo iniziato i preparativi su questa operazione. In pratica, avevamo la nostra intelligence a Grozny, sapevamo dove era concentrata ogni unità russa, abbiamo svolto un lavoro aggiuntivo e identificato tutti i punti in cui si trovano le unità russe. Dove sono i posti di blocco, gli uffici del comandante, le unità militari. Sì, Umadi Saidaev, il defunto Umadi Saidaev, era il capo del quartier generale operativo, e poi, in seguito, è arrivato lì Aslan Maskhadov, e insieme ai comandanti delle direzioni che avrebbero dovuto prendere parte, abbiamo sviluppato questa operazione.

Tornando di nuovo all’operazione Retribution, questo è stato un successo che la leadership ChRI ha scelto di utilizzare più simbolicamente che strategicamente. Nella sue memorie ricorda che all’epoca la decisione di ritirarsi da Grozny, nonostante fosse sotto il vostro controllo, non le piacque, e che ancora oggi lei ritiene che quanto realizzato nell’agosto successivo, con l’Operazione Jihad, avrebbe potuto essere raggiunto con Operazione Retribution. Infine, lei afferma: Nel marzo del 1996 probabilmente abbiamo avuto l’opportunità di concludere vittoriosamente la guerra, e in quel caso gran parte della nostra storia recente sarebbe potuta andare diversamente. Cosa intende con questa frase? Allude al fatto che Dudayev era ancora vivo, o al fatto che le elezioni presidenziali russe non si erano ancora svolte? O ancora, a qualcos’altro?

Ho pensato alle elezioni in Russia per ultima cosa, perché lì non ci sono mai state elezioni. Sì, il fatto stesso che Dzhokhar fosse vivo in quel momento avrebbe potuto essere di grande importanza, e il corso della storia sarebbe potuto essere completamente diverso se la guerra fosse finita con Dzhokhar Dudayev vivo. I russi hanno fatto ogni sforzo per eliminare Dzhokhar Dudayev e successivamente per cercare la pace. Per quanto riguarda questa operazione, ne sono proprio sicuro. Sì, allora abbiamo programmato l’operazione perché durasse tre o quattro giorni, ma non c’è stata una decisione concreta, secondo la quale ci saremmo dovuti ritirare in tre giorni. Quando Dzhokhar Dudayev è arrivato a Grozny, si sistemò nel mio quartier generale nella città di Grozny, nel mio settore della difesa, in quella parte della città in cui combattevano le unità sotto il mio comando, è arrivato lì, e la sera precedente eravamo insieme al Quartier Generale. Ricordo la reazione di Dzhokhar Dudayev quando ha saputo che c’era un ordine di lasciare la città, che alcune unità avevano già iniziato a lasciare Grozny. Non era d’accordo con questo, perché puoi davvero valutare la situazione quando vedi la situazione nel processo, come cambia, e sulla base di ciò devi trarre conclusioni e prendere decisioni. Dzhokhar Dudayev era a Grozny per la prima volta dall’occupazione russa, abbiamo viaggiato con lui di notte, a Grozny di notte, siamo andati alla stazione degli autobus, ha assistito a tutta questa distruzione e quando siamo tornati al quartier generale, alcuni dei nostri le unità avevano già iniziato a partire. Ha detto: “Bene, se c’è un ordine, è necessario eseguirlo”. E ci siamo ritirati. E poi ci ho ripensato, perché ad Agosto non abbiamo fatto niente di più di quello che avevamo fatto a marzo. Questa operazione è stata ripetuta nello stesso modo, e con le stesse forze e mezzi. E quindi, sono sicuro che se fossimo rimasti a Grozny … (beh … la storia non tollera il congiuntivo). Quello che doveva succedere è successo. Ma rimango della mia opinione che avrebbe potuto essere diverso. Questo è già dall’area del “potrebbe”. E non è successo.

Nel marzo 1996 lei ha affrontato, come comandante, quella che forse è stata la più grande battaglia difensiva combattuta dall’esercito ceceno nel 1996. Mi riferisco alla battaglia di Goiskoye. Ho letto pareri contrastanti sulla scelta di affrontare i russi in quella posizione. Alcuni sostengono che la difesa del villaggio fosse insensata, provocando numerose vittime ingiustificate per le forze cecene. Altri sostengono che se Goiskoye fosse caduto troppo presto mani federali, l’intero sistema di difesa ceceno avrebbe potuto andare in frantumi. Dopo tutti questi anni, cosa ne pensa?

Impedire al nemico di raggiungere le colline pedemontane, bloccarlo nel villaggio di Goyskoe, questa è stata, dal punto di vista strategico, militarmente una decisione assolutamente corretta. Questa decisione è stata presa dal Comando supremo delle forze armate della Repubblica cecena di Ichkeria. Sì, so anche che esiste una dichiarazione del genere, ma sulla base di perdite reali, non abbiamo subito perdite gravi durante la difesa di Goiskoye. Sì, c’erano morti, diverse persone che sono morte sono rimaste ferite, ma non ci sono state perdite del genere. Non c’è guerra senza perdita. Ebbene, in senso strategico, la protezione e la difesa di Goiskoye hanno permesso di mantenere la linea del fronte, che si sviluppava da Bamut ad Alkhazurovo. Alkhazurov era caduta sotto il controllo russo, ed anche Komsomolskoye era caduta sotto il controllo russo. Ma a Goyskoye non li abbiamo lasciati andare oltre. Abbiamo impedito il passaggio dei russi fino alle pendici. E così abbiamo mantenuto il fronte e la linea del fronte. E questo era di importanza strategica, tanto più sullo sfondo del fatto che i russi avevano iniziato a parlare di negoziati, di tregua. Nel caso di una tregua finalizzata ad un dialogo politico, naturalmente, la conservazione di un certo territorio che controllavamo, era di grande importanza, e in relazione a questo, Dzhokhar Dudayev ha preso la decisione di proteggere Goiskoye . Sì, siamo durati un mese e mezzo. E solo più tardi, dopo la morte di Dzhokhar Dudayev, quando Bamut era già caduta, si decise di lasciare Goiskoye. Ma finché Achkhoy e Bamut erano in mano nostra, mantenemmo la linea di difesa anche a Goyskoye. Quando lì il fronte fu interrotto, a quel punto fu inutile continuare a tenere posizione e perdere i nostri combattenti. E così si decise di ritirare le nostre unità in montagna. Successivamente, ci distribuimmo più vicino alla città e iniziammo a prepararci per l’operazione di agosto.

Dopo la morte di Dudayev, il potere è stato trasferito al vicepresidente Yandarbiev, che è entrato in carica come presidente ad interim. La decisione di trasferirgli il potere è stata unanime? O ci sono state discussioni a riguardo?

In linea di principio non ci sono state discussioni, solo un voto era contrario, il resto si espresse a favore del riconoscimento di Zelimkhan Yandarbiyev come vicepresidente. Era in linea con la nostra costituzione, con le disposizioni presidenziali, ed è stata accettata. E Zelimkhan Yandarbiev ha iniziato a fungere da presidente.

Dopo che Yandarbiev ha assunto i poteri presidenziali, l’ha nominata assistente presidenziale alla sicurezza. Quali erano i suoi doveri in questa posizione?

SÌ. Mi ha nominato Assistente del Presidente per la Sicurezza Nazionale. E allo stesso tempo, sono stato contemporaneamente nominato Comandante della Brigata Speciale Separata. Cioè, l’unità che ho comandato, che all’epoca era Terzo Settore, è stata elevata allo status di Brigata sotto il Presidente della Repubblica cecena di Ichkeria. Fondamentalmente, questo è stato necessario perché Zelimkhan Yandarbiyev (dopo essere rimasto con noi  all’interno del Palazzo Presidenziale fino all’ultimo momento, fino a quando non abbiamo lasciato la città) non è stato più coinvolto in operazioni militari nell’anno e mezzo successivo, e in quel periodo erano state create nuove unità e nuove persone sono apparse nella gerarchia militare. E naturalmente, Zelimkhan aveva bisogno di una persona che conoscesse militarmente l’intero sistema. Abbiamo lavorato con lui e nel periodo successivo Zelimkhan è stato introdotto in tutte le direzioni, nei fronti e nelle nostre unità, e poi come comandante supremo, ha iniziato a gestire personalmente questi processi. Il mio compito era quello di raccordo [tra lui e gli ufficiali, NDR]. Poi, terminate le operazioni militari, è diventato quello di “Segretario del Consiglio di sicurezza”. Fino a prima delle elezioni, in linea di principio, svolgevo queste funzioni.

Da Mosca a Nazran (estratto dal secondo volume)

Oggi pubblichiamo un secondo estratto dal secondo volume di “Libertà o Morte! Storia della Repubblica Cecena di Ichkeria”, nel quale si parla della genesi degli Accordi di Nazran del Giugno 1996.

DA MOSCA A NAZRAN

Il 16 aprile 1996, pochi giorni prima che Dudaev fosse ucciso, si era tenuto un congresso delle principali anime politiche della Cecenia. Si erano riuniti 26 movimenti e 12 partiti politici, ed al congresso avevano partecipato Maskhadov in veste ufficiale per il governo della Repubblica di Ichkeria ed i rappresentanti di Khasbulatov per l’opposizione antidudaevita. Il documento che ne era venuto fuori conteneva la proposta di una moratoria sulle azioni militari, l’apertura di negoziati ai massimi livelli tra Russia e Cecenia, lo svolgimento di nuove elezioni parlamentari. Zavgaev fu volutamente escluso dagli inviti, non partecipò alle attività dell’assemblea e venne considerato come un semplice funzionario di Mosca. Eltsin aveva bisogno proprio di un documento del genere in quel momento. I ceceni capirono che incoraggiare Elstin avrebbe potuto portare ad una effettiva fine delle ostilità, e Yandarbiev dichiarò di essere disposto a iniziare negoziati formali, a condizione che sul piatto fosse posto il ritiro delle forze russe. Come segno di buona volontà il nuovo presidente ordinò il rilascio di 40 prigionieri, catturati durante l’Operazione Retribution. Altri 32 furono rilasciati una settimana dopo. Per parte sua, Maskhadov sostenne la posizione di Yandarbiev, dichiarando di essere disposto ad intavolare immediatamente trattative con il Generale Tikhomirov riguardanti un effettivo cessate – il – fuoco. In un primo momento la leadership dell’esercito federale, rappresentata in primo luogo proprio da Tikhomirov, non sembrò mostrarsi ricettiva: avendo avuto notizia che Eltsin si sarebbe presto recato in Cecenia, e volendo mostrare al presidente di avere la situazione  militare sotto controllo, l’alto ufficiale russo ordinò una serie di rabbiosi attacchi contro il villaggio di Goiskoye e gli insediamenti alla periferia di Urus  – Martan, provocando ampie distruzioni e ulteriori perdite da entrambe le parti, senza tuttavia ottenere risultati concreti: anzi, il 10 Maggio forze cecene tesero un’imboscata ad una colonna blindata nei pressi di Mesker – Yurt, alla periferia meridionale di Argun, costringendola ad un repentino ripiegamento. Più fortunate furono le operazioni lanciate contro le roccaforti occidentali: nel corso della seconda metà di Maggio caddero Starye Achkhoy, Yandi e Bamut (di queste battaglie parleremo più avanti). Questi parziali successi spinsero Tikhomirov a dichiarare, con ingiustificata pomposità, che non ci fossero più grandi sacche di resistenza delle formazioni armate di Dudayev e che tale evidenza avrebbe favorito negoziati senza alcuna condizione[1].

Zelimkhan Yandarbiev

Il 23 maggio, finalmente, fu annunciato che Yandarbiev era stato invitato a Mosca per porre fine alla guerra. Il 27 Yandarbiev raggiunse l’aereoporto inguscio di Sleptovskaya accompagnato da una nutrita scorta armata, e da qui volò fino alla capitale russa. Insieme a lui c’erano Akhmed Zakayev, Khozh – Akhmed Yarikhanov e, Movladi Ugudov, oltre ad altri funzionari[2], tra i quali alcuni rappresentanti dell’OSCE. Quando la delegazione cecena raggiunse il Cremlino, Yandarbiev ed i suoi entrarono nella sala del negoziato da una porta laterale, trovandosi faccia a faccia con la rappresentanza del governo filorusso, Zavgaev in testa, che stava entrando dalla parte opposta. Quando entrambe le delegazioni furono una di fronte all’altra, dalla porta centrale apparve Eltsin. Era chiaro che questi intendeva presentarsi alle parti come il “mediatore” che avrebbe risolto un “conflitto interno” alla repubblica cecena. Eltsin si sedette a capotavola, invitando le parti a sedersi sui lati del tavolo. Ma Yandarbiev si rifiutò di assecondarlo, finché Eltsin non avesse accondisceso a prendere il posto di Zavgaev, riconoscendosi come una parte in causa e non come un giudice super partes. Davanti al folto gruppo di inviati accorsi a riprendere l’evento, il Presidente ad interim della Repubblica Cecena di Ichkeria dichiarò: Sono venuto ad incontrare il Presidente russo, non alla riunione di una commissione. Avete capito?  Eltsin oppose resistenza, rispondendo: Mettiamoci a parlare: non siamo pari a lei, indicando una sedia alla sua sinistra. Avvicinatosi fin quasi a toccarlo, Yandarbiev rispose: Anche se non siamo pari, dobbiamo decidere, rimanendo in piedi davanti al presidente russo, il quale, sempre più stizzito, insisteva: Si sieda! Si sieda! All’ordine di Eltsin il presidente ceceno rispose: Boris Nikolaevic, se lei usa questo tono con me, io non mi siederò! Messo l’avversario sulla difensiva, Yandarbiev riprese: Parliamo a tu per tu! Al rifiuto di Eltsin, tra gli sguardi imbarazzati dei funzionari del Cremlino, e nel silenzio della delegazione del governo Zavgaev, il leader indipendentista rispose: Allora non parleremo affatto. Io non mi siedo. Basta! E poi, volgendogli le spalle: Non tollero azioni del genere. Di fronte all’imbarazzo dei russi, Yandarbiev chiese che Zavgaev ed i suoi delegati abbandonassero il tavolo. Eltsin replicò: ci sono documenti da firmare, li firmerà lui, indicando Zavgaev. L’altro, prontamente, rispose: se non ci troveremo d’accordo, non firmeremo alcun documento. Il presidente russo rispose che un documento doveva assolutamente essere firmato: bisogna mettere termine allo spargimento di sangue, bisogna porre fine alla guerra. In questo modo palesò all’altro il suo assoluto bisogno di chiudere quell’incontro con la firma di un documento politico. E a quel punto fu chiaro a Yandarbiev che il suo avversario era sul punto di cedere. Io voglio parlare con lei. Lo incalzò. Penso che sarà lei a trarne vantaggio. Dopo alcuni minuti di confusione, Eltsin si alzò dal capotavola, si sedette dal lato di Zavgaev ed invitò Yandarbiev a sedersi. I ceceni l’avevano spuntata: ora il negoziato sarebbe stato tra Russia ed Ichkeria.

Yandarbiev discute con Eltsin il 27 Maggio 1996

La scena fu ripresa dalle TV di tutto il mondo, e fu piuttosto imbarazzante per il Presidente russo. Sul momento questi incassò il colpo, ma il suo piano aveva appena iniziato a svilupparsi: mentre i colloqui sul cessate il fuoco andavano avanti, Eltsin volò a Grozny, lasciando il Primo Ministro, Chernomyrdin, alle prese con un ignaro Yandarbiev. I negoziati portarono alla firma congiunta di un documento che impegnava le parti a cessare tutte le operazioni dalla mezzanotte del 1 Giugno 1996 e ad organizzare un nuovo round di negoziati nella capitale del Daghestan, Makhachkala. Nel frattempo, mentre il presidente ceceno ed il premier russo firmavano un accordo di pace, il Presidente russo si mostrò nella capitale cecena per una fugace visita elettorale di quattro ore, proclamando la vittoria delle forze russe, e dichiarando che ben presto le poche unità indipendentiste rimaste sarebbero state liquidate. Poi, durante il viaggio di ritorno, dichiarò che la sua visita era servita a dimostrare che la Cecenia è parte della Russia, e di nient’altro. Fu una vigliaccata che Yandarbiev non gli perdonò, oltre che una inutile e pomposa menzogna. Di fatto Yandarbiev si trovò ad essere l’ostaggio dietro al quale Eltsin poté volare in Cecenia garantendosi l’incolumità personale[3]. Ad ogni modo, il 2 Giugno il Comitato di Difesa dello Stato confermò gli Accordi di Mosca, modificando unicamente la sede del secondo ciclo di colloqui da Makhachkala a Nazran, in Inguscezia. Il 6 Giugno questi ripresero sotto il patrocinio del presidente inguscio Ruslan Aushev. Capi delle rispettive delegazioni erano il Ministro delle Nazionalità russo, Mikhailov, ed il Capo di Stato Maggiore delle forze armate cecene, Maskhadov, accompagnato da Said – Khasan Abumuslimov, nuovo Vicepresidente della Repubblica Cecena di Ichkeria, appena nominato da Yandarbiev[4].

Mandatory Credit: Photo by Yuri Kochetkov/EPA/Shutterstock (8489593a) Ingush President Ruslan Aushev

I negoziati non iniziarono nel migliore dei modi, giacché subito dopo il loro inizio la cittadina di Shali fu oggetto di un attacco, durante il quale furono catturati 14 tra funzionari e poliziotti del governo filorusso. Non è chiaro cosa successe precisamente, fatto sta che il Generale Shamanov, al comando delle unità schierate in quel settore, pose sotto assedio la cittadina. Per rappresaglia, i ceceni assediarono un avamposto della milizia dipendente dal Ministero dell’Interno presso il villaggio di Shuani, catturando 27 militari. Di nuovo si materializzò l’impasse che aveva fatto naufragare i negoziati l’anno precedente, e nonostante le delegazioni giunte a Nazran avessero già concordato un cessate – il – fuoco permanente ed il progressivo ritiro delle truppe federali entro la fine di Agosto, la parte russa dichiarò di non essere intenzionata a portare avanti il ritiro a causa della scarsa collaborazione offerta dalla parte cecena. Ci vollero un paio di giorni prima che il clima si distendesse a sufficienza da far riprendere i negoziati, i quali proseguirono sul blocco delle questioni politiche. Maskhadov chiese, ed ottenne, la promessa che entro il 1 Luglio le forze federali abbandonassero il paese, e che Mosca accettasse la costituzione di un governo di unità nazionale che traghettasse il paese a nuove elezioni. A tal proposito, Mikhailov si impegnò a garantire che nessuna consultazione elettorale si sarebbe tenuta finché le forze di Mosca non avessero completato il loro ritiro. Questo tema era considerato fondamentale dagli indipendentisti, ed era tanto più caldo in quanto il premier filorusso, Zavgaev, che a Mosca, durante le trattative tra Yandarbiev ed Eltsin, era stato pubblicamente degradato a fantoccio dei Russi, intendeva consolidare la sua posizione con un nuovo voto popolare, ed aveva indicato per il 16 Giugno la data della nuova consultazione, in contemporanea con le elezioni presidenziali russe, il cui appuntamento era stato il principale motore della riapertura dei negoziati da parte di Eltsin. Qualora le elezioni si fossero svolte prima del ritiro, Zavgaev avrebbe avuto più chances di mettere in angolo i nazionalisti i quali, molto probabilmente, avrebbero boicottato la tornata. La vittoria elettorale avrebbe permesso al Capo della Repubblica Cecena di presentarsi alle parti come l’unico in grado di costituire un governo di unità nazionale, potendo così amministrare il passaggio di consegne tra Mosca e Grozny e tenere lontani dal potere Yandarbiev e Maskhadov. Una convincente tornata elettorale, infine, avrebbe dissipato le sempre più minacciose nubi che si addensavano sul suo esecutivo, sempre più nel mirino degli inquirenti a causa di certi ammanchi finanziari dei quali, al momento, Zavgaev non sapeva rendere conto. Da tempo infatti la procura federale portava avanti indagini sui flussi che dalle casse dello Stato transitavano attraverso numerose banche commerciali, e da queste finivano nelle disponibilità dei dicasteri ceceni deputati alla ricostruzione del paese, in particolare nelle mani dell’ex sindaco di Grozny, Bislan Gantamirov. Su di lui pesavano le accuse di aver dirottato miliardi di rubli destinati alla ricostruzione verso il riarmo della propria milizia personale. Come abbiamo visto, Gantamirov era già stato sindaco della città una prima volta, quando era allineato sulle posizioni degli indipendentisti, tra il 1991 ed il 1993, ed anche in quell’occasione era finito sotto l’occhio della magistratura per malversazione di quote petrolifere. Le accuse della procura federale sembravano ricalcare in maniera speculare quelle rivoltegli a suo tempo dalla procura repubblicana. Un’elezione popolare avrebbe forse attenuato il crescente astio che montava tra la popolazione di Grozny verso il suo governo, già di per sé debole a causa della presenza pervasiva dell’esercito federale, e ora accusato apertamente di essere corrotto. I dudaeviti ovviamente contestavano la proposta di Zavgaev, ed a Nazran Maskhadov dichiarò che i suoi non avrebbero preso parte alle elezioni e che non le avrebbero in alcun modo riconosciute ma anzi, che qualora esse non fossero state annullate entro il 12 Giugno, avrebbero ripreso le ostilità contro le truppe federali ancora presenti in Cecenia.

Aslan Maskhadov (Photo by Oleg Nikishin/Getty Images)

Il 10 giugno Maskhadov ed il Comando militare russo giunsero ad un accordo, che Mikhailov non esitò a definire l’ultima possibilità e, forse, l’unica opportunità di pace[5]: i federali avrebbero tolto l’assedio ai villaggi sotto attacco entro il 7 Luglio, ed in cambio i ceceni avrebbero consegnato le loro armi entro il 7 Agosto. Al termine della demilitarizzazione, prevista per il 31 agosto, le forze federali avrebbero definitivamente lasciato la Cecenia. Nel frattempo i due fronti si sarebbero scambiati i prigionieri ancora nelle rispettive mani. Furono costituiti gruppi di lavoro congiunti, incaricati di redigere le liste dei prigionieri da scambiare, e commissioni militari che organizzassero la demilitarizzazione dei villaggi. La firma dei protocolli militari portò ad un primo ritiro delle unità schierate a ridosso delle cittadine di Vedeno e Shatoy, l’11 Giugno 1996. Quello tuttavia fu l’unico effetto pratico dell’accordo giacché, il giorno successivo, Zavgaev confermò che il 16 si sarebbero tenute regolarmente le elezioni[6]. Eltsin, che proprio quel giorno avrebbe dovuto affrontare la prova elettorale più difficile della sua vita politica, non aveva intenzione di infangare la sua immagine con un intervento riguardo la Cecenia, e liquidò le elezioni come un affare interno alla piccola repubblica, non appoggiandole esplicitamente, ma neanche condannandole[7], e considerandole come un “tampone” in attesa che il ritiro fosse completato e si potesse procedere a nuove elezioni. Zavgaev, da parte sua, smentì questa posizione, dichiarando che le elezioni che erano in procinto di tenersi avrebbero costituito il corpo legislativo dello stato almeno fino al 1998, escludendo a priori qualsiasi margine di trattativa politica con gli indipendentisti.

In questo modo mentre gli occhi di tutto il mondo erano puntati sul Cremlino, a Grozny ed in qualche altro distretto ancora sotto il controllo federale si tennero le elezioni – farsa di cui Zavgaev aveva bisogno[8]. Si trattò di una consultazione priva di rappresentatività, poco partecipata e boicottata dagli indipendentisti, al termine della quale Zavgaev uscì, come previsto, vincitore. Alla Camera dei Rappresentanti, uno dei due nuovi organi previsti da Zavgaev,  venne eletto l’ex membro del Presidium del Soviet Supremo Amin Osmaev, mentre la Camera Legislativa elesse presidente l’ex Capo del Governo di Rinascita Nazionale, l’organo costituito nell’estate del 1994 dal Consiglio Provvisorio, Ali Alavdinov. L’OSCE, che aveva avuto modo di verificare quanto poco trasparenti fossero state le elezioni, giudicò la consultazione illegittima, pubblicando una nota nella quale la certificava come non allineata agli standard minimi di legalità, oltre a contraddire lo spirito del protocollo sul cessate il fuoco e sulla risoluzione del conflitto armato firmato il 19 Giugno a Nazran[9].  Il primo risultato delle elezioni fu una recrudescenza delle azioni militari: gli indipendentisti risposero alla presa di posizione di Zavgaev chiedendo l’annullamento della consultazione, le dimissioni del governo Zavgaev e la ricostituzione della delegazione russa in modo che questa non includesse personaggi gravati dalla responsabilità di aver scatenato la guerra[10],  lanciando una serie di attacchi alle truppe federali, alle quali i russi risposero con uguale ferocia: nel corso delle prime tre settimane di giugno i ceceni attaccarono le posizioni russe almeno 350 volte, ed altrettante furono le azioni di rappresaglia compiute dalle forze federali[11].

Doku Zavgaev

L’effimera vittoria politica ottenuta da Zavgaev con le sue elezioni, non portò al leader ex – sovietico alcun vantaggio tangibile. Anzi, contribuì ad isolarlo sia rispetto alla popolazione cecena, che ormai lo odiava, sia rispetto al Cremlino, che non poteva più spenderlo come candidato credibile alla guida di un governo di unità nazionale, malgrado questi ribadisse di aver ottenuto tale investitura con il voto appena conclusosi. La leadership indipendentista continuò a pretendere che i negoziati si svolgessero esclusivamente tra i suoi rappresentanti e quelli della Russia, relegando Zavgaev al ruolo di mero collaborazionista delle forze di occupazione. I russi, per parte loro, avevano come unico obiettivo quello di porre fine alle operazioni militari, e di presentare la Cecenia “pacificata” e non avevano più alcuna intenzione di perdere tempo e risorse nel puntellare il potere di Zavgaev. Prova di questo fu l’arresto, operato dalla stessa polizia federale, dell’ex sindaco di Grozny, nel frattempo diventato Vice Primo Ministro, Bislan Gantamirov, fermato a Mosca con l’accusa di appropriazione indebita di 7 miliardi di rubli dai fondi destinati alla ricostruzione della Cecenia, e di frode[12]


[1] Stanislav Dmitrevsky, Bogdan Gvraeli, Oksana Chelysheva – Tribunale Internazionale per la Cecenia.

[2] Insieme ai delegati sopra citati presenziarono alle trattative gli assistenti presidenziali Movlen Salamov ed Hussein Bybulatov ed il Viceministro degli Esteri Yaragi Abdulaev.

[3] Tale considerazione fu condivisa anche dai media russi. In un articolo di Kommersant del 29/05/1996 si leggeva: Il viaggio di quattro ore del presidente non poteva rivelarsi un fallimento, come molti scettici avevano previsto. Né poteva finire tragicamente: la delegazione degli indipendentisti ceceni, rimasta a Mosca fino al ritorno di Eltsin, si è fatta garante della sua incolumità.

[4] Said – Khasan Abumuslimov: Nato in Kazakistan il 01/02/1953, professore presso l’Università Statale Cecena, era stato uno dei principali ideologi dell’indipendentismo ceceno ed uno dei suoi primi attivisti avendo partecipato alla fondazione, nel 1988, della rivista Bart, dalla quale sarebbe sorto il Partito Democratico Vaynakh. Membro del Comitato Esecutivo del Congresso Nazionale del Popolo Ceceno (Ispolkom) era stato eletto deputato alle elezioni popolari dell’Ottobre 1991. Nel Giugno 1993 aveva sostenuto Dudaev, rimanendo in Parlamento fino allo scoppio delle ostilità.

[5] Kommersant, 13/06/1996.

[6] In una nota pubblicata dal quotidiano russo Kommersant il 13/06/1996, il portavoce di Zavgaev dichiarò: L’annullamento delle elezioni significherebbe la sconfitta davanti agli indipendentisti e che la dirigenza cecena non intendeva essere condizionata da una manciata di ricattatori.

[7] Uno dei membri della delegazione russa a Nazran, Vladimir Zorin, commentò: le elezioni per il rinnovo del parlamento ceceno non sono una priorità, perché non rientrano nel quadro degli accordi firmati a Mosca. Tra il 10 ed il 16 Giugno i delegati russi difesero blandamente l’idea delle elezioni, cercando di convincere Yandarbiev che queste non avessero a che fare con il ben più importante tema della risoluzione del conflitto, e che la tornata elettorale sarebbe stata comunque cancellata da nuove elezioni non appena terminato il ritiro delle truppe russe dal paese. Sergei Stephasin rassicurò sui media che lo svolgimento dell’attuale votazione non annulla le future elezioni democratiche, le quali si svolgeranno dopo il ritiro definitivo delle truppe e la smilitarizzazione della repubblica mentre il rappresentante presidenziale Emil Pain dichiarò che le elezioni avevano l’unico scopo di costituire un corpo legislativo democratico che assicurasse una transizione che fosse più breve possibile (Kommersant, 15/06/1996).

[8] Secondo quanto riportato in The War in Chechnya: Anche il rappresentante del Quartier Generale Russo, Tenente Generale Andrei Ivanov, fu costretto ad ammettere indirettamente che considerare “svolte” le elezioni era possibile soltanto con un discreto sforzo di fantasia. Le elezioni non si tennero affatto in tutta la regione di Khuchaloy, né nei territori circostanti Bachi – Yurt, Alleroy, Tsentoroi, Gudermes, Vedeno, Shelkovsky e Shali. Furono parzialmente tenute nelle regioni di Kalinovskaya e Sovetskoye, e solo in alcune comunità nelle regioni di Nozhai – Yurt ed Achkhoy – Martan.

[9] La posizione assunta dall’OSCE, e più volte ribadita dall’inviato dell’organizzazione in Cecenia, Tim Guldiman, irritò non poco Zavgaev, il quale, secondo quanto riportato da Kommersant, giudicò la condotta del diplomatico svizzero unilaterale e minacciò di chiedere la sua rimozione.

[10] Quest’ultima richiesta era riferita alla presenza di Sergei Stephasin, all’epoca dell’inizio della guerra Direttore dell’FSK – FSB.

[11] Secondo quanto riportato in The War in Chechnya le azioni di guerriglia nel mese di Giugno portarono alla morte di 30 militari russi, ed al ferimento di un centinaio, oltre alla perdita di un elicottero da combattimento e due veicoli blindati. La parte cecena soffrì la perdita di 25 uomini ed il ferimento di altri 75.

[12] Il Governo filorusso si affrettò a dichiarare sé stesso e Gantamirov estranei a qualsiasi addebito, rimbalzando l’accusa sullo stesso governo russo. Il Vicepremier Bugaev dichiarò: la distribuzione dei fondi di bilancio è completamente controllata dal centro di Mosca. Il governo della repubblica e, in particolare, Gantamirov, non hanno niente a che fare con questi soldi. Anche il sindaco successore di Gantamirov, Yakub Deniyev, sostenne l’innocenza del primo: La notizia dell’arresto di Gantamirov ha causato sconcerto e rammarico in città. Ha gettato un’ombra su uno dei più tenaci combattenti contro Dzhokhar Dudaev. Il processo contro Gantamirov si sarebbe protratto fino al 1999, quando il Tribunale di Mosca lo avrebbe condannato a 6 anni di reclusione. Tuttavia nel giro di 6 mesi sarebbe uscito di carcere tramite un provvedimento di grazia concessogli da Eltsin in concomitanza con l’inizio della Seconda Guerra Cecena, durante la quale Gantamirov sarebbe stato nominato Capo del Consiglio di Stato del governo filorusso (Vedi il Volume IV di quest’opera).

www.freedomordeath.net – The book series website is online

Yesterday we celebrated the entry into our library of a new version of the first volume of the series – the Chechen language version. At this point there are 4 languages in which it is possible to read “Freedom or Death!” and with the publication of the second volume in Italian (which will be followed by the English, Russian and Chechen versions within a few months) we thought it would be useful to offer a general overview of our book offering. This is why we have just put online a small site dedicated solely to the book,

www.freedomordeath.net

Enjoy your visit!

“Un manuale su come sconfiggere un impero” – Adriano Sofri presenta “Libertà o Morte!”

Il 13 Dicembre scorso, due giorni dopo l’uscita del secondo volume di “Libertà o Morte! Storia della Repubblica Cecena di Ichkeria, Adriano Sofri ha presentato il libro sulle colonne de Il Foglio, nella sua rubrica Piccola Posta. Riportiamo di seguito le sue parole, pubblicate anche su Facebook, su Conversazione con Adriano Sofri.

Adriano Sofri

Il singolare caso del giovane uomo che sa tutto della Cecenia e non si è mosso da Firenze

Segnalo oggi un caso culturale e umano piuttosto straordinario. Riguarda la Cecenia, e un giovane fiorentino che non ci è mai stato, non ne conosce la lingua, non conosce (ancora) il russo, ed è diventato lo studioso più autorevole della storia contemporanea di quel piccolo paese dai destini fatali. Francesco Benedetti è nato nel 1987, si è laureato in storia, ha una famiglia, una sua professione, una pratica musicale metal, e si appassionò presto alla vicenda di quel territorio grande, cioè piccolo, come una minore regione italiana, e popolato da poco più di un milione di persone, che si è ribellato per secoli all’impero russo e che, alla fine della versione imperiale sovietica, ha preteso l’indipendenza, ha sconfitto l’esercito russo in una devastante guerra aperta tra il 1994 e il 1996, e ne è stato sconfitto in una seconda guerra di sterminio nel decennio tra 1999 e 2009. Al costo della falcidie di un quinto della sua gente, dell’esilio di migliaia, della sottomissione dei rimasti alla corte di Putin, di cui sono diventati i pretoriani esosi ed efferati. Benedetti ha deciso di ricostruire su giornali, trasmissioni e memorie la cronaca quotidiana di questa vicissitudine, e di raccoglierne direttamente tutte le voci ancora disponibili, in ogni parte di mondo in cui si sono disseminate. Mette così insieme una mole impressionante di racconti, che va diventando il riferimento internazionale principale per chi voglia conoscere il conflitto fra Cecenia e Russia dopo il 1991, e per gli stessi protagonisti. Se ne è fatto editore, stampando (e vendendo, in volume, 15 euro, o kindle, 5,99) attraverso Amazon, e intanto mettendo in rete una profluvie di interviste e fonti su Facebook, al suo nome e a quello di Ichkeria.net – il nome della repubblica cecena.

Solo in certi bambini speciali o in certi inquietanti concorrenti al rischiatutto sorge e dura il proposito di sapere tutto di qualcosa. Un pezzo leggendario del Caucaso, Pushkin e Tolstoi e Lermontov – e Anna Politkovskaya – chi non vorrebbe? Senza una simpatia intima per il suo tema una simile ambizione non potrebbe esistere, e tuttavia nell’opera di Benedetti ai valori dell’audacia, della tenacia e della fiera tradizione montanara sono congiunti il disonore, la rivalità, il fanatismo e la violenza che nel corso di una lotta così strenua, impari e spietata si sono fatte strada. La Cecenia del ’91 aveva il suo passato tragico da vendicare, e lo rivendicò più presto che altri paesi, compresa l’Ucraina: dopo alla grande carestia del Holodomor ucraino negli anni ‘30, che aveva infierito anche nel Caucaso, venne la brutale deportazione del 1944 in Siberia e in Kazakistan: nessun ceceno dei nati fra il 1944 e il 1956 (e oltre) nacque in Cecenia. Il primo volume, “Libertà o morte. Storia della repubblica cecena di Ichkeria (1991-1994)”, 425 pagine, era uscito in italiano e in inglese (c’è una versione cecena in corso) nel febbraio 2020. Il secondo, “La prima guerra russo-cecena. 1994-1996”, 373 pagine, è uscito l’altroieri (in inglese a marzo). L’autore lo presenta così, in un modo che raccomando energicamente:

“La guerra in Ucraina è iniziata in Cecenia. Può sembrare una provocazione. Eppure, è la realtà che rivelano le pagine di questo secondo volume, interamente dedicato alla Prima Guerra Russo–Cecena. Genesi, sviluppo e svolgimento di questo sanguinoso conflitto sembrano la bozza del copione cui il mondo sta assistendo in questi mesi tra il Donbass e la Crimea. Anche allora, come oggi, la Russia invase uno stato libero, mascherando la guerra che stava scatenando dietro alla definizione di ‘operazione speciale’. Anche allora, come oggi, il nemico dello stato russo era stato etichettato e demonizzato: se Zelensky ed il suo governo sono chiamati oggi ‘nazisti’, Dudaev ed i suoi ministri furono chiamati allora ‘banditi’. Anche allora, come oggi, convinti della loro superiorità, i comandi militari marciarono sulla capitale, pretendendo di piegare un popolo alla loro volontà, come avevano fatto più volte in epoca sovietica. Ma anche allora, come oggi, furono costretti a ritirarsi, per poi scatenare una sanguinosa guerra totale, la più devastante guerra europea dal 1945.

La Prima Guerra Russo–Cecena fu il primo tragico prodotto del revanscismo russo: il ‘punto zero’ di una parabola che da Grozny porta a Kiev, passando dalla Georgia, dalla Crimea, dalla Bielorussia e dal Donbass. Con una differenza sostanziale: che quella prima guerra contro la Cecenia, i russi, la persero. Le loro ambizioni, poggiate sulle fondamenta logore di un impero fatiscente, finirono frustrate dalla caparbietà di una nazione immensamente inferiore, per numero e per mezzi, a quella ucraina, che oggi difende la sua terra dalla guerra scatenata da Putin.

Questa storia può impartire a chi avrà la pazienza di leggerla due importanti lezioni: cosa succede quando si assecondano le ambizioni di un impero, e come si fa a sconfiggerlo. Se è già tardi per mettere in pratica la prima, per la seconda siamo ancora in tempo”.

“Today we are a free nation!” Dudayev’s speech to the nation (December 31, 1993)

Another year of our life fades into the past, a year of great tests of the Chechen people’s endurance and steadfastness in defense of their won freedom. This year we celebrated the second anniversary of our bloodless revolution and independence. Having passed all the tests with dignity in the fight against internal and external enemies, we entered the third year, more stabilizing the political and economic situation, spiritually and morally strengthening, becoming more confident in an independent path of development of our statehood.

Looking back, summing up another year, we can say without a doubt that it was not in vain to strive for political independence. Our centuries-old history tells us that only political freedom and independence from anyone else is the guarantor of the peaceful life and prosperity of the nation. The vilest of all phenomena in the history of mankind is slavery and humility, against which our ancestors fought for centuries and bequeathed to their offspring not to abandon the freedom-loving spirit of the Vaynakh people.

We are well aware of the repeated attempts to destroy the gene pool of the Vaynakh nation under the Tsarist and then the Soviet-Communist empire. After centuries of persecutions and tragedies of the 19th century, 1944-1957, after the bloody massacre of Khaibach and after the hundreds of thousands of victims of the Soviet genocide, the Chechen people has nevertheless recovered, revived, preserving their national dignity, language and culture, although the Soviet totalitarian regime did everything to suppress his spirit, intimidate him and keep him in constant fear. The current generation skillfully uses the historical opportunity that has come their way to fulfill the dreams and aspirations of their ancestors.

The events that occurred after the collapse of the Soviet empire also show that sovereignty and independence are the only correct path chosen by the Chechen people. The intentions of the GKChP (if this coup succeeded) to repeat the 1944 public broadcast on television about the attack on our own parliament by large-caliber guns gives us another reason to reflect on whether we have done well, when we have decided two years ago to separate us from fascist Russia where it is not the laws that rule, but the attempts of each political group at the top of power, under the guise of a new “democracy”, to consolidate racism and fascism. For two years we have resisted a global blockade by the Russian authorities, their military invasion, internal confrontation of all kinds: sabotage, provocations, espionage. The whole world watches us with admiration. We are in his eyes an example and a model of courage, fortitude and love of freedom. And this spirit will never dry up among the Chechens. Yes, it’s hard for us. We have suffered setbacks, difficulties related to power structures that have not yet taken shape, lack of discipline, lack of organization, internal confrontation between destructive forces, criminal groups and mafias.

Many see only negative aspects in what is happening in Chechnya; disintegration, destruction, extremism, nationalism, etc. All this is actually a fiction. Is life easier in the CIS countries? Do those republics that have not separated from Russia feel calmer? Let’s remember the fate of our Ingush brothers, let’s look at what is happening in the neighboring republics and in Russia itself. There is an endless crisis: political, economic. The collapse of the economy, the impoverishment of a significant part of the population, rising prices, corruption and street crime, terrorism, the outflow of qualified personnel abroad. All branches of power are degrading, none of them are ready to cooperate with each other, none of them control the situation in the country. And with all this, seeing only our failures is, to put it mildly, simply not serious.

Despite all the obstacles posed, many positive steps were taken during the two years of independence to improve the political and economic situation of the republic. The people have breathed deeply for centuries the desired freedom. Fear and hypocrisy are gone forever. Many laws and resolutions have been passed to help stabilize the situation in Chechnya. Many practical steps are being taken to implement the government’s foreign and domestic policy agenda. Clear guidelines were outlined for the further development of the economy, for bringing the republic out of the crisis. We have no problem choosing the way to overcome the crisis. This path is clearly defined. The problem is only in our unity and harmony.

The stage of independent development has arrived, the main task of which is production and economic transformations, in which important structural and investment changes are expected to ensure the necessary market balance: rational use of our oil; urgent restructuring of all oil refineries to ensure a significant increase in oil refining, their technological re-equipment; solve the problem of creating new machine-building industries; make the rich reserves of raw materials productive for the production of building materials, use the enormous reserves of mountain fodder (for the production of livestock products), the development of which will allow to maintain 200 thousand heads of cattle and one million heads of sheep . Much attention will be paid to the construction of roads, residential buildings and stables, the laying of power and communication lines. A state program has been developed to improve soil fertility in the republic. The reconstruction and creation of enterprises for the processing of agricultural products, the introduction of technologies and the importation of equipment, the creation of a tourist and health complex are envisaged.

The chronic insolvability of many economic and social issues arouses feelings of dissatisfaction and pessimism in the population. This is a natural phenomenon and there is nothing to worry about. We have chosen a difficult road to freedom and we have no right to interrupt it. In the memory of the Chechen people, from generation to generation, the words spoken by their ancestors more than a hundred years ago are tenaciously preserved: “We plead guilty only before God and the Chechen people for not being able to restore the freedom granted to us by God”. And now the current generation of Chechens has managed to restore this freedom, to fulfill the precepts of their ancestors. And he’s determined to defend it until the end of his life, whatever the cost. These temporary hardships that have developed for all peoples on the territory of the former Soviet Empire are nothing compared to the shame and humiliation that the Chechen people have experienced for decades: sabotage of local authorities, violations of all kinds, policy of cruel staff that has provoked periodic protests, demonstrations demanding that the Ingush and Chechen be evicted again; refusal to hire Chechens to work in industrial enterprises and objects of strategic importance, in administrative bodies, prohibition of celebrating national and religious holidays; persecution and pressure on the intelligentsia; Gradual annihilation of the mother tongue in daily life; ban on studying the real history of the Vaynakhs. Here is a far from complete list of phenomena that have dishonored and humiliated this people.

Our goal of freedom and independence has been achieved. This should be appreciated and we should be proud of it. We are now building a sovereign democratic state based on the rule of law. There is no doubt that we will be able to accomplish this task too: unlike the Russian “democratic” state, where representatives of Caucasian nationalities are persecuted at every step, Chechens are terrorized, shot, deported from their homes, the authorities of the Chechen Republic will never allow anyone the slightest violation of the rights of a single person, no matter what nation he belongs to and no matter what god he prays to. All peoples inhabiting the republic are equal and worthy of respect and a better life.

The Chechen people have nothing to complain about or regret the previous regime, which left them with the highest infant mortality, unhealthiness and environmental pollution, the lowest life expectancy and the lowest standard of living. We don’t ask anyone for help. We ask and demand not to be disturbed.

DEAR CITIZENS OF THE CHECHEN REPUBLIC!

Our people are optimistic about their future, despite the intrigues of external and internal opponents against our sovereignty. We believe that sooner or later reason and wisdom will prevail in Russian leadership circles. We believe that the state flag of the Chechen Republic, which flies in front of the headquarters of the Unrepresented Peoples Organization, will soon be hoisted in front of the UN headquarters. We believe that PEACE, HEALTH and PROSPERITY will reign in long-suffering Chechnya. The Chechen state already has not only a history, but also a more real future. Vitality and strength, the ability to create and live with reason and talent – we confirmed ourselves in the most difficult tests of strength, building our state in the “mouth of a boa constrictor”.

Today we can proudly say that the desecrated honor has been restored and from yesterday’s homeless population, in the times of the USSR, today we are a free NATION.

LET THE END OF THE YEAR BRING WITH IT ALL OUR FRICTIONS, ALL OUR PROBLEMS!

HAPPY NEW YEAR TO YOU, DEAR COMPATRIOTS! WITH NEW HAPPINESS, WITH NEW SUCCESS AND GOOD HEALTH! MAY GOD HELP YOU!

Dzhokhar DUDAEV.

VERSIONE ITALIANA

“Oggi siamo una nazione libera!” Il Discorso di Dudaev alla nazione (31/12/1993)

Un altro anno della nostra vita sta svanendo nel passato, un anno di grandi prove di resistenza e fermezza del popolo ceceno in difesa della libertà conquistata. Quest’anno abbiamo celebrato il secondo anniversario della nostra rivoluzione e indipendenza senza sangue. Avendo resistito con dignità a tutte le prove nella lotta contro i nemici interni ed esterni, siamo entrati nel terzo anno, stabilizzando maggiormente la situazione politica ed economica, rafforzando spiritualmente e moralmente, diventando più fiduciosi su un percorso indipendente di sviluppo della nostra statualità.

Guardando indietro, riassumendo un altro anno, possiamo affermare senza ombra di dubbio che non è stato vano aspirare all’indipendenza politica. La nostra storia secolare ci dice che solo la libertà politica e l’indipendenza da chiunque altro è garante della vita pacifica e della prosperità della nazione. Il più vile di tutti i fenomeni nella storia dell’umanità è la schiavitù e l’umiltà, contro le quali i nostri antenati hanno combattuto per secoli e hanno lasciato in eredità alla loro progenie di non abbandonare lo spirito amante della libertà del popolo Vaynakh.

Siamo ben consapevoli dei ripetuti tentativi di distruggere il patrimonio genetico della nazione Vaynakh sotto l’impero zarista e poi sovietico-comunista. Dopo secoli di persecuzioni e tragedie del XIX secolo, 1944-1957, dopo il sanguinoso massacro di Khaibach e dopo le centinaia di migliaia di vittime del genocidio sovietico, il popolo ceceno si è comunque risollevato, ravvivato, conservando la propria dignità nazionale, lingua e cultura, sebbene il regime totalitario sovietico abbia fatto di tutto per sopprimere il suo spirito, intimidirlo e tenerlo in costante paura. L’attuale generazione usa abilmente l’occasione storica che le è capitata per realizzare i sogni e le aspirazioni dei suoi antenati.

Gli eventi occorsi dopo il crollo dell’impero sovietico mostrano anche che la sovranità e l’indipendenza sono l’unica strada corretta scelta dal popolo ceceno. Le intenzioni del GKChP (se questo colpo di stato fosse riuscito) di ripetere il 1944, la trasmissione pubblica in televisione riguardo l’attacco al nostro stesso parlamento da cannoni di grosso calibro ci danno un altro motivo per riflettere se abbiamo fatto bene, quando abbiamo deciso due anni fa di separarci dalla Russia fascista dove non comandano le leggi, ma i tentativi di ogni gruppo politico che si trova al vertice del potere, sotto le spoglie di una nuova “democrazia”, di consolidare razzismo e fascismo. Per due anni abbiamo resistito a un blocco globale da parte delle autorità russe, alla loro invasione militare, al confronto interno di ogni genere: sabotaggio, provocazioni, spionaggio. Il mondo intero ci guarda con ammirazione. Siamo ai suoi occhi un esempio e un modello di coraggio, fortezza e amore per la libertà. E questo spirito non si inaridirà mai tra i ceceni.Sì, è difficile per noi. Abbiamo subito battute d’arresto, difficoltà legate a strutture di potere che non hanno ancora preso forma, mancanza di disciplina, mancanza di organizzazione, confronto interno tra forze distruttive, gruppi criminali e mafiosi.


Molti vedono solo aspetti negativi in ​​ciò che sta accadendo in Cecenia; disintegrazione, distruzione, estremismo, nazionalismo, ecc. Tutto questo è in realtà una finzione. La vita è forse più facile nei paesi della CSI? Quelle repubbliche che non si sono separate dalla Russia si sentono più tranquille? Ricordiamo il destino dei nostri fratelli ingusci, guardiamo cosa sta succedendo nelle repubbliche vicine e nella stessa Russia. C’è una crisi senza fine: politica, economica. Il collasso dell’economia, l’impoverimento di una parte significativa della popolazione, l’aumento dei prezzi, la corruzione e la criminalità di strada, il terrorismo, il deflusso di personale qualificato all’estero. Tutti i rami del potere si stanno degradando, nessuno di essi è pronto a collaborare con gli altri, nessuno di loro controlla la situazione nel Paese. E con tutto questo, vedere solo i nostri fallimenti è, per usare un eufemismo, semplicemente non serio.

Nonostante tutti gli ostacoli posti, durante i due anni di indipendenza sono stati fatti molti passi positivi per migliorare la situazione politica ed economica della repubblica. Il popolo ha respirato a pieni polmoni per secoli la libertà desiderata. La paura e l’ipocrisia sono sparite per sempre. Molte leggi e risoluzioni sono state adottate per aiutare a stabilizzare la situazione in Cecenia. Si stanno compiendo molti passi pratici per attuare il programma di politica estera e interna del governo. Sono state delineate chiare linee guida per l’ulteriore sviluppo dell’economia, per far uscire la repubblica dalla crisi. Non abbiamo problemi a scegliere il modo per superare la crisi. Questo percorso è chiaramente definito. Il problema è solo nella nostra unità e armonia.

È arrivata la fase dello sviluppo indipendente, il cui compito principale è la produzione e le trasformazioni economiche, in cui sono attesi importanti cambiamenti strutturali e di investimenti per garantire il necessario equilibrio del mercato: uso razionale del nostro petrolio; ristrutturazione urgente di tutte le raffinerie di petrolio per garantire un significativo aumento della raffinazione del petrolio, il loro riequipaggiamento tecnologico; risolvere il problema della creazione di nuove industrie per la costruzione di macchinari; rendere produttive le ricche riserve di materie prime per la produzione di materiali da costruzione, utilizzare le enormi riserve di foraggi di montagna (per la produzione di prodotti zootecnici), il cui sviluppo consentirà di mantenere 200mila capi di bestiame e un milione di capi di pecore. Molta attenzione sarà dedicata alla realizzazione di strade, edifici residenziali e stalle, alla posa di linee elettriche e di comunicazione. È stato sviluppato un programma statale per migliorare la fertilità del suolo nella repubblica. Sono previste la ricostruzione e la realizzazione di imprese per la lavorazione dei prodotti agricoli, l’introduzione di tecnologie e l’importazione di attrezzature, la creazione di un complesso turistico e sanitario.

L’irrisolvibilità cronica di molte questioni economiche e sociali suscita nella popolazione sentimenti di insoddisfazione e pessimismo. Questo è un fenomeno naturale e non c’è nulla di cui preoccuparsi. Abbiamo scelto una strada difficile verso la libertà e non abbiamo il diritto di interromperla. Nella memoria del popolo ceceno, di generazione in generazione, si conservano tenacemente le parole pronunciate dai loro antenati più di cento anni fa: «Ci dichiariamo colpevoli solo davanti a Dio e al popolo ceceno per non aver saputo restituire la libertà concessaci da Dio”. E ora l’attuale generazione di ceceni è riuscita a ripristinare questa libertà, ad adempiere ai precetti dei loro antenati. Ed è determinato a difenderlo fino alla fine della sua vita, a qualunque costo. Queste difficoltà temporanee che si sono sviluppate per tutti i popoli sul territorio dell’ex impero sovietico non sono nulla in confronto alla vergogna e all’umiliazione che il popolo ceceno ha vissuto per decenni: sabotaggio delle autorità locali, violazioni di ogni tipo, politica del personale crudele che ha provocato proteste periodiche, manifestazioni nelle quali si è chiesto che ingusci e ceceni fossero sfrattati di nuovo; rifiuto di assumere ceceni per lavorare presso imprese industriali e oggetti di importanza strategica, negli organi amministrativi, divieto di celebrare feste nazionali e religiose; persecuzione e pressioni sull’’intellighenzia; Annientamento graduale della lingua madre nella vita quotidiana; divieto di studiare la vera storia dei Vaynakh. Ecco un elenco tutt’altro che completo di fenomeni che hanno disonorato e umiliato questo popolo.

Il nostro obiettivo di libertà e indipendenza è stato raggiunto. Questo dovrebbe essere apprezzato e di questo dovremmo essere orgogliosi. Ora stiamo costruendo uno stato democratico sovrano e di diritto. Non c’è dubbio che saremo in grado di portare a termine anche questo compito: a differenza dello Stato “democratico” russo, dove i rappresentanti delle nazionalità caucasiche sono perseguitati a ogni passo, i ceceni sono terrorizzati, fucilati, deportati dalle loro case, le autorità della Repubblica cecena non permetteranno mai a nessuno la minima violazione dei diritti di una singola persona, non importa a quale nazione appartenga e non importa quale dio preghi. Tutti i popoli che abitano la repubblica sono uguali e degni di rispetto e di una vita migliore.


Il popolo ceceno non ha nulla di cui lamentarsi o rimpiangere il precedente regime, il quale ha lasciato loro la più alta mortalità infantile, insalubrità e inquinamento ambientale, la più bassa aspettativa di vita e il più basso tenore di vita. Non chiediamo aiuto a nessuno. Chiediamo ed esigiamo di non essere disturbati.

CARI CITTADINI DELLA REPUBBLICA CECENA!


Il nostro popolo è ottimista riguardo al proprio futuro, nonostante gli intrighi degli oppositori esterni e interni contro la nostra sovranità. Crediamo che prima o poi la ragione e la saggezza prevarranno nei circoli della leadership russa. Crediamo che la bandiera di stato della Repubblica Cecena, che sventola davanti alla sede dell’Organizzazione dei Popoli Non Rappresentati, sarà presto issata davanti alla sede delle Nazioni Unite. Crediamo che PACE, SALUTE e PROSPERITÀ regneranno nella longanime Cecenia. Lo Stato ceceno ha già non solo una storia, ma anche un futuro più reale. Vitalità e forza, capacità di creare e vivere con ragione e talento: ci siamo confermati nelle più difficili prove di forza, costruendo il nostro stato nella “bocca di un boa constrictor”.

Oggi possiamo affermare con orgoglio che l’onore profanato è stato ripristinato e dalla popolazione senzatetto di ieri, ai tempi dell’URSS, oggi siamo una NAZIONE libera.



LASCIATE CHE L’ANNO CHE FINISCE PORTI CON SE TUTTI I NOSTRI ATTRITI, TUTTI I NOSTRI PROBLEMI!


BUON ANNO A VOI, CARI COMPATRIOTI! CON NUOVA FELICITÀ, CON NUOVO SUCCESSO E BUONA SALUTE! CHE DIO VI AIUTI!


Dzhokhar DUDAEV.

IL TRADIMENTO CHE NON CI FU – L’OPERAZIONE “SCHAMIL” (I Parte)

Quando, nel Febbraio del 1944, Stalin decretò la deportazione di massa dei Ceceni in Asia centrale, egli motivò la terribile “punizione” con la supposta collaborazione dei Ceceni con le forze armate germaniche. Tale collaborazione sarebbe avvenuta, secondo la versione ufficiale, nel corso del 1942, in concomitanza con un’azione di intelligence e sabotaggio compiuta dalla Wehrmacht, chiamata in codice “Operazione Schamil”. Il marchio dell’infamia, gettato su tutti i ceceni dalla teoria del “tradimento”, avrebbe condizionato l’esistenza di un intero popolo il quale, ridotto a paria nel consesso delle nazioni che abitavano l’impero sovietico, fu costretto ad accettare una frustrante discriminazione sociale, economica e politica. Questa condizione fu uno tra i detonatori del desiderio di rivalsa che pervase i ceceni alla fine degli anni ’80, e alimentò quel desiderio di libertà che poi si concretizzò con l’indipendenza nel 1991.

Oggi in Russia si è accettata l’idea che la deportazione del 1944 fu un crimine terribile. Eppure rimane ben radicata dell’opinione pubblica l’idea che questo tradimento dei ceceni si sarebbe realmente consumato, e che pertanto vi sia una “colpa” ancestrale che i Vaynakh dovrebbero “espiare” di fronte alla madrepatria. Tralasciando il fatto che molti ceceni non considerano affatto la Russia la loro casa, e che quindi non si sentirebbero affatto dei “traditori” di una patria che non riconoscono, il fatto è che questa “colpa” non è affatto certa. Anzi, è piuttosto chiaro, dalle evidenze storiche, che la maggior parte dei ceceni combattè con onore nelle file dell’Armata Rossa, e che la popolazione civile non solidarizzò con i tedeschi più di quanto non lo fecero le altre nazioni sottoposte al giogo di Stalin.

Recentemente Pieter Van Huis, ricercatore dell’Università di Leida, nei Paesi Bassi, ha pubblicato una tesi dal titolo Banditi di montagna e fuorilegge della foresta. Ceceni e Ingusce sotto il dominio sovietico nel 1918-1944. Lo studioso dedica un capitolo proprio alla celebre “Operazione Schamil”: attingendo alle fonti documentali disponibili presso gli archivi della Wehmacht e dell’NKVD, ha saputo ricostruire la genesi e lo svolgimento di questa azione. Riepiloghiamo in sintesi quanto è emerso dagli studi di Van Huis, a loro volta riportati da Anastasia Kirilenko sul sito del Nodo Caucasico: https://www.kavkaz-uzel.eu/

I RAPPORTI LANGE

Le prime fonti cui fa riferimento Van Huis sono tre rapporti operativi, due firmati dal Tenente Maggiore Erhard Lange ed uno dal volontario osseto Boris Tsagolov. Tutte e tre le fonti, sebbene differenti nello stile, concordano sul fatto che l’operazione fu un sostanziale fallimento principalmente a causa della pronta reazione delle unità dell’NKVD, le quali procedettero a punire i residenti che davano ospitalità al nemico bruciando le loro case, o applicando punizioni collettive alle comunità che non si opposero attivamente al suo passaggio. Tutti e tre i rapporti, in ogni caso, concordano sul fatto che ad eccezione di alcune bande di irregolari, peraltro già attive prima dell’invasione, non fornirono un supporto sufficiente al buon esito dell’operazione.

Il primo di questi rapporti fu inviato da Ehrard Lange il 5 Gennaio 1943. In esso si riepiloga che l’Operazione Schamil ebbe inizio il 25 Agosto 1942, quando un aereo della Luftwaffe decollato da Armavir paracadutò 11 tedeschi e 19 volontari caucasici nei pressi di Chishki e di Dachu – Barzoi, a circa 30 kilometri da Grozny. Il cielo era sgombro, e la luce della luna illuminò fin da subito i paracadutisti, i quali furono presi di mira dal nemico. La maggior parte delle armi e dell’equipaggiamento fu quindi frettolosamente abbandonato, e ci vollero alcuni giorni prima che il gruppo potesse ricompattarsi, non prima di aver accertato alcune perdite e diserzioni. Il gruppo, ridotto a 22 uomini, tentò di racimolare qualche arma da fuoco sequestrandola agli abitanti dei villaggi vicini, mentre tentava di guadagnare un rifugio sicuro. Tuttavia, essendo stati notati fin dal loro arrivo, gli uomini del commando divennero da subito oggetto di una spietata caccia da parte dell’NKVD, che giunse a mobilitare addirittura 2.000 effettivi per stanarli. Lange tentò quindi di prendere contatto con i ribelli locali, arroccati sulle montagne, cercando di riunirli in un’unica banda organizzata, e di aggiungere a questa massa critica un contingente di 400 ribelli georgiani. Il piano, tuttavia, non riuscì a causa del fatto che il 24 Settembre 1942 l’NKVD intercettò Lange, costringendolo ad aprirsi una via di fuga con la forza. I sopravvissuti raggiunsero Kharsenoy, ma qui furono nuovamente intercettati e costretti a combattere. Dopo aver perduto altri uomini, Lange decise di abortire la missione. Dopo aver abbandonato le divise ed indossato abiti civili, riuscì a spacciare i resti del suo gruppo (cinque tedeschi e quattro caucasici) per una banda di banditi Cabardini, finché non riuscì ad ottenere la collaborazione di alcuni residenti locali, i quali accettarono di aiutarlo a patto i membri della banda fossero divisi e distribuiti secondo le loro volontà. Non potendo fare altro, Lange acconsentì. Lui e i suoi uomini rimasero nascosti fino al 9 Dicembre successivo, quando appresero che l’armata rossa aveva intercettato e distrutto la maggior parte dei ribelli operanti in Cecenia. Il giorno successivo Lange raccolse i suoi, e li portò oltre la linea del fronte. Rientrato alla base, l’ufficiale compilò una memoria nella quale indicò una lista di nomi di “103 persone assolutamente affidabili, che potrebbero fungere da guide”.

Successivamente, il 23 Aprile 1943, Lange depositò un secondo rapporto, nel quale specificava maggiormente lo scopo della sua missione: mettere in atto operazioni militari per ostacolare la ritirata nemica lungo la direttrice Grozny – Botlikh. Il compito, si specificava, non era stato portato a termine a causa del fatto che la maggior parte delle armi era andato perduto durante l’atterraggio, ma anche per via della scarsa collaborazione dei residenti locali. Secondo questo rapporto, una volta constatata la dispersione del “Gruppo Lange”, il comando tedesco aveva inviato una seconda unità, chiamata “Gruppo Rekert” a cercare di recuperare i dispersi. Questo secondo drappello, tuttavia, era stato sbaragliato ed i suoi componenti risultavano scomparsi. Rispetto al suo rapporto con i civili, Lange precisa che il gruppo era nelle mani della popolazione civile e correva quotidianamente il rischio di un tradimento da parte loro, e che soltanto dopo lunghe discussioni il commando riuscì a liberarsi da questa tutela. Infine, il resoconto specificava anche l’obiettivo secondario seguito da Lange una volta che quello principale (il sabotaggio) si rivelò irraggiungibile: Verificare la veridicità dei rapporti al Fuhrer secondo i quali ceceni e ingusci sarebbero particolarmente coraggiosi nella lotta contro i bolscevichi e, nel caso, fornire loro supporto logistico ed armi per proseguire la guerriglia. Per raggiungere questo secondo obiettivo Lang avrebbe dovuto passare alcune settimane in Cecenia, confidando nello spirito di ospitalità dei residenti locali. Egli sapeva che per un ceceno l’ospitalità è sacra. Nel rapporto riferisce, infatti: le regole locali sull’ospitalità richiedono di proteggere la vita di un ospite anche a costo della propria. Consci di questo, i tedeschi non risparmiarono ai ceceni veri e propri ricatti morali, minacciando di far sapere a tutti del disonore gettato sulla famiglia e sul Teip da persone che non accettavano di ospitarli e di collaborare con loro.

Se ottenere l’ospitalità dei ceceni sembrava piuttosto facile, molto più difficile risultò garantirsi la loro alleanza nel costituire un movimento di resistenza antisovietica. Sempre citando Lange:  I residenti locali non sono interessati a nulla, tranne che al destino del loro villaggio, nel quale vorrebbero vivere come contadini liberi. Essi non hanno alcun rispetto per il tempo, per lo spazio, né per il rispetto degli accordi presi. […] Tutto questo crea pessimi requisiti per una rivolta. Citando un evento accaduto al Gruppo Reckert, Lange ricorda che dopo aver ricevuto le armi, gli uomini sono tornati in fretta ai loro villaggi. A conclusione del suo rapporto, Lange consigliava di non investire uomini e mezzi in questa operazione, giacchè la popolazione locale non avrebbe combattuto per la Germania, ma al massimo per liberarsi delle fattorie collettive e riappropriarsi della terra.

ENGLISH VERSION


THE BETRAYAL THAT DID NOT HAPPEN – OPERATION “SCHAMIL” (Part I)

When, in February 1944, Stalin decreed the mass deportation of the Chechens to Central Asia, he motivated the terrible "punishment" with the alleged collaboration of the Chechens with the Germanic armed forces. According to the official version, this collaboration took place during 1942, in conjunction with an intelligence and sabotage action carried out by the Wehrmacht, codenamed "Operation Schamil". The stigma thrown on all Chechens by the theory of "betrayal", would have conditioned the existence of an entire people who, reduced to pariah in the assembly of nations that inhabited the Soviet empire, was forced to accept a frustrating social, economic and political discrimination. This condition was one of the detonators of the desire for revenge that pervaded the Chechens in the late 1980s, and fueled that desire for freedom which then materialized with independence in 1991.

Today in Russia it is accepted that the 1944 deportation was a terrible crime. Yet public opinion remains firmly rooted in the idea that this betrayal of the Chechens would actually be consummated, and that therefore there is an ancestral "guilt" that the Vaynakhs should "atone" in the face of the motherland. Leaving aside the fact that many Chechens do not consider Russia their home at all, and therefore would not at all feel like "traitors" to a homeland they do not recognize, the fact is that this "fault" is by no means certain. Indeed, it is quite clear from the historical evidence that most Chechens fought with honor in the ranks of the Red Army, and that the civilian population did not sympathize with the Germans any more than did other nations under Stalin's yoke. .

Pieter Van Huis, a researcher at the University of Leiden in the Netherlands, recently published a thesis entitled Mountain Bandits and Forest Outlaws. Chechens and Ingush under Soviet rule in 1918-1944. The scholar dedicates a chapter to the famous "Operation Schamil": drawing on the documentary sources available in the Wehmacht and NKVD archives, he was able to reconstruct the genesis and development of this action. We summarize in summary what emerged from the studies of Van Huis, in turn reported by Anastasia Kirilenko on the Caucasian Node website: https://www.kavkaz-uzel.eu/
THE LANGE REPORTS

The first sources to which Van Huis refers are three operational reports, two signed by Lieutenant Major Erhard Lange and one by the Ossetian volunteer Boris Tsagolov. All three sources, although different in style, agree that the operation was a substantial failure mainly due to the prompt reaction of the NKVD units, which proceeded to punish the residents who housed the enemy by burning their homes. , or by applying collective punishment to communities that did not actively oppose its passage. All three reports, in any case, agree that with the exception of some bands of illegal immigrants, which were already active before the invasion, they did not provide sufficient support for the success of the operation.
The first of these reports was sent by Ehrard Lange on January 5, 1943. It summarizes that Operation Schamil began on August 25, 1942, when a Luftwaffe plane taken off from Armavir parachuted 11 Germans and 19 Caucasian volunteers near Chishki. and Dachu - Barzoi, about 30 kilometers from Grozny. The sky was clear, and the light of the moon immediately illuminated the paratroopers, who were targeted by the enemy. Most of the weapons and equipment were therefore hastily abandoned, and it took a few days before the group could regroup, not before having ascertained some losses and desertions. The group, reduced to 22 men, attempted to scrape together some firearms by seizing them from nearby villagers, while trying to gain a safe haven. However, having been noticed since their arrival, the men of the commando immediately became the object of a merciless hunt by the NKVD, which even mobilized 2,000 troops to track them down. Lange then attempted to make contact with the local rebels, perched in the mountains, trying to unite them in a single organized band, and to add a contingent of 400 Georgian rebels to this critical mass. The plan, however, failed due to the fact that on September 24, 1942, the NKVD intercepted Lange, forcing him to forcibly open an escape route. The survivors reached Kharsenoy, but here they were again intercepted and forced to fight. After losing other men, Lange decided to abort the mission. After abandoning his uniforms and wearing civilian clothes, he managed to pass off the remains of his group (five Germans and four Caucasians) as a band of Cabardini bandits, until he succeeded in obtaining the collaboration of some local residents, who agreed to help him provided the members of the gang were divided and distributed according to their will. Unable to do anything else, Lange agreed. He and his men remained in hiding until the following December 9, when they learned that the Red Army had intercepted and destroyed most of the rebels operating in Chechnya. The next day Lange gathered his own, and carried them over the front line. Returning to the base, the officer compiled a memo in which he indicated a list of names of "103 absolutely reliable people, who could serve as guides".
Subsequently, on April 23, 1943, Lange filed a second report, in which he further specified the purpose of his mission: to carry out military operations to obstruct the enemy retreat along the Grozny - Botlikh route. The task, it was specified, had not been completed due to the fact that most of the weapons had been lost during landing, but also due to the lack of cooperation from local residents. According to this report, once the dispersion of the "Lange Group" was ascertained, the German command had sent a second unit, called the "Rekert Group" to try to recover the missing. This second squad, however, had been defeated and its members had disappeared. With respect to his relationship with civilians, Lange specifies that the group was in the hands of the civilian population and daily ran the risk of betrayal on their part, and that only after long discussions did the commandos manage to free themselves from this protection. Finally, the report also specified the secondary objective followed by Lange once the main one (sabotage) proved unattainable: Verifying the veracity of the reports to the Fuhrer according to which Chechens and Ingush are particularly courageous in the fight against the Bolsheviks and, in the case, provide them with logistical support and weapons to continue the guerrilla warfare. To achieve this second goal, Lang would have had to spend a few weeks in Chechnya, trusting in the spirit of hospitality of the local residents. He knew that hospitality is sacred to a Chechen. In fact, in the report he reports: the local rules on hospitality require you to protect the life of a guest even at the cost of your own. Aware of this, the Germans did not spare the Chechens real moral blackmail, threatening to let everyone know of the dishonor thrown on the family and on the Teip by people who did not accept to host them and to collaborate with them.
While obtaining the hospitality of the Chechens seemed easy enough, it was much more difficult to secure their alliance in forming an anti-Soviet resistance movement. Again quoting Lange: Local residents are not interested in anything except the fate of their village, in which they would like to live as free farmers. They have no respect for time, space, or compliance with the agreements made. […] All this creates bad conditions for a riot. Citing an event that happened to the Reckert Group, Lange recalls that after receiving the weapons, the men quickly returned to their villages. At the end of his report, Lange advised not to invest men and means in this operation, since the local population would not fight for Germany, but at most to get rid of the collective farms and regain possession of the land.

ERZU: I “FALCHI VERDI” DELL’ICHKERIA INDIPENDENTE

La storia della Repubblica Cecena di Ichkeria è una storia di politica e di guerra, ma anche di vita quotidiana, e di pace. Tra i tanti argomenti poco trattati riguardo la vita quotidiana del paese prima dello scoppio della Prima Guerra Cecena, una menzione è da farsi per lo sport, ed in particolare per il calcio. E ancor più nello specifico per il primo (e unico) club calcistico privato della ChRI, l’Erzu (in ceceno “Falco”).  

I FALCHI VERDI

Fin dagli albori del calcio, in Cecenia vi era una, ed una sola, grande squadra: il Terek. Fondata nel 1946, aveva sempre rappresentato la Cecenia nelle competizioni nazionali russe, militando spesso nella Seconda Divisione (la nostra “Serie B”) per parecchi anni. Oggi il Terek esiste sempre, anche se è stato ribattezzato “Akhmat” (come ormai un po’ tutto in Cecenia), il Presidente è Magomed Daudov, Presidente del Parlamento, ed il Presidente Onorario è Ramzan Kadyrov, Presidente della Repubblica. Non proprio un club privato, quindi. Così come, del resto, non lo era neanche il “vecchio” Terek.

Il Logo della “Erzu”

La novità nel panorama calcistico ceceno emerse a metà del 1991, quando l’uomo d’affari Ruslanbek Lorsanov acquisì la proprietà di un piccolo club con base a Grozny, la Oilman, la ribattezzò “Oilman – Erzu” e successivamente “Erzu” (“Falco”) e imbasti un ambizioso piano di crescita sportiva volto a valorizzare il locale bacino di giovani calciatori.  Con lo scoppio della Rivoluzione Cecena ed il passaggio al regime di Dudaev, la retorica nazionalista investì tutti i settori della società, e così anche il calcio. La Erzu divenne ben presto la squadra preferita dal Presidente Dudaev il quale, pur non finanziandone mai le attività, la sponsorizzò pubblicamente come la squadra del cuore di ogni vero ceceno, in alternativa alla “Terek” che invece contava nei suoi ranghi per lo più giocatori russi (anche se quasi tutti nati e cresciuti in Cecenia). Dudaev presenziava volentieri alle partite in casa della Erzu presso lo stadio Ordzhonikidze (ribattezzato dai dudaeviti “Uvais Akhtaev” nel 1993) e scendeva spesso negli spogliatoi a congratularsi con i giocatori quando la formazione portava a casa una vittoria. Visitò anche il vivaio della società, una scuola calcio molto partecipata dai ragazzi di Grozny, dal quale la Erzu intendeva tirar fuori la squadra titolare degli anni a venire.

L’ASCESA

Forte dei finanziamenti di Lorsanov, e complice la situazione critica dei rapporti tra Grozny e Mosca, la Erzu raggiunse ben presto le vette dei campionati locali, affacciandosi nel 1993 alle competizioni nazionali. A quel tempo la situazione era già piuttosto tesa, e parecchie squadre decisero di accettare una sconfitta a tavolino piuttosto che presentarsi allo stadio di Grozny, così la Erzu, che già di per sé era una squadra discreta nel panorama calcistico locale, fu enormemente avvantaggiata dalle numerose vittorie a tavolino che le consentirono di raggiungere il terzo posto nella classifica della Prima Lega, zona occidentale. La piaga delle “vittorie a tavolino” era causata dalla diffidenza che i principali club nutrivano verso la situazione in Cecenia, che consideravano instabile e pericolosa per la vita dei loro giocatori. Invano l’allenatore della Erzu, il noto Mister Kazako Vait Tangayev, tentò di convincere le squadre avversarie a presentarsi, giungendo a proporre un “pareggio in anticipo” in cambio della loro presenza sul campo: alla fine della stagione la squadra cecena aveva totalizzato ben 13 vittorie “per abbandono”, sufficienti a consolidare il prestigioso risultato sportivo.

Locandina di un incontro della Erzu

LA GUERRA E LA FINE DEI “FALCHI”

Dopo essersi guadagnati il lusinghiero nomignolo di “Falchi Verdi” dai commentatori televisivi, i giocatori dell’Erzu si prepararono alla stagione 1994, con l’ambizioso obiettivo di raggiungere la Prima Serie. Il campionato iniziò favorevolmente, con una serie importante di vittorie (alcune, ancora una volta, per abbandono). La situazione nel Paese stava tuttavia gravemente deteriorandosi, ed agli attriti tra Grozny e Mosca si aggiungeva a guerra civile strisciante tra il regime di Dudaev e l’opposizione. Il 1 Luglio la Erzu giocò la sua ultima partita in casa, battendo per 3 a 0 lo Smena – Saturn di San Pietroburgo, allora una delle principali squadre in lizza per un posto nella massima serie. Da quel momento la situazione fu considerata talmente instabile che la Federcalcio repubblicana ordinò prima che la squadra giocasse le partite di casa in campo neutro, poi che venisse direttamente esclusa dalla competizione. Entro la fine dell’estate la squadra, già rimasta unica società sportiva attiva nel Paese, cessò di fatto di esistere. Nel Gennaio del 1995 le strutture che la ospitavano, stadio compreso, furono completamente distrutte nella Battaglia per Grozny, ed il sogno dei “Falchi Verdi” tramontò per sempre.

I CINQUEMILA GIORNI DI ICHKERIA – PARTE 6 (SETTEMBRE – OTTOBRE 1991)

14 Settembre

RIVOLUZIONE CECENA – Il Presidente del Soviet Supremo Russo, Khasbulatov, si reca in Cecenia per concordare la nascita di un governo provvisorio che amministri lo Stato fino alle elezioni, da svolgersi il 17 Novembre seguente. Viene istituito un direttorio nel quale vengono inseriti sia membri del disperso Soviet Supremo, sia elementi di spicco del Congresso Nazionale del Popolo Ceceno. L’OKChN diffida il Soviet Provvisorio dall’agire in contrasto con la volontà del Congresso, minacciandone in tal caso la dissoluzione.

IRREDENTISMO INGUSCIO – A Nazran, i rappresentanti Ingusci dichiarano l’indipendenza della Repubblica di Inguscezia e si riconoscono all’interno della Russia.

25 Settembre

RIVOLUZIONE CECENA – A causa delle intimidazioni messe in atto dalla Guardia Nazionale nei loro confronti, molti deputati del Soviet Provvisorio sono impossibilitati a raggiungere l’assemblea, alla quale possono partecipare soltanto i deputati allineati con il Congresso Nazionale del Popolo Ceceno. Il Presidente del Soviet Provvisorio, l’uomo di fiducia di Dudaev e del Comitato Esecutivo Hussein Akhmadov, fa votare una mozione nella quale consegna i pieni poteri all’OKChN. I deputati assenti dichiarano nullo il voto, ma vengono aggrediti dalla Guardia Nazionale e dispersi.

Il Presidente del Soviet Supremo russo, Ruslan Khasbulatov attorniato dai giornalisti, Settembre 1991

1 Ottobre

IRREDENTISMO INGUSCIO – Il Comitato Esecutivo del Congresso Nazionale del Popolo Ceceno ed i leaders del Congresso Nazionale Inguscio firmano una dichiarazione congiunta nella quale concordano sulla separazione dell’Inguscezia dalla Cecenia.

3 Ottobre

RIVOLUZIONE CECENA – La Guardia Nazionale occupa l’edificio del Ministero degli Interni Ceceno – Inguscio.

5 Ottobre

RIVOLUZIONE CECENA – A seguito degli aspri contrasti sorti in seno al direttorio nominato il 15 settembre precedente, gli indipendentisti sciolgono il Soviet Provvisorio “per attività sovversive e provocatorie” e formano un “comitato rivoluzionario” cui conferiscono piena autorità. Nella notte miliziani armati occupano il Ministero degli Interni e la sede regionale del KGB, rinvenendo una grande quantità di armi e munizioni. Nelle settimane successive i ribelli riusciranno ad aprire il magazzino militare dei servizi segreti, mettendo le mani su un arsenale composto da centinaia di armi da fuoco e tonnellate di equipaggiamento militare.

7 Ottobre

RIVOLUZIONE CECENA – Il Soviet Supremo Provvisorio, dopo aver sconfessato l’autorità di Hussein Akhmadov, promulga una risoluzione di condanna all’Ispolkom (il Comitato Esecutivo dell’OKChN). Nella stessa giornata i militanti del Congresso disperdono l’assemblea con l’uso della forza.

MOVIMENTI POLITICI – Zelimkhan Yandarbiev viene confermato alla guida del Partito Democratico Vaynakh al termine del terzo congresso del partito.

8 Ottobre

RIVOLUZIONE CECENA – Il Soviet Supremo Russo dichiara il Soviet Provvisorio ceceno unica autorità riconosciuta nel paese.

10 Ottobre

RIVOLUZIONE CECENA – Il Soviet Supremo russo condanna col decreto “Sulla situazione politica in Cecenia – Inguscezia” la presa del potere da parte del Comitato Esecutivo ed emette un ultimatum di 48 per il disarmo delle milizie “illegali”.

L’opposizione moderata, ostile a Dudaev, costituisce una “milizia popolare” a sostegno del governo provvisorio.

Il Congresso Nazionale del Popolo Ceceno organizza elezioni popolari per il 27 Ottobre ed ordina la mobilitazione generale di tutti i cittadini maschi tra i 15 ed i 55 anni.

16 Ottobre

RIVOLUZIONE CECENA – Il Ministro degli Interni ceceno, Umalt Alsultanov, viene rimosso dalla sua carica a seguito del mancato intervento delle forze dell’ordine nel reprimere l’insurrezione del Comitato Esecutivo. Gli succede Vakha Ibragimov, ma Alsultanov si rifiuta di abbandonare l’ufficio, ed i reparti di polizia si dividono tra chi sostiene le posizioni del primo e chi intende ubbidire all’avvicendamento. Questa situazione provoca ulteriore caos.

Da Mosca, il Presidente russo Boris Eltsin definisce gli indipendentisti “una banda di criminali che terrorizzano la popolazione” e ordina il dispiegamento dell’esercito ai confini della Cecenia.

CONFLITTI SOCIALI – A Grozny ignoti tentano di occupare l’ufficio del Direttore del giornale “Daimokhk”. Nella notte risuonano spari in tutta la città. Il Comitato Esecutivo del Congresso nega che siano in atto azioni della Guardia Nazionale ed accusa ignoti provocatori di voler destabilizzare la situazione nel Paese per scongiurare le elezioni popolari previste per il 27 Ottobre. Dalle vicine repubbliche del Caucaso settentrionale giungono dichiarazioni di supporto alle attività del Comitato Esecutivo.

17 Ottobre

CRIMINALITA’ – Banditi armati, fintisi uomini della Guardia Nazionale, penetrano in un posto di guardia e rubano 4 carabine, un fucile di piccolo calibro e un revolver.

In risposta alla diffusa circolazione delle armi il Comitato Esecutivo dell’OKChN decreta il ritiro della Guardia Nazionale dagli edifici pubblici “non essenziali” ed il suo acquartieramento nelle caserme, la sospensione della mobilitazione proclamata il 10 Ottobre ed il divieto di circolazione alle armi non registrate.

Isa Akyadov, volontario della Guardia Nazionale, posa sul busto abbattuto di Lenin

18 Ottobre

RIVOLUZIONE CECENA – Il Comitato Esecutivo del Congresso diffida il Soviet Supremo Russo ad emettere delibere riguardanti la Cecenia, e dichiara che considererà qualsiasi intromissione “una continuazione del genocidio contro il popolo ceceno“.

Continuano i preparativi per le elezioni popolari del 27 Ottobre: ad oggi vi sono 5 candidati alla Presidenza della Repubblica e un centinaio di candidati per il ruolo di deputato del nuovo Parlamento, il quale conterà quarantuno membri.

CONFLITTI SOCIALI – Nel centro detentivo di Naursk, ancora in stato di agitazione, una cinquantina di detenuti si appella a Dudaev affinché consenta loro di mettersi a disposizione della Guardia Nazionale, promettendo di non abbandonare il paese e di rimettersi successivamente alla volontà dei magistrati. Il professor Ramzan Goytemirov, leader del Movimento Verde, porta avanti le trattative con i detenuti.

19 Ottobre

RIVOLUZIONE CECENA – Eltsin intima alle milizie di Dudaev di smobilitare, e minaccia di prendere “tutte le misure necessarie a normalizzare la situazione, a garantire la sicurezza della popolazione ed a proteggere l’ordine costituzionale”. Il Vicepresidente del Comitato Esecutivo, Hussein Akhmadov, bolla l’ultimatum come “l’ultimo fiato dell’impero russo“.

CONFLITTI SOCIALI – Nel distretto di Naursk l’assemblea dei rappresentanti dei Cosacchi di Cecenia chiede un referendum per secedere dalla Cecenia ed annettere i territori del Distretto di Naursk al Territorio di Stavropol.

20 Ottobre

RIVOLUZIONE CECENA – L’esercito federale viene messo in stato di allerta.

21 Ottobre

RIVOLUZIONE CECENA – Autobus carichi di militanti provenienti da varie regioni del Caucaso giungono a Grozny. Molti attivisti della Confederazione dei Popoli del Caucaso, organizzazione appena costituita con l’obiettivo di raggiungere l’unità politica delle repubbliche del Caucaso Settentrionale, si mettono a disposizione dei rivoluzionari ceceni.

I rappresentanti dei movimenti moderati (Daymokhk, Partito Socialdemocratico, Unione degli Intellettuali ed altre sigle minori) tengono un presidio in Piazza del Teatro, a Grozny contro il Comitato Esecutivo chiedendo il disarmo delle milizie armate e lo sgombero degli edifici occupati.

Una rappresentativa degli anziani e del clero islamico si riunisce nella capitale cecena per dare il suo contributo alla soluzione della crisi politica in atto. Viene deciso di convocare un “Mekhk . Khel”, il tradizionale consiglio degli anziani che nel passato veniva chiamato a pronunciarsi su questioni particolarmente delicate.

21 Ottobre

RIVOLUZIONE CECENA – Scade l’ultimatum di Eltsin sul disarmo della Guardia Nazionale. Nessuna iniziativa pratica viene presa da Mosca, mentre la Commissione Difesa del Congresso Nazionale continua a registrare i volontari disposti a mobilitarsi in caso di confronto armato con le forze del Cremlino. A dirigere l’arruolamento c’è il Capo di Stato Maggiore della Guardia Nazionale, Iles Arsanukaev.

22 Ottobre

RIVOLUZIONE CECENA – Su ordine del Comitato Esecutivo hanno inizio le operazioni per il riconoscimento della cittadinanza. A Grozny e nelle principali città, ufficiali autorizzati dall’OKChN distribuiscono l’attestazione di nazionalità timbrando i vecchi passaporti sovietici con il simbolo della Repubblica Cecena e registrano i proprietari su elenchi ufficiali.

In Piazza del Teatro l’opposizione moderata manifesta contro le iniziative del Congresso, bollando come illegali le azioni da questo intraprese e riconoscendo il Soviet Provvisorio come unica autorità legittima nel paese.

23 Ottobre

RIVOLUZIONE CECENA – Doku Zavgaev invia un appello al popolo ceceno nel quale mette in guardia i cittadini dal proseguire sulla strada del caos e della rivoluzione, definendo la Cecenia “sull’orlo di una guerra civile”. Ricorda che l’inverno è alle porte, e che il caos ha impedito l’organizzazione logistica necessaria ad assicurare a tutti i villaggi di montagna sufficienti risorse per affrontarlo. Invita i cittadini a diffidare dei rivoluzionari, paventando il rischio che il Paese finisca nell’anarchia.

Le redazioni dei principali quotidiani ceceni chiedono al Comitato Esecutivo di liberare la sede della TV e della Radio di Stato e di permettere il libero svolgimento del lavoro dei giornalisti, lamentando forti pressioni da parte dei militanti dell’OKChN e della Guardia Nazionale.

24 Ottobre

RIVOLUZIONE CECENA – Il Soviet Supremo dell’URSS dichiara illegittime le elezioni popolari in programma per il 27 Ottobre ed invita i cittadini a boicottarle. I deputati del disperso Soviet Provvisorio si appellano al popolo perché boicotti le elezioni e sostenga il disarmo delle milizie.

In risposta all’appello di Zavgaev, il quale aveva definito la situazione in Cecenia “sull’orlo di una guerra civile” il Presidente della Commissione Difesa dell’OKChN, Bislan Gantamirov, risponde che “non ci sarà alcuna guerra civile” perché le armi che il Comitato sta ammassando sono destinate ad “invasioni dall’esterno”. La Guardia Nazionale, spiega, rimarrà in armi per garantire lo svolgimento delle elezioni popolari del 27 Ottobre.

Ad oggi sono candidati alla carica di deputato 187 cittadini. Altri 19, che avevano presentato la loro candidatura, sono stati rifiutati dalla Commissione Elettorale.

MANIFESTAZIONI POLITICHE – A Grozny si costituisce il comitato organizzativo per il congresso dei cittadini di lingua russa, in programma per il 19 Novembre.

Un cittadino legge un quotidiano appena acquistato da un ambulante, Grozny, 1991

25 Ottobre

RIVOLUZIONE CECENA – Eltsin invia il Viceministro delle Foreste, Akhmed Arsanov, come suo rappresentante in Cecenia. Arsanov è appartenente ad una illustre famiglia cecena, ed è molto rispettato tra la popolazione.

26 Ottobre

CONFLITTI SOCIALI – Nuove rivolte nelle carceri. 130 detenuti insorgono, ed altri 600, già fatti fuoriuscire nelle settimane precedenti, manifestano per le strade.

RIVOLUZIONE CECENA – Il Soviet Provvisorio, ricostituito sotto la presidenza di Baudi Bakhmadov, indice per il 17 Novembre un referendum sulla istituzione della carica di Presidente della Repubblica e sulla secessione dell’Inguscezia dalla repubblica Ceceno – Inguscia.

Il Rappresentante del Presidente della Federazione Russa, Akhmed Arsanov, interviene alla manifestazione dell’opposizione al Comitato Esecutivo dichiarando che “i popoli ceceno e inguscio sono stati, sono e rimarranno uniti” ed esortando i cittadini a boicottare le elezioni popolari previste per il giorno successivo. Infine si rivolge alla popolazione russa residente nella Repubblica, esortandola a non abbandonare il Paese.

In serata Dzhokhar Dudaev tiene una conferenza stampa, durante la quale dichiara che l’introduzione di Arsanov in Cecenia rappresenta “Un tentativo di introdurre un governatorato nella Repubblica”. Inoltre afferma che la decisione presa dal popolo ceceno di autodeterminarsi non deve necessariamente portare ad una rottura dei rapporti con la Russia, e che la popolazione russofona non ha nulla da temere. Infine, nei riguardi della ormai certa separazione tra Cecenia e Inguscezia, dichiara di essere intenzionato a rispettare le volontà degli ingusci, anche se sostiene la prospettiva di un percorso comune sulla strada dell’indipendenza.

27 Ottobre

RIVOLUZIONE CECENA – Si tengono le elezioni popolari organizzate dal Congresso Nazionale del Popolo Ceceno. La popolazione partecipa in massa (470.000 voti su 640.000 elettori, secondo la Commissione Elettorale) ed elegge il Generale Dudaev alla carica di Presidente della Repubblica con quasi il 90% dei voti, ed un Parlamento della Repubblica di 41 membri (al voto diretto vengono eletti 32 deputati, gli altri 9 verranno eletti nelle settimane seguenti con voto suppletivo). Almeno 14 deputati sono eletti tra le file del Partito Democratico Vaynakh, e la maggior parte degli altri tra gli attivisti dell’OKChN. L’opposizione moderata, la quale non ha partecipato al voto, è quasi assente dall’assemblea legislativa. Le elezioni sono caratterizzate da diffuse irregolarità, e sono sconfessate dalle forze moderate. In alcuni distretti l’organizzazione del voto è frammentaria e mancano commissioni neutrali in grado di verificare la validità del voto. Tuttavia la stragrande maggioranza della popolazione saluta l’evento con grande soddisfazione.

28 Ottobre

RIVOLUZIONE CECENA – Mentre il Soviet Supremo dell’URSS dichiara illegali le elezioni appena svoltesi, i movimenti moderati si riuniscono nel Movimento per la Conservazione della Cecenia – Inguscezia ed armano squadre di volontari che proteggano i seggi nelle elezioni previste per il 17 Novembre.

Dzhokhar Dudaev viene proclamato primo Presidente della Repubblica Cecena. Durante la conferenza stampa che segue, egli dichiara “Dobbiamo dimostrare alla civiltà mondiale che, essendo diventati più liberi, non saremo più necessari solo ai loro vicini, ma anche ad altri popoli “. Successivamente invia un appello al governo federale, nel quale si dice “fiducioso che le relazioni tra la Repubblica Cecena e la Federazione Russa saranno costruite sulla base delle norme civili, del diritto internazionale e nel rispetto reciproco dei diritti e delle libertà” e “sicuro che tutti i nostri ulteriori contatti porteranno a comprensione e rafforzamento di reciproci legami di amicizia tra i nostri popoli, i quali contribuiranno alla prosperità delle nostre repubbliche.”

L’opposizione moderata, la quale ha contestato e boicottato le elezioni, continua a manifestare in Piazza Sheikh Mansur (ex Piazza Lenin).

Elettori si registrano a Grozny per partecipare alle elezioni popolari. 27 ottobre 1991 (foto Gennady Khamelyanin TASS)

30 Ottobre

RIVOLUZIONE CECENA – L’opposizione continua ad occupare Piazza Sheikh Mansur. Tra i manifestanti si costituiscono bande armate. Gli esponenti dell’opposizione moderata dichiarano aperta la campagna elettorale per la costituzione del nuovo Soviet Supremo Ceceno – Inguscio, da decretarsi tramite voto popolare il 17 Novembre.

POLITICA NAZIONALE – Con il Decreto  Presidenziale n° 2 “Sulla creazione del Servizio Stampa sotto il Presidente della Repubblica”, Dudaev costituisce il Servizio Stampa Presidenziale.