LA POLITICA ESTERA DELLA CHRI TRA IL 1991 ED IL 1999
PRIMA PARTE: DAL 1991 AL 1993
La Repubblica Cecena di Ichkeria non fu mai riconosciuta da nessun governo del mondo, fatta eccezione, per l’Emirato Islamico dell’Afghanistan. Tuttavia i suoi presidenti, ministri degli esteri e rappresentanti affrontarono spesso visite, viaggi privati e relazioni epistolari con i rappresentanti di molti Stati, nel tentativo di ottenere riconoscimento, appoggi politici, finanziari e militari. Quello che segue è un resoconto delle attività diplomatiche “ufficiali” portate avanti dalla ChRI tra il 1991 ed il 1999.
Zviad Gamsakhurdia partecipa ad una riunione del Parlamento della Repubblica Cecena nel 1992. Da destra: Hussein Akhmadov, Presidente del Parlamento, Bektimar Mezhidov, Vicepresidente, Dzhokhar Dudaev, Presidente della Repubblica, Yusup Soslambekov, Presidente della Commissione Parlamentare Affari Esteri, ed il già citato Gamsakhurdia.
LA “CASA CAUCASICA”
All’indomani della Dichiarazione di Indipendenza, il governo provvisorio del Generale Dudaev stilò una lista di obiettivi programmatici, all’interno della quale erano ben presenti gli obiettivi di politica estera della nuova Repubblica:
Politica estera: Rafforzare i diritti sovrani di una repubblica cecena libera, indipendente e democratica. Sviluppo dei processi di integrazione nell’economia con la Russia e le altre repubbliche sulla base di una cooperazione reciprocamente vantaggiosa. Rafforzare l’amicizia, la pace ed il buon vicinato con i popoli delle repubbliche vicine. Stabilire la neutralità, la non partecipazione a blocchi militari, le alleanze dirette con tutti i paesi, ad eccezione degli stati governati da regimi antipopolari.
L’idea era quella di presentare la secessione cecena come un fatto geopoliticamente non pericoloso per la Russia. A ribadire questo concetto nel Gennaio 1992 Dudaev emise una dichiarazione congiunta con il Parlamento nella quale si diceva:
“Dichiariamo la nostra disponibilità ad aderire a qualsiasi Commonwealth regionale o espressione dell’intera ex Unione Sovietica a parità di condizione, e la nostra determinazione a promuovere processi di integrazione basati su di essi. […] La Repubblica cecena non parteciperà a nessuna alleanza militare ed accordo di natura aggressiva, ma si riserva il diritto di utilizzare tutti i mezzi riconosciuti dal diritto internazionale per proteggere la propria sovranità ed integrità territoriale. […] La Repubblica non ricorrerà all’uso della forza o alla minaccia del suo uso contro altri stati. […] invita tutti gli Stati e le repubbliche dell’ex Unione a riconoscere la sovranità della Repubblica Cecena […] dichiara di riconoscere la sovranità statale di tutte le repubbliche in conformità con le norme del diritto internazionale.”
Tale impostazione fu ribadita nel Febbraio del 1992, alla promulgazione della Costituzione della Repubblica, pur con alcune, interessanti, differenze. L’articolo 6 citava testualmente:
Nella sua politica estera la Repubblica Cecena, pur rispettando i diritti e la libertà dei popoli, è guidata dai principi e dalle norme del diritto internazionale generalmente riconosciuti. Si sforza per un mondo universale e giusto basato sui valori umani universali; per una cooperazione stretta, professionale e reciprocamente vantaggiosa con tutti i paesi […] La Repubblica Cecena può entrare in organizzazioni internazionali, sistemi di sicurezza collettiva, formazioni interstatali.
Rispetto alle proposte programmatiche di Dudaev, sottoscritte in un contesto nel quale era essenziale ribadire la non pericolosità della secessione cecena rispetto alla nascente Federazione Russa, la Costituzione sanciva il diritto della Repubblica Cecena a portare avanti una politica estera autonoma e, se necessario, indipendente dalle scelte della Russia. Tale differenza non si allineava soltanto alle prerogative dello Stato indipendente immaginato dal Parlamento, ma anche al progetto politico di Dudaev di allontanare il più possibile dalla Russia non soltanto la Cecenia, ma tutto il Caucaso.
Dudaev credeva fortemente in un Caucaso indipendente, e voleva che l’indipendenza cecena innescasse una reazione a catena tale da costringere Mosca alla trattativa. In questo senso aveva sostenuto con passione il nazionalismo georgiano, ed aveva stretto un’alleanza personale con Zviad Gamsakhurdia, primo leader della Georgia indipendente. Dello stesso avviso, a vario titolo, erano molti altri pensatori politici del Caucaso, che fin dal 1989 avevano impostato una piattaforma politica che portasse avanti l’idea di una Confederazione dei Popoli del Caucaso. Il loro riferimento principale era alla Repubblica della Montagna, istituita nel 1918 all’indomani della Rivoluzione Bolscevica. In un’intervista rilasciata al quotidiano turco Zaman, Dudaev confidò:
“Il mio piano prevede la creazione di un’unione dei paesi del Caucaso diretta contro l’imperialismo russo, il che significa un Caucaso unito. Il nostro obiettivo principale è quello di ottenere l’indipendenza e la liberazione, agendo insieme con le altre repubbliche del Caucaso che sono state oppresse dalla Russia nel corso di trecento anni.”
Tra il 1992 ed il 1994 Dudaev tentò di concretizzare questa ambizione, la quale tuttavia fu sempre frustrata dallo strisciante attrito interetnico che caratterizzava il Cuacaso post – sovietico. In quei due anni, infatti, si consumarono numerosi conflitti politici, talvolta sfociati in vere e proprie guerre, tra molti dei popoli della regione (la Guerra di Secessione dell’Abkhazia, la Guerra del Nagorno – Karabakh in Azerbaijan e la Guerra Osseto – Inguscia, solo per citare i conflitti più caldi). L’unico vero “supporter” della visione di Dudaev, Gamsakhurdia, fu rovesciato da un colpo di Stato alla fine del 1991 e costretto all’esilio proprio in Cecenia. In quel frangente Dudaev mise a disposizione del decaduto presidente georgiano il suo aereo personale, andandolo a recuperare in Armenia ed ospitandolo nella sua abitazione fino al 1993.
Ziad Gamsakhurdia e Dzhokhar Dudaev posano insieme
Naufragato il proposito di costituire un’alleanza informale con Georgia ed Azerbaijan (entrambe, come abbiamo visto, alle prese con sanguinosi conflitti interni) Dudaev si rivolse alle repubbliche autonome del Caucaso Settentrionale (Daghestan, Cabardino – Balcaria, Circassia, Adygea) all’interno delle quali esisteva una forte componente nazionalista che mal tollerava la sudditanza a Mosca. Nel Luglio 1992 il presidente ceceno percorse il Caucaso Settentrionale in lungo e in largo, concludendo il suo ciclo di apparizioni al Congresso Nazionale del Popolo Karachai, al quale promise “tutta l’assistenza necessaria” nella lotta “per la tanto attesa libertà”. Anche il giro propagandistico in Nord Caucaso, comunque, non produsse risultati tangibili. I nazionalisti locali si riunirono effettivamente in un’associazione pancaucasica (La Confederazione dei Popoli della Montagna del Caucaso) ma non riuscirono a tradurre i loro propositi in un’azione politica sufficiente a provocare una secessione delle loro repubbliche dalla Russia. Fu così che anche questo secondo progetto geopolitico di Dudaev finì per dissolversi lentamente.
IL GRAN TOUR DI DUDAEV
Mentre tentava di compattare un fronte pan – caucasico in funzione antirussa, Dudaev cercava sponde anche dai governi occidentali, tradizionalmente antisovietici (e quindi, per estensione, diffidenti verso la Russia) e dai paesi mediorientali, islamici come la Cecenia. Nell’Agosto del 1992 il Presidente ceceno iniziò quindi un “gran tour” di visite internazionali, a cominciare da Kuwait ed Arabia Saudita. I Sovrani di questi due paesi (il re saudita Fahd e l’Emiro kuwaitiano Jaber – Al – Sabah) avevano espresso il loro desidero di incontrare Dudaev, e questi prese la palla al balzo, volando a Riadh e ad Al Kuwait accompagnato dal suo Ministro degli Etseri, Shamsouddin Youssef. La visita fu un successo propagandistico: Dudaev fu accompagnato da Re Fahd a La Mecca, visitò il Santuario della Kaaba e si intrattenne in lunghi colloqui, durante i quali potè interloquire anche con il Presidente della Repubblica Albanese, Sali Berisha, e con il Ministro degli Affari Esteri della Bosnia Herzegovina, Haris Silajdic. Anche in Kuwait Dudaev fu accolto con tutti gli onori: per lui venne organizzato un ricco ricevimento alla presenza di oltre settanta ambasciatori stranieri, durante il quale potè intrattenersi con molti di questi. Il Presidente ceceno abbozzò anche la proposta di un riconoscimento ufficiale da parte dei due paesi del Golfo, ma i due sovrani risposero di non essere pronti a scatenare un “affaire” internazionale che danneggiasse i loro rapporti con la Russia, e rimandarono la questione ad un “non lontano futuro”.
Dzhokhar Dudaev stringe la mano agli ambasciatori stranieri in occasione del Gala organizzato dall’Emiro del Kuwait nell’Agosto del 1992
Dal Kuwait il Capo dello Stato ceceno si diresse in Turchia, e da qui visitò un altro stato “de facto”, la Repubblica di Cipro del Nord. Da qui si diresse in Siria, poi in Giordania e infine, raccolto l’invito del Ministro degli Esteri Bosniaco, conosciuto in Arabia Saudita poche settimane prima, giunse a Sarajevo.
Qui Dudaev rischiò seriamente di essere arrestato. Atterrato all’aereoporto cittadino su un aereo carico di funzionari armati, il Presidente venne trattenuto dai Caschi Blu dell’ONU che presidiavano la struttura, i quali non avevano ricevuto alcuna comunicazione dal governo russo e sospettavano che il presidente di quella repubblica non riconosciuta da nessuno stesse in realtà contrabbandando armi illegalmente. Secondo quanto riportato da alcuni funzionari russi anni più tardi, fu una telefonata dello stesso presidente russo, Boris Eltsin, a risolvere l’impasse ed a permettere a Dudaev di completare in sicurezza la sua visita a Sarajevo. Rientrato in patria, il leader separatista fece tappa in Azerbaijian, dove da pochi mesi si era insediato il presidente Abulfaz Elchibey. L’accoglienza nel paese azero, da sempre vicino alla Cecenia per ragioni principalmente religiose, fu ottima e calorosa. Elchibey si spese per cercare di costruire una rete di contatti con la nascenti forze armate, oltre che perorare la causa pancaucasica di Dudaev presso il nuovo presidente georgiano succeduto a Gamsakhurdia, Eduard Shevardnadze. I rapporti amichevoli tra Dudaev ed Elchibey sarebbero stati cruciali per garantire supporto economico e militare ai secessionisti ceceni durante l’invasione russa del 1994 – 1996.
Eduard Khachukayev, Sir Gerrard Neale, Berkan Yashar, Dzhokhar Dudayev, MP Den Dover, Shamsuddin Yousef sulla terrazza della House of Commons a Londra, ottobre 1992
Nell’Ottobre del 1992 Dudaev decise di intraprendere un secondo giro di visite, stavolta in Occidente. A metà del mese giunse negli Stati Uniti accompagnato dal Vicepresidente del Gabinetto dei Ministri Mayrbek Mugadaev, e dal Sindaco di Grozny Bislan Gantamirov, riuscendo a tenere colloqui con l’allora candidato democratico alla Presidenza, Bill Clinton, e con il Segretario delle Nazioni Unite, Boutros Ghali. Al rientro dagli USA la delegazione cecena si fermò a Londra, dove intrattenne colloqui con alcuni deputati della Camera dei Comuni. Anche questo mini – tour anglosassone, pur fruttando a Dudaev un discreto successo mediatico, non produsse il tanto sperato riconoscimento della Cecenia da parte delle potenze occidentali. Il paese rimase una repubblica “de facto” priva di riconoscimento internazionale, politicamente isolata e in costante rischio di essere dissolta d’imperio dalla Russia.
La storia di Salman Baturovich Raduev, per gli amici “Titanic” è quella di un vero e proprio “rivoluzionario intransigente”. Personaggio di spicco nel regime di Dudaev, comandante di campo tra i più “illustri” (tanto da guadagnarsi il titolo di “Terrorista Numero 2” dopo Shamil Basayev) eppure incapace di capitalizzare la sua fama e il suo potere, rimanendo ai margini del sistema politico della Repubblica Cecena di Ickeria, per poi finire i suoi giorni in una prigione di massima sicurezza subito dopo l’inizio della Seconda Guerra Cecena.
Salman Raduev (al centro) ad un raduno dei suoi miliziani alla fine della Prima Guerra Cecena
IL GIOVANE SALMAN
Salman Raduev nacque il 12 Febbraio 1967 a Gudermes da una famiglia di modesta posizione sociale. Dopo essersi diplomato alla scuola locale ed aver lavorato in una ditta di costruzioni, fu richiamato alle armi nell’esercito sovietico ed inviato in Bielorussia, dove prestò servizio in un reparto di artiglieria missilistica. Fu nell’esercito che Raduev si fece riconoscere per la prima volta: dopo aver aderito al Partito Comunista, nel 1987, divenne vice segretario del Komsomol (l’organizzazione giovanile del Partito) presso la sua unità. Una volta rientrato dal servizio militare, Salman entrò un una scuola di saldatura professionale, ma non abbandonò l’impegno politico, continuando a prestare la sua opera nell’organizzazione delle attività del movimento giovanile, in particolare nelle cosiddette “brigate di costruzione studentesca” (collettivi di lavoro che partecipavano alla realizzazione dei grandi progetti edilizi pubblici). In quella sede giunse ad occupare il ruolo di segretario (cioè di capo della sezione locale). Il suo impegno gli valse, nel Novembre del 1988, la nomina a istruttore di dipartimento nel Comitato Repubblicano del Komsomol, diventando a tutti gli effetti uno dei principali esponenti dell’ala giovanile del PCUS. Con l’avvento della Perestrojka, al pari di molti altri cittadini sovietici, Raduev tentò la strada dell’imprenditoria privata. Nel 1990 aveva ventitrè anni, e per quanto dichiarasse di essere ad un passo dall’ottenimento di una laurea in economia, nella realtà aveva poche competenze che potessero fruttargli denaro. La sua posizione di piccolo funzionario politico gli permise tuttavia di avere accesso ai nulla osta necessari per avviare una piccola attività di produzione e commercio di componenti per l’industria leggera, il “Centro delle Associazioni per il Lavoro Volontario”.
PREFETTO DI GUDERMES
L’avvento del Generale Dudaev fu per Raduev un evento epocale. Conquistato dal carisma del leader rivoluzionario, il giovane funzionario del Komsomol si mise a disposizione del Congresso Nazionale del Popolo Ceceno, l’organizzazione favorevole alla rimozione di Doku Zavgaev dalla guida della Repubblica Ceceno – Inguscia e all’istituzione di uno Stato sovrano e democratico. Essendo uno dei più attivi militanti del Congresso presso Gudermes, Raduev riuscì a farsi notare da Dudaev il quale, dopo gli eventi della Rivoluzione Cecena, decise di appuntarlo “Prefetto” della città nel Giugno del 1992. La Costituzione varata appena tre mesi prima non istituiva una simile carica, ma demandava alla popolazione locale il diritto di eleggere propri rappresentanti. La nomina di Raduev da parte di Dudaev fu quindi vista da molti cittadini come un’aperta violazione della legge. Ed in effetti lo era, anche se inserita in un più ampio quadro di conflittualità tra il Presidente della Repubblica ed il Parlamento (del quale abbiamo ampiamente parlato nel libro “Libertà o Morte!” Storia della Repubblica Cecena di Ichkeria, acquistabile QUI).
Raduev si trovò, in sostanza, ad assumere un incarico politico non previsto dalla Costituzione e sovrapposto all’amministrazione locale. L’unico modo per poter prevalere fu quello di reclutare un nutrito reparto armato ed inquadrarlo nell’organico dell’esercito regolare, in modo da poter “istituzionalizzare” la sua posizione. Nacquero quindi i “Berretti Presidenziali”, una formazione paramilitare all’ombra della quale operavano veri e propri elementi criminali dediti all’estorsione, al racket e al saccheggio dei treni. La loro presenza divenne talmente fastidiosa che nell’Estate del 1994 la popolazione chiese a gran voce la sua destituzione a Dudaev, il quale dovette accordarla, richiamando Raduev a Grozny. A quel momento i rapporti tra i due erano ancora più consolidati, avendo Raduev sposato nel 1993 una delle nipoti del Presidente, Elizaveta (detta Lydia). A livello Mediatico l’ormai ex – Prefetto di Gudermes aveva iniziato a farsi notare quando, nel Settembre del 1992, l’esercito russo aveva pericolosamente avanzato alcuni reparti al confine tra la Cecenia e il Daghestan. In quell’occasione una folla di daghestani arrabbiati, supportati dai loro dirimpettai ceceni aveva impedito che il reparto federale penetrasse in Cecenia, provocando una crisi politica. Raduev si era posto alla guida della delegazione che aveva parlamentato coi militari russi, guadagnandosi le prime pagine dei giornali.
COMANDANTE DI CAMPO
Salman Raduev rilascia un’intervista
La vera svolta nella sua vita Raduev la ebbe con lo scoppio della Prima Guerra Cecena. Nominato da Dudaev Comandante in Capo del Fronte Nord – Orientale (con il centro strategico nella città di Gudermes) il giovane separatista si impegno dapprima nella difesa del capoluogo, poi nel danneggiamento della linea ferroviaria, infine si ritirò verso Vedeno con un piccolo gruppo di fedelissimi, mettendosi agli ordini di Shamil Basayev. La sua prima azione in grande stile fu il “Raid su Gudermes” (14 – 23 Dicembre 1995). Lo scopo dell’operazione era occupare simbolicamente la seconda città del paese proprio mentre il governo filorusso di occupazione, alla testa del quale era da poco tornato Doku Zavgaev, svolgeva le prime elezioni popolari volte a delegittimare il governo separatista di Dudaev. Dopo essersi radunati a sud – est ed aver inviato un’avanguardia nel centro abitato, il 13 dicembre le unità di Raduev entrarono in azione: una quarantina di miliziani occuparono l’ospedale, barricandovisi dentro, mentre altre unità assediavano la stazione bloccando circa centocinquanta tra poliziotti OMON e militari, ed altri circondavano il Quartier Generale cittadino. Alle prime luci dell’alba i miliziani iniziarono a sparare contro il comando russo, che immediatamente chiamò i rinforzi da fuori città. Raduev aveva previsto la mossa, e le unità giunte in soccorso finirono in un’imboscata. Morirono 18 soldati federali, ed altri 28 rimasero feriti. La colonna di soccorso dovette fare dietrofront lasciando sul campo tre mezzi corazzati ed un veicolo da trasporto. La guarnigione cittadina, bloccata nel Quartier Generale ed alla stazione ferroviaria, rimase senza soccorsi. Nel frattempo i miliziani facevano strage dei funzionari del governo collaborazionista, mentre i poliziotti appena arruolati dal governo filorusso passavano in massa dalla parte dei separatisti. L’alto comando inviò allora rinforzi supplementari supportati da artiglieria ed elicotteri, che iniziarono un fitto bombardamento della città, tentando di scacciare i ribelli e costringerli a ritirarsi fuori dal centro abitato.
Combattimenti durante il raid separatista su Gudermes del Dicembre 1995
Si trattò di un violento bombardamento, portato contro un’intera città senza un preciso obiettivo. Centinaia di proiettili caddero indistintamente sui quartieri residenziali, mietendo decine di vittime civili. Il 18, tuttavia, i comandi federali si resero conto che anziché ritirarsi, i guerriglieri continuavano ad affluire in città. Questo costrinse i russi ad intensificare il bombardamento, attaccando con largo dispendio di artiglieria ed aereonautica. Il 23 dicembre, finalmente, Raduev e la sua milizia abbandonarono Gudermes, lasciando a terra circa centocinquanta tra morti e feriti. I russi lasciarono sul campo 70 morti, 150 feriti, quaranta veicoli ed un elicottero. I bombardamenti e gli scontri a fuoco provocarono la morte di centinaia di civili, e la distruzione di gran parte del centro abitato. La battaglia di Gudermes dimostrò alla Russia ed al mondo che l’esercito separatista non soltanto non era finito, ma anzi si era rafforzato al punto da poter organizzare azioni di vasta portata, e di poter costringere i russi a combattere battaglie decisive nel cuore del paese.
KIZLYAR
Se il Raid su Gudermes fu il primo “palcoscenico” militare di Raduev, l’azione che lo fece ascendere all’Olimpo dei comandanti di campo separatisti fu il successivo Raid su Kizlyar. La cittadina daghestana ospitava una base militare federale dalla quale, un anno prima, si era mosso uno dei contingenti di invasione dell’esercito russo. L’obiettivo di Raduev era quello di seguire l’esempio tracciato da Shamil Basayev nel Giugno del 1995, quando al comando di duecento miliziani era riuscito ad occupare la cittadina, occupare l’ospedale locale e tenere in ostaggio più di mille civili, costringendo il governo russo a negoziare una tregua. Il 9 Gennaio 1996 i reparto d’assalto reclutato dal giovane ex prefetto di Gudermes si mise in moto. Oltre a lui erano al comando Khunkharpasha Israpilov, militare dell’ex esercito sovietico veterano dell’Abkhazia e del Nagorno – Karabakh, nominato da poco comandante in capo del settore sudorientale e Turpal Ali Atgeriev, anch’egli veterano dell’Abkhazia e uomo di fiducia di Basayev. Giunto di prima mattina al limitare della città il commando composto da circa duecentocinquanta miliziani attaccò l’aeroporto, la stazione ferroviaria e le caserme della Milizia del Ministero dell’Interno. Lo scopo ufficiale del raid era la distruzione di uno stormo di elicotteri militari che stazionavano all’aeroporto, due dei quali vennero effettivamente danneggiati insieme ad un velivolo da trasporto. Il gruppo più consistente, tuttavia si diresse all’ospedale cittadino, dove prese in ostaggio 314 pazienti, 51 membri dello staff medico e centinaia di abitanti rastrellati in giro per la città. A metà mattinata nell’ospedale erano tenute in ostaggio circa duemila persone. 34 civili e due militari russi erano morti.
Salman Raduev parla al telefono durante la crisi degli ostaggi a Kizlyar
Nel pomeriggio giunsero sul luogo dell’attacco il Presidente del Parlamento del Daghestan, Magomedov, ed il Primo Ministro, Mirzobekov. Raduev non fece richieste di natura politica, ma chiese 11 bus e 2 camion Kamaz dove sistemare i suoi uomini ed un corposo quantitativo di ostaggi da portare con sé per poi rilasciarli al confine daghestano. Mirzobekov acconsentì a soddisfare le sue richieste, e Raduev rilasciò la maggior parte degli ostaggi. Il mattino seguente i ceceni salirono sul convoglio portando con loro 128 civili e sette ministri del governo daghestano, che si offrirono volontari per accompagnare i sequestratori. Raduev promise di rilasciarli tutti una volta raggiunto il villaggio di Pervomayskoje, a poche centinaia di metri dal confine. Raggiunta la destinazione, tuttavia, Raduev cambiò le sue disposizioni ed ordinò che gli ostaggi rimanessero sugli autobus. Durante il viaggio, infatti, il comportamento delle unità federali aveva reso chiaro che i russi stessero programmando di distruggere il distaccamento separatista non appena passato il confine. Era chiaro, in questo senso, il perché le trattative erano state portate avanti dalle autorità daghestane: una volta superato il confine, le assicurazioni ufficiali di Mirzobekov non avrebbero avuto più valore, essendo la Cecenia sotto l’autorità diretta del governo russo, il quale non solo non aveva partecipato ai negoziati, ma era intenzionato ad infliggere una punizione esemplare i sequestratori. Subito dopo Pervomaiskoje iniziava un rettilineo di sei chilometri, chiuso a nord dal corso del Terek.
LA BATTAGLIA DI PERVOMAISKOYE
Il campo di battaglia al limitare del centro abitato di Pervomaiskoje
Secondo i piani russi due cacciabombardieri avrebbero colpito la colonna, e quando questa si fosse arrestata due compagnie della 7a Divisione Paracadutisti, appoggiate da elicotteri da combattimento avrebbero assaltato i bus, eliminando o catturando i terroristi. I reparti federali tuttavia non vennero informati tempestivamente che Raduev non aveva rilasciato gli ostaggi. Così non appena il convoglio ceceno attraversò il confine i comandi federali, che non potevano più interrompere l’operazione, ordinarono ai paracadutisti di attaccare il convoglio senza attendere l’intervento dei cacciabombardieri. I paracadutisti però non avevano ancora avuto il tempo di occupare le posizioni stabilite, cosicché quando gli elicotteri in loro copertura cominciarono a mitragliare il convoglio non c’era ancora alcun reparto in grado di effettuare l’attacco. Raduev ordinò immediatamente un dietrofront e si barricò con i suoi uomini a Pervomaiskoje. La piccola guarnigione federale di stanza nel villaggio non oppose alcuna resistenza quando i terroristi penetrarono in città, ma anzi si arrese e consegnò le armi, venendo a sua volta presa in ostaggio. Mentre gli abitanti del villaggio fuggivano in tutte le direzioni, unità OMON e forze speciali russe bloccavano la cittadina, chiudendo in una sacca anche tutti i civili che non erano riusciti a mettersi in salvo. Se l’azione dei federali fosse stata immediata, probabilmente i ribelli ceceni non avrebbero avuto modo di organizzarsi. Ma il comando federale impiegò altre ventiquattr’ore per dispiegare unità sufficienti ad effettuare un assalto militare, dando a Raduev ed ai suoi il tempo di fortificarlo. La mattina del 10 gennaio i rappresentanti del governo daghestano giunsero nuovamente al cospetto di Raduev, chiedendogli di rilasciare gli ostaggi come promesso. Il comandante ceceno replicò che dati i cambiamenti occorsi nel frattempo avrebbe acconsentito a rilasciare soltanto donne e bambini, mentre avrebbe portato con sé gli uomini fino a quando il suo commando non fosse stato in salvo in Cecenia. Inoltre pretese che autorità russe autorizzate da Chernomyrdin partecipassero ai negoziati. Per tutta risposta le autorità federali inviarono un ultimatum ai ceceni, ordinando il rilascio degli ostaggi entro il 14 gennaio e la fuoriuscita sotto bandiera bianca dei terroristi. Raduev rispose che avrebbe iniziato a giustiziare gli ostaggi se i federali si fossero avvicinati a meno di cento metri dalle sue posizioni. Nel frattempo 2500 militari federali prendevano posizione intorno alla città, armati con 22 carri armati, 54 mezzi blindati e una venticinquina di pezzi d’artiglieria. Il grosso delle formazioni russe venne tuttavia dispiegato ad est di Pervomaiskoje, come ad evitare che i ceceni fuggissero verso il Daghestan, mentre era abbastanza evidente la loro volontà di aprirsi la strada ad ovest verso la Cecenia. In quel settore c’erano i paracadutisti che avevano provato ad entrare in azione il 9 gennaio e qualche altro piccolo reparto scarsamente armato.
L’abitato di Pervomaiskoje dopo la battaglia
Il 15 gennaio, scaduto l’ultimatum, i federali passarono all’attacco. Elicotteri da guerra ed artiglieria spazzarono il villaggio. Dopo circa un’ora la fanteria iniziò ad avanzare. Per una serie di clamorosi errori organizzativi, tuttavia, l’artiglieria riprese a bombardare mentre i fanti avanzavano verso le difese cecene, costringendoli a rientrare frettolosamente nelle posizioni di partenza. Nei giorni seguenti i federali tentarono di conquistare Pervomaiskoje ben ventidue volte, non riuscendo a penetrare le buone difese messe a punto da Raduev. Soltanto il 17 gennaio, dopo che i russi, ritenendo che nessun ostaggio fosse rimasto in vita, avevano iniziato a radere al suolo il villaggio con i lanciamissili Grad, i Ceceni organizzarono una sortita per uscire dalla sacca. Il Generale Maskhadov, comandante delle forze armate separatiste, si mise in azione dall’esterno per supportare l’azione di Raduev: radunato un contingente fuori dalla sacca, provvide a lanciare attacchi alla periferia dell’anello di accerchiamento, distruggendo un reparto della Milizia del Ministero degli Interni a Sovetskoye, mentre Raduev concentrava tutte le sue forze nell’aprirsi un varco oltre le linee nemiche. Solo un piccolo reparto di “martiri” rimase di stanza nel villaggio, con l’obiettivo di ritardarne il più possibile la conquista da parte russa. Il 18 gennaio l’accerchiamento venne rotto, e Raduev poté uscire dalla sacca lasciando sul campo un centinaio di morti. I federali da parte loro ebbero 37 perdite e 148 feriti, oltre a 4 mezzi corazzati e 7 elicotteri. Il villaggio subì distruzioni tali che dopo la guerra fu ricostruito in un’altra ubicazione. Il destino degli ostaggi rimase per sempre poco chiaro: una trentina morirono nei combattimenti, un’ottantina riuscì a salvarsi. Altri ancora, credendo di avere qualche chance in più seguendo Raduev anziché attendere la fine dei bombardamenti fuggirono insieme ai loro sequestratori. Si trattò di un vero e proprio disastro per le autorità russe, reso ancor più colossale dalle assicurazioni che Eltsin aveva fatto alla stampa, nelle quali aveva promesso di consegnare i criminali alla giustizia e di recuperare gli ostaggi.
Miliziani di Raduev su uno dei bus in viaggio verso la Cecenia, di ritorno da Kizlyar
L’ATTENTATO DI MARZO
Il Raid su Klizyar e la sortita da Pervomaiskoje dettero a Raduev notorietà mondiale: il governo russo incorse in un secondo, drammatico fiasco nel tentativo di impedire che la guerra in Cecenia tracimasse oltre i confini della piccola repubblica, e tra i cittadini della federazione il malcontento già diffuso prima dello scoppio delle ostilità si trasformò in una vera e propria ondata di dissenso. Dudaev appuntò sul petto di Raduev i due più importanti premi statali della Repubblica, l’Ordine dell’Onore della Nazione e l’Ordine dell’Eroe della Nazione, e lo nominò Generale di Brigata. Da quel momento l’astro nascente della guerriglia venne inserito, assieme a Dudaev e Basayev, tra i “top” target dei servizi di intelligence russi, con l’obiettivo di eliminarlo ad ogni costo. Sui giornali di tutto il mondo egli divenne il “Terrorista numero 2”. Con la notorietà arrivarono anche le prime invidie ed i primi dissidi tra gli uomini del suo stesso campo: i suoi metodi autoritari ed il pugno di ferro con il quale comandava la sue milizie inimicarono a Raduev più di un comandante di campo, e quando l’FSB iniziò a cercare sicari per farlo fuori furono parecchie le mani che si alzarono per svolgere lo sporco lavoro. Un primo tentativo di eliminare il Generale di Brigata fu svolto poco dopo il Raid su Klizyar, quando un potente ordigno esplosivo fece saltare in aria la sua abitazione di famiglia, a Gudermes. Il fato volle che Raduev non fosse in casa, cosicché l’attentato non ebbe buon esito, anche se nell’esplosione rimasero uccisi alcuni dei suoi familiari. Il 3 Marzo 1996 una nuova banda di sicari (secondo i media collegata ai familiari delle vittime di Pervomaiskoje) tentò di ucciderlo e, in un primo momento, sembrò riuscirci: mentre viaggiava da Starye Atagi ad Urus – Martan, il “Terrorista numero 2” fu colpito da un proiettile di cecchino in pieno volto. Il colpo fu talmente violento che buona parte della sua faccia esplose letteralmente, ma il proiettile non trapassò il cranio, lasciandolo gravemente ferito ma pur sempre vivo.
I suoi miliziani lo trasportarono d’urgenza ad Alkhan Khala, dove operava il Dottor Khasan Baiev, chirurgo presso l’ospedale locale. Baiev rattoppò il cranio di Raduev come potè, salvandogli la vita (il racconto dell’evento è trascritto nel suo libro di memorie “A surgeon under fire” acquistabile QUI) dopodichè il Generale di Brigata venne fatto espatriare dapprima in Azerbaijan, poi in Turchia, infine di Germania, dove avrebbe affrontato una lunga serie di interventi maxillo – facciali ed estetici per ricostruire il suo volto sfigurato. Nel frattempo sui media russi circolava la voce che fosse morto. La notizia fu presa talmente sul serio che il 7 Marzo 63 deputati del Parlamento Estone firmarono un documento indirizzato a Dudaev nel quale esprimevano “profonda simpatia per il popolo ceceno” e cordoglio per “il mostruoso assassinio di un eccezionale combattente per la libertà”. Raduev rimase in silenzio per tre mesi, e lo stesso fecero i separatisti. Anche perché nel frattempo un altro illustre “top target”, il Presidente Dudaev, era stato ucciso dall’intelligence federale (il racconto dell’episodio è reperibile nel libro “Libertà o Morte! Storia della Repubblica Cecena di Ichkeria” Acquistabile QUI). Fu soltanto nel Giugno del 1996 che Raduev tornò a farsi vivo (nel senso letterale del termine) tenendo una conferenza stampa nel pieno centro di Grozny. La città era teoricamente occupata dall’esercito federale, ma il morale delle forze di Mosca era a terra e in periferia scorrazzavano bande di separatisti intente a preparare un nuovo assalto alla città. Raduev si presentò in divisa da ufficiale, il volto nascosto da un cappello a tesa, un paio di occhiali da sole molto larghi ed una folta barba, e dichiarò che l’attentato alla sua vita era stato organizzato dai servizi speciali russi, e di essersi sottoposto ad una lunga serie di interventi di ricostruzione facciale durante la quale una parte del suo cranio era stata sostituita da una placca di titanio. La nuova protesi metallica gli valse da quel giorno l’appellativo informale di “Titanic”.
Il volto sfigurato di Raduev nascosto dietro una folta barba rossa ed un paio di occhiali scuri
IL DOPOGUERRA
Rimessosi al comando delle sue milizie, ora inquadrate nell’altisonante “Esercito di Dzhokhar Dudaev”, partecipò alla vittoriosa Battaglia per Grozny dell’Agosto 1996, a seguito della quale il governo russo dovette accettare di ritirarsi e di riconoscere l’indipendenza de facto della Repubblica Cecena di Ichkeria. I separatisti, ora guidati dal Presidente facente funzioni Zelimkhan Yandarbiev rimasero padroni del campo, ma in un paese completamente distrutto dominato dai comandanti di campo e dalle loro milizie. Anche Raduev mantenne in armi i suoi uomini, dichiarando che la guerra non fosse ancora finita, e che nessuna pace sarebbe stata possibile prima della completa accettazione da parte della Russia dell’indipendenza cecena. Nel frattempo il testimone della leadership stava passando nelle mani del Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, Aslan Maskhadov, di orientamento moderato e favorevole alla continuazione dei negoziati di compromesso con la Federazione Russa.
Raduev, da radicale quale era e quale era sempre stato condannò le iniziative di Maskhadov, bollandole come “tradimento” e tentò di raccogliere il dissenso dei veterani di guerra, che adesso si trovavano senza lavoro e senza risorse, e vedevano negli ammiccamenti di Maskhadov la vanificazione dei loro sforzi e delle loro sofferenze. Raduev amplificava la loro frustrazione, giungendo a dichiarare che Dudaev fosse ancora vivo, e che attendesse il ritorno al potere dei “veri figli di Ichkeria”. Durante i raduni pubblici dei veterani di guerra esortò i combattenti a riprendere le ostilità contro la Russia, e dichiarò che lui stesso stava organizzando una serie di attentati coordinati per l’anniversario della morte del Presidente Dudaev. Giunse perfino a minacciare di scatenare una “guerra chimica” contro la Russia, e si assunse la paternità di tutti gli attentati, i disordini e perfino gli incidenti che occorsero in Russia tra il 1997 ed il 1998. In realtà soltanto due di questi (entrambi attentati dinamitardi occorsi nelle cittadine di Armavil e Pytiagorsk) furono direttamente collegati a lui, e l’esosità delle sue dichiarazioni lo portarono ben presto a perdere di ogni credibilità sia nei confronti dei suoi “colleghi” comandanti di campo, sia nei confronti della società civile. Al suo seguito rimasero comunque molti veterani di guerra, e la sia figura continuò a riscuotere la simpatia degli strati più bassi della popolazione e delle vedove di guerra, le quali vedevano nella politica di appeasement di Maskhadov un insulto alla morte dei loro cari. Posta la sua base operativa nella città natale di Gudermes, tornò a spadroneggiare avvalendosi di elementi criminali operanti sotto l’ombrello del reducismo di guerra: l’Esercito di Dzhokhar Dudaev, al pari di molte milizie armate, si riciclò ben presto in una rete di bande dedite al saccheggio dei prodotti petroliferi, alla ricettazione ed addirittura al sequestro di persona, pratica che divenne endemica nella Cecenia postbellica. Il radicalismo politico ed il fiancheggiamento alle attività criminali gli crearono non pochi nemici, tanto che nel solo 1997 Raduev scampò a ben 3 attentati alla sua vita, riportando sovente gravi ferite.
Salman Raduev in divisa da ufficiale, con indosso L’Onore della Nazione (sul suo petto alla sua destra)
RADUEV, L’IRRIDUCIBILE
Nell’estate del 1997 il nuovo Presidente Maskhadov tentò di disarmare le numerose milizie ancora in armi in Cecenia, in parte trasformandole in unità dell’esercito regolare, in parte ordinandone lo scioglimento ed il disarmo. Riguardo la milizia di Raduev, Maskhadov giudicò troppo pericolosa la sua esistenza, e ne ordinò lo scioglimento. Il Generale di Brigata rispose trasformandola in una associazione politica chiamata “La Via di Johar”. Il nuovo partito si collocava nel network di organizzazioni, riviste e partiti “Confederazione Caucasica”, i cui esponenti erano favorevoli alla “esportazione della rivoluzione cecena” in tutto il Caucaso Settentrionale, al fine di estendere l’insurrezione antirussa a tutta la regione e favorire la nascita di un unico Stato confederato dal Mar Nero al Mar Caspio.
La retorica incendiaria di Raduev, il rifiuto di riconoscere la pace siglata da Maskhadov con Eltsin il 12 Maggio 1997 (circostanza che gli valse un deferimento alla Corte della Sharia) e l’istigazione al compiere nuove azioni terroristiche contro i cittadini della Federazione Russa portarono il Generale di Brigata in rotta di collisione con il governo, che infine si risolse ad oscurare l’emittente del suo partito, sequestrando le attrezzature televisive e chiudendole nell’edificio della TV di Stato a Grozny. La cosa non andò giù a Raduev, il quale decise di occupare l’edificio e recuperare l’attrezzatura. Il 21 giugno 1998 le milizie di Raduev, agli ordini del Colonnello Vakha Jafarov, dudaevita di vecchia data, tentarono di assaltare la TV di Stato. nell’edificio si trovava il capo del Servizio di Sicurezza Nazionale governativo, Khultygov, il quale stava portando avanti una campagna molto aggressiva verso le milizie illegali, i wahabiti ed il crimine organizzato, cui appartenevano molti sodali di Raduev. Nello scontro Khultygov rimase ucciso insieme a Jafarov e ad altri due militanti radueviti.
Salman Raduev tiene un comizio di fronte ai veterani di guerra
Il giorno seguente Maskhadov proclamò lo Stato di Emergenza nella Repubblica, imponendo il coprifuoco a Grozny. Raduev si dissociò pubblicamente dall’azione di Jafarov, ma Maskhadov non intese ragioni, si assunse direttamente le deleghe per il Servizio di Sicurezza Nazionale e per tutti gli altri dipartimenti della sicurezza dello Stato, nonché per il Comitato Statale per le trasmissioni televisive e radiofoniche, prendendo così il controllo diretto di tutte le strutture armate dello Stato e stabilendo la sua autorità sulla gestione delle comunicazioni tv e radio pubbliche. Nel suo libro di memorie, Ilyas Akhmadov racconta l’evento partendo dalle premesse dell’assalto fino alla sua partecipazione personale, insieme a Basayev, alla fine di quell’evento. È interessante per capire lo stato di totale caos nel quale viveva la Cecenia in quei giorni, e della troppo bassa qualità umana delle persone che intendevano rappresentarla:
“Raduev aveva la sua stazione televisiva, Marsho, e la usava per diffondere il suo messaggio. Era un oratore di talento e i suoi discorsi erano appassionati e lunghi. Per lo più si lamentava, e non riuscivo mai a capire esattamente cosa volesse. Oltre a lanciare invettive contro il governo, non ha offerto alcun programma politico positivo. Aveva alcuni temi dominanti: il primo era come tutto fosse terribile (almeno questo era vero, e tutti lo sapevano). Il secondo era che con Maskhadov avevamo fatto troppi compromessi, che non dovevamo assolutamente avere relazioni con la Russia e che non avremmo dovuto riconoscere nessuno degli accordi che avevamo stipulato col governo di Eltsin. L’unica proposta positiva, se così si può chiamare, era un progetto amorfo sull’unità del Caucaso, una Confederazione delle nazioni del Caucaso. […] Raduev aveva gente fuori per strada nel centro della città […] che manifestò contro il governo per quasi un anno. […] Le persone che si radunavano erano i segmenti più poveri e disperati della popolazione, comprese le vedove di guerra ed altri che erano profondamente delusi dalle loro vite. C’erano personaggi strani tra loro, come l’esotica figura religiosa Dati, che a me sembrava uno sciamano, avvolto in talismani e amuleti e pronunciando incantesimi. […] Sotto la sua guida i manifestanti iniziarono a costruire una torre d’argilla, un bizzarro memoriale agli eroi della guerra santa. Era chiamato “Arco di Gazotan”, la torre in onore della Gazawat. […] Il governo aveva ripetuto molte volte che la manifestazione non era autorizzata, ma non aveva preso nessuna misura per scioglierla. Nel giugno del 1998 Maskhadov si stufò dei raduni e chiese ad uno dei suoi comandanti, Lecha Khultygov, Presidente del Servizio di Sicurezza Nazionale, di risolvere il problema. […] Khultygov ha preso i suoi uomini, ha distrutto la torre ed ha cacciato i manifestanti fuori dalla piazza. […] Quindi Khultygov andò alla stazione televisiva di Raduev, Marsho, espropriando tutte le attrezzature e spegnendo la stazione. […] Il 21 Giugno 1998, un giorno o due dopo […] gli uomini di Raduev hanno sequestrato la stazione televisiva del governo […]. Qualcun deve aver chiamato Khultygov, che non ha perso tempo a raggiungere la stazione televisiva con i suoi uomini. Hanno fatto irruzione, e secondo i testimoni, Khultygov ha urlato: “Siete tutti in arresto, faccia a terra!”[…] Jafarov [Il Capo di Stato Maggiore di Raduev, ndr] sparò ed uccise Khultygov. Poi una delle guardie di Khultigov sparò ed uccise Jafarov. E infine, una delle guardie di Jafarov sparò alla guardia di Khultygov. […] Era surreale, andare da una stanza all’altra, e ovunque c’erano combattenti con le armi in pugno. In un corridoio ho visto persone in lutto che iniziavano a cantare e ad esibirsi nello Zykr, la danza circolare cecena. […] Nello studio c’erano Raduev, alcuni dei suoi e Vakha Arsanov. […]Raduev era sconvolto, urlava che il suo capo di stato maggiore era stato ucciso e cercava di raccontare la storia dall’inizio. Arsanov stava cercando di calmarlo, dicendo che questo problema doveva essere risolto in tribunale. […] Ma Shamil [Basayev, ndr] non permise a Raduev di cogliere l’occasione per incendiare ulteriormente la situazione. Interruppe Raduev duramente, dicendo: “Tutto questo deve essere deciso in tribunale. Se ci provi qui ed ora, provocherai un macello e tutte le nostre vite saranno sulla tua coscienza. Hai sequestrato la stazione televisiva, che è un crimine e questo andrà alla Corte della Sharia. Quello che stai facendo in questo momento costituisce un tentativo di colpo di stato. Devi condurre i tuoi uomini via da qui immediatamente. […].” Raduev […] ha detto: “Sono disposto ad andare al tribunale della Sharia, ma dichiaro che la faida per Jafarov è su di me! […] Raduev radunò i suoi uomini intorno a lui. “Stiamo partendo, ma questo non significa che i problemi rimarranno irrisolti. La vendetta del sangue per il mio capo di stato maggiore, Vakha Jafarov, è inziata. Siamo venuti alla stazione solo per riavere la nostra apparecchiatura ed andremo alla Corte della Sharia per risolvere questo problema.”
Il racconto è lungo, e di per sé non aggiunge niente. Ma ritaglia uno scorcio chiaro di quale fosse la drammatica situazione di un popolo ostaggio di personaggi come Raduev, il quale in un mondo normale sarebbe stato relegato ai margini della società, e che invece nella Cecenia del 1997 si poteva permettere il lusso di guidare una milizia armata fin nel cuore della capitale del suo Stato, occupare la stazione televisiva pubblica, eliminare il comandante in capo di un’agenzia di sicurezza nazionale e ritirarsi impunito, circondato dai suoi uomini armati, minacciando una faida di sangue.
FUORI DAI GIOCHI
L’Assalto alla TV di Stato fu interpretato dalle autorità governative come un tentativo di colpo di Stato, e come tale sottoposto al giudizio del tribunale allora in vigore in Cecenia, la Corte della Sharia. Questa lo riconobbe colpevole, lo privò di tutti i titoli pubblici e dei premi statali conferitigli a seguito del Raid di Klizyar e gli comminò una condanna a 4 anni di reclusione, ma Raduev non passò in carcere neanche un giorno: forte del supporto dei suoi seguaci (molti dei quali ancora armati) e dell’amicizia di Basayev (il quale lo protesse adducendo alle sue precarie condizioni di salute) Raduev riuscì ad evitare l’arresto, per poi sparire dalla circolazione. Secondo alcune fonti si ritirò in Pakistan, dove il suo principale protettore politico, l’ex Presidente Yandarbiev, aveva intessuto una buona rete di contatti. Certamente non ebbe più un peso effettivo sulla vita politica della Repubblica.
Quando, nell’Agosto del 1999, le forze leali a Basayev ed a Khattab lanciarono un’offensiva nei distretti montani del Daghestan, nel tentativo di istigare un’insurrezione islamica nella vicina repubblica, sembrò che i propositi da sempre sostenuti da Raduev, cioè quelli di riprendere la guerra fino ad una completa resa della Russia, si stessero avverando. Egli, tuttavia, rimase in ombra, non prese parte all’azione e scomparve dalla scena pubblica, riemergendo soltanto quando, a seguito della sconfitta degli islamisti, l’esercito federale penetrò nuovamente in Cecenia, dando il via alla seconda invasione del paese. Quando fu chiaro che la Russia, ora guidata dall’energico Primo Ministro Vladimir Putin, non si sarebbe accontentata di una fugace “spedizione punitiva”, Raduev fece una nuova apparizione pubblica, proponendo un piano di pace secondo il quale la Cecenia sarebbe stata divisa in una regione settentrionale, annessa al Territorio russo di Stavropol e sottoposta al governo federale, ed una regione meridionale indipendente sotto il governo della ChRI. Le sue proposte caddero nel vuoto, e furono in ogni caso superate dallo scoppio delle ostilità.
Con l’inizio delle ostilità in territorio ceceno Raduev radunò i suoi uomini e ricostituì la sua formazione armata, la organizzò in piccole bande da 10/15 uomini ciascuna e tentò di portare avanti una campagna di guerriglia partigiana nel nordest del paese. Tuttavia la caduta di Gudermes nelle mani dei federali a seguito della resa di Akhmat Kadyrov e dei fratelli Yamadaev (per approfondire la questione leggi “Libertà o Morte! Storia della Repubblica Cecena di Ichkeria” Acquistabile QUI) lasciarono il comandante di campo privo degli appoggi logistici necessari a continuare un’efficace resistenza. Da quel momento la sia formazione armata iniziò a disintegrarsi. Molti dei suoi uomini morirono negli scontri a fuoco con le preponderanti forze federali, altri si arresero o tornarono alle loro case senza combattere. Raduev, con un pugno di seguaci si nascose nel villaggio di Oyskhara, da dove tentò di negoziare una resa per se’ e per i suoi uomini, ma il 12 Marzo venne individuato grazie alle delazioni di alcuni abitanti del villaggio e catturato.
Raduev ricoverato in ospedale dopo uno degli attentati ai quali scampò nel 1997. Pur riportando numerose ferite ed ustioni, il Generale di Brigata riuscì sempre a sfuggire alla morte.
IL PROCESSO
La prima reazione dei russi alla notizia che Raduev era stato arrestato fu poco convinta. Sovente i comandi militari avevano diffuso voci riguardo all’eliminazione o all’arresto di questo o quel comandante di campo, finendo per ritrattare pochi giorni dopo. Anche in questo caso le immagini che la stampa diffuse di Raduev, magrissimo, rasato e tremolante, furono accolte con diffidenza dall’opinione pubblica. Fu soltanto quando i suoi familiari dichiararono di aver nominato i suoi avvocati difensori che la notizia fu ritenuta attendibile e confermata. Il comandante dell’ “Esercito di Dudaev” fu trasferito alla prigione di Makhachkala, in Dagestan, dove sostenne l’esame psichiatrico che lo riconobbe sano di mente, dopodichè, dal 15 Novembre 2001 iniziarono le udienze per il suo processo. Raduev fu accusato di terrorismo, rapimento e presa di ostaggi, omicidio con aggravante della crudeltà, organizzazione di un gruppo armato illegale e banditismo. Insieme a lui furono processati l’ex numero due del governo Maskhadov, Turpal Ali Atgeriev, Aslanbek Alkhazurov e Khusein Gaisumov, tutti partecipanti al Raid di Klizyar ed alla successiva Battaglia di Pervomaiskoje.
Le udienze si svolsero in due aule separate, comunicanti tra loto tramite un collegamento in videoconferenza: in una di queste si trovavano l’accusa, la difesa e gli imputati, nell’altra le vittime, i testimoni e la stampa. Si trattò di un processo pubblico di dimensioni enormi: sul banco dei testimoni sfilarono un centinaio di persone, ed altre tremila furono citati dall’accusa, pur senza presentarsi. Regista del processo fu il Procuratore Generale della Federazione Russa, Vladimir Ustinov, a rimarcare la centralità del procedimento nell’azione di “ripristino della legalità” promossa da Putin come fondamento ideologico dell’intervento armato in Cecenia. Per capire l’importanza di una tale scelta, basti ricordare che l’ultima apparizione di un Procuratore Generale in un processo pubblico era stata nel 1960, in occasione del Processo a Gary Powers durante la cosiddetta “Crisi degli U – 2”.
Raduev rilascia un’intervista in carcere
Raduev non rinnegò le sue azioni, ma le descrisse come parte dei suoi “doveri istituzionali” in quanto Prefetto di Gudermes e Generale di Brigata: “Ho lavorato come prefetto del Distretto di Gudermes, e questa posizione non prevede la possibilità di creare bande”, osservò. “Queste, casomai, sono state istituite da Dudaev.” Riguardo alla costituzione di queste formazioni armate, poi, l’imputato osservò come questa fosse stata esplicitamente incoraggiata dalla “Direttiva 92” con la quale l’esercito federale aveva accettato di trasferire decine di migliaia di armi leggere alla “Parte cecena” e di aver lasciato incustodite numerose armi pesanti, tra le quali carri armati da battaglia, obici e persino armi chimiche. “Perché ci avete dato queste armi?” Chiese. “Se non ci fossero state armi, non ci sarebbe stata la tentazione di opporre una resistenza armata. E mi accusate di aver acquistato illegalmente delle armi?” Riguardo al Raid su Klizyar, Raduev dichiarò di essere stato incaricato da Dudaev di dare il suo supporto ad un’azione militare in territorio russo, rispetto alla quale egli avrebbe dovuto rappresentare la “parte politica”. Lo scopo dell’azione, secondo lui, era quello di distruggere alcuni elicotteri con il divieto assoluto “di catturare civili” e se possibile “di non uccidere nessuno, dal momento che il Daghestan è la repubblica più amichevole con la Cecenia”. Un’azione di rilievo principalmente politico, quindi, sfortunatamente degenerata a causa dell’intervento dell’esercito federale. Infine, riguardo gli attentati terroristici messi a segno tra il 1997 ed il 1998, e in particolare rispetto all’attacco alla stazione di Pytiagorsk, Il Generale dichiarò di essersene addossato la responsabilità unicamente per “rendermi popolare” ed accreditarsi presso i nazionalisti radicali come un leader capace di guidare l’insurrezione antirussa in tutto il Caucaso.
Il 25 Dicembre 2001 la Corte Suprema del Daghestan dichiarò Raduev colpevole di tutte le accuse a suo carico, fatta eccezione per quella di aver costituito un gruppo armato illegale. Le richieste di Ustinov furono soddisfatte e l’imputato fu condannato all’ergastolo, da scontare nella colonia correttiva di regime speciale “Cigno Bianco”. Raduev si limitò a dichiararsi innocente, pur riconoscendosi “piacevolmente sorpreso dall’equità del processo”. Turpal Ali Atgeriev venne condannato a quindici anni di reclusione, Alkhazurov a dieci e Gaisumov ad otto, poi ridotti per intervento del tribunale. Tutti gli imputati fecero ricorso in cassazione, ottenendo soltanto una riduzione del risarcimento da 268 milioni di rubli a 222.000 (una cifra considerata più realisticamente esigibile da tribunale rispetto a quella esosa precedentemente sancita).
Raduev in cella mostra una foto di se’ stesso quando era in libertà , durante il periodo interbellico
LA PRIGIONIA E LA MORTE
Trasferito al “Cigno Bianco”, al secolo “Colonia Correzionale di Solikamsk”, trascorse la sua prigionia adeguandosi piuttosto in fretta alla disciplina carceraria, almeno secondo i giornalisti che si occuparono di lui. Avrebbe dovuto scontare il carcere a vita, ma rimase convinto che presto tra Russia e Cecenia sarebbe tornata la pace, e che sarebbe tornato a far parte della vita politica della Repubblica Cecena di Ichkeria una volta che anche la seconda invasione russa fosse fallita. Morì il 14 Dicembre 2002, dopo appena un anno di prigionia, ufficialmente per “emorragia interna”. I rapporti sulla sua morte non furono mai confermati con chiarezza, e la richiesta avanzata da Amnesty International riguardo alle circostanze della sua fine caddero nel vuoto. Al pari di altri “morti illustri” del separatismo ceceno, sulla sua dipartita aleggia il sospetto di un “omicidio di Stato”.
Nato a Benoy nel 1962, Magomed Khambiev pose le basi della sua carriera nella Repubblica Cecena di Ichkeria alla guida di un battaglione del Servizio di Sicurezza Nazionale mobilitato nel Dicembre del 1994. Dopo aver combattuto alla testa del suo reparto fino al 1996 (guadagnandosi le più alte onorificenze militari) alla fine della guerra venne nominato da Maskhadov Comandante in Capo della Guardia Nazionale, per poi ottenere, nel Luglio del 1998, il dicastero della Difesa. Entrato in clandestinità allo scoppio della Seconda Guerra Cecena, nel 2004 decise di arrendersi, entrando a far parte dell’establishment del governo di Ramzan Kadyrov e venendo eletto deputato al parlamento nelle file dell’Unione delle Forze di Destra (SPS). Questa intervista, rilasciata alla rivista “Small Wars Journal” apparve in rete nel Giugno del 1999, poco prima che scoppiasse la Seconda Guerra Cecena.
IL BATTAGLIONE BAYSANGUR
Nel 1992 ero comandante del Battaglione “Baysangur”, circa 150 uomini, Nel 1994 sono stato decorato ed ho ricevuto una spada d’onore. Successivamente il Capo di Stato Maggiore, Aslan Maskhadov, mi ha nominato comandante del Distretto di Nozhai – Yurt.
Avevamo più possibilità nel 1994 che nell’Agosto 1996. Nel Dicembre 1994 il mio compito era più facile. Avevo 150 uomini, avevamo più attrezzature e mezzi di trasporto rispetto al 1996. Avevo veicoli per spostare le armi da un luogo all’altro. Maskhadov ordinò al mio battaglione di tenere Pervomaiskoye, quando i carri armati russi avanzarono. Non ci disse quali posizioni occupare, soltanto di andare lì ed intercettare i carri armati. Quando raggiungemmo Pervomaisoye trovammo un APC ed un catto armato, e li distruggemmo. Eravamo contenti, pensavamo che i russi fossero scappati. Non ci eravamo resi conto che erano l’avanguardia di un’enorme coonna. Quando attraversammo il ponte, che è vicino alla fabbrica, abbiamo visto una doppia colonna di carri. Mi sono ritrovato con 8 uomini. Abbiamo colpito un carro con un lanciagranate. Allora avevo poca esperienza in questi combattimenti. Pensavo che con tre lanciagranate avremmo potuto gestirla, attaccando la parte anteriore e la parte posteriore della colonna, per poi fuggire. Abbiamo colpito l’equipaggio di un catto armato, ma questo non ha fermato l’avanzata dei russi su Pervomaiskoye.
Magomed Khambiev da giovane, durante la Prima Guerra Cecena
Poi ho pensato di ritirarmi facendo una deviazione in fondo alla colonna. Rimanemmo fino alla sera nascosti in una casa accanto a quella in cui i russi avevano stabilito il loro quartier generale. Potevamo vederli attraverso le finestre. Ho aspettato e mi aspettavo che controllassero la nostra casa in qualsiasi momento. Avevamo messo tutte le nostre armi e munizioni in Pensavamo che fosse la fine. I combattimenti erano in corso a Grozny, non avevamo notizie di Maskhadov. Abbiamo aspettato 2 o 3 ore aspettandoci di combattere la nostra ultima battaglia. Eravamo calmi. Poi ci siamo innervositi. Alcuni di noi decisero di andare a dormire mentre altri facevano la guardia. Alle 18 o alle 19 abbiamo sentito spari e grida. Corsi fuori, aspettandomi di essere catturato, ma mi ritrovai circondato da ceceni. Hanno iniziato a minacciarci. All’inizio ho pensato che fossero gente dell’opposizione ma non lo erano. Ci avevano notato in casa e pensavano che fossimo predoni. Per fortuna qualcuno mi ha riconosciuto. Per quanto riguarda i Russi, erano partiti per Grozny mentre stavamo dormendo. Il giorno successivo ci siamo riuniti al resto dell’unità ed abbiamo lasciato Grozny per Berdikel e Mesker Yurt, dove rimanemmo per quindici giorni a guardia di un ponte sulla linea ferroviaria nei pressi di Barguny. Poi mi ordinò di dirigermi a Gudermes.
A Gudermes non potemmo attaccare i russi, perché questi non si avvicinavano ed usavano soltanto elicotteri, bombardieri ed artiglieria a lungo raggio. A quel tempo si tenevano a distanza, evitando di attaccare da Khasvyurt, in Daghestan. Non so perché, forse avevano paura di mettersi contro gli Akkins ceceni (Ceceni del Daghestan, ndr.). Sparavano da Barguny e da Mairtup, che avevano occupato. Ad Aprile ci siamo ritirati da Gudermes al Distretto di Nozhai – Yurt, dove abbiamo assunto posizioni difensive scavando trincee. Maskhadov mi aveva nominato comandante di quel distretto. Dopo che i russi ebbero occupato Gudermes iniziarono a far avanzare le loro truppe da Khasavyurt verso Nozhai Yurt. Era un territorio molto difficile da difendere, soprattutto i campi e le aree pianeggianti, le colline nude e senza foreste. Siamo stai salvati dal fatto che i russi non sapevano dove eravamo trincerati. Conoscevamo il territorio, fummo capaci di trovare luoghi dove nasconderci e di minarne altri. Abbiamo difeso il distretto fino alla fine di Maggio del 1995, poi ci siamo ritirati a Sayasan, verso Benoy. Questo succedeva prima di Budennovsk, ci stavamo ritirando da tutte le parti, da Vedeno e da Shatoi. Per due o tre mesi abbiamo combattuto nel territorio del Daghestan. Prendemmo posto sull’altro lato del confine, che non era abitato.
Dopo la tregua di Budennovsk i russi iniziarono ad attaccare di nuovo nell’inverno del 1995. Non ci aspettavamo che avrebbero contrattaccato così velocemente. Iniziarono ad attaccare Benoy, ma dopo che prendemmo Gudermes nel Dicembre del 1995 tutto cambiò: fummo noi a prendere l’iniziativa.
LA “TREGUA” DI BUDENNOVSK
Durante il periodo di tregua che seguì Budennovsk avremmo dovuto costituire Unità di “autodifesa” russo-cecene congiunte. Ricordo un colonnello russo che era la mia controparte. Parlava con me della sua famiglia, mi diceva dove viveva, quella sua la figlia era malata. Fu una tregua di breve durata e più tardi durante la guerra lo incontrai ancora. Abalaev mi ha avvertito che i russi stavano progettando di stabilire una base a Zandak nonostante gli accordi che avevamo raggiunto dopo Budennovsk. Sono stato mandato a negoziare e ritrovai lo stesso colonnello. Fingeva di non essere responsabile della decisione, diceva che quegli ordini provenivano dall’alto. Ho detto “va bene, ma voglio parlarti da solo, senza testimoni”. Gli ho chiesto “tua figlia è ancora malata?”, “La tua famiglia vive ancora a questo indirizzo?” Ha risposto “sì”; forse si era dimenticato di lui mi aveva dato quell’informazione. Gli ho detto “se non smantelli questa base da Zandak, la situazione della tua famiglia peggiorerà ulteriormente. Ti do mezz’ora per uscire di qui”. È uscito per dare gli ordini e 15 minuti dopo non c’erano più.
Aslanbek Abdulkhadzhiev (a sinistra) Shamil Basayev (al centro) ed Aslanbek Ismailov (a destra) tengono una conferenza stampa durante il sequestro dell’ospedale di Bunenovsk.
Tra marzo e agosto 1996, la situazione a Nozhay Yurt rimase tranquilla. Non c’erano azioni militari, solo attività di ricognizione e intelligence. I comandanti russi ci hanno contattato più volte durante quel periodo implorandoci di non avviare alcuna azione perché i negoziati erano imminenti. I russi non volevano morire, e nemmeno noi. Loro sono rimasti nelle loro basi e hanno aspettato. Avevano tutto: aviazione, GRAD, ma comunque è stato molto difficile per loro. I nostri piccoli numeri ci hanno aiutato, se avessimo avuto enormi concentrazioni di truppe come i russi, sarebbe stato più facile combatterci. Ma noi avevamo solo piccoli gruppi di 10, 20 o 30 uomini che erano ovunque e da nessuna parte. I russi avevano un’enorme concentrazione di forze: non potevamo affrontare una base con 500 carri armati e APC o più, ma sapevamo tutto e vedevamo tutto. Abbiamo cambiato tattica costantemente, a volte abbiamo tenuto posizioni difensive, a volte no. I russi non riuscivano a capire che tipo di esercito fossimo.
OPERAZIONE JIHAD
Nel Gennaio 1996 non mi aspettavo che avremmo vinto la guerra così rapidamente. Sapevamo in quale stato fosse il nostro esercito e anche se i russi erano talmente codardi che non volevano combattere, avevano comunque occupato quasi tutto il nostro paese. Non avevamo praticamente più alcun posto dove nascondersi, la nostra Repubblica è così piccola. Eravamo incoraggiati dal fatto che tutti i villaggi ci accoglievano volentieri. Questo ci dava la speranza che saremmo stati in grado di sostenere la lotta per molto tempo. Ma sapevamo che era molto difficile per la nostra popolazione, sapevamo che la popolazione aveva sofferto a causa nostra, che la Milizia del Ministero dell’Interno (russo, ndr) stava uccidendo i civili. Non pensavamo che avremmo vinto subito, ma che saremmo stati in grado di farlo. C’era ancora una piccola speranza.
Dopo il Marzo 1996, tutto è cambiato. Abbiamo capito che potevamo riconquistare la capitale o qualsiasi altro distretto della Repubblica in qualsiasi momento, ed abbiamo scelto. Maskhadov ci ha sempre detto: “Abbiamo Grozny in riserva come ultima risorsa”: Maskhadov ha dato l’ordine ai comandanti di prepararsi ad un assalto a Grozny ad inizio Giugno. Questa informazione era tenuta segreta, soltanto i comandanti lo sapevano. Avevamo diviso i comandanti settore per settore. Il mio settore era Pervomaiskoye. Avevo una mappa del distretto. Ho mandato degli uomini a controllare il percorso, per capire cosa avremmo dovuto affrontare – per esempio il campo di filtraggio russo a Pervomaiskoye. Questo può provare un grosso problema, che i russi usavano i prigionieri come ostaggi. Ho dovuto liberarli prima che potessimo avanzare su Grozny. Sapevo che era difficile perché il campo era estremamente ben difeso e protetto. Personalmente ero stanco, speravo che mi mandassero ovunque, ma non a Grozny. Sapevo che Grozny significava vittoria o morte. Non ci sarebbe stato modo di tornare indietro. Le truppe russe erano ovunque e sapevo che se le cose fossero andate storte non avrei avuto modo di fuggire da Pervomaiskoye. Avrei avuto difficoltà anche ad evacuare i feriti. Volevo restare a Benoy e combattere e morire piuttosto che andare a Grozny. Conoscevo il mio Distretto di Nozhai Yurt. Temevo che sulla strada per Grozny potessimo finire in un’imboscata, morendo inutilmente. Ma gli ordini erano ordini.
Tuttavia, due o tre giorni dopo l’inizio delle operazioni militari cominciai a cambiare idea ed a rendermi conto che forse ce l’avremmo fatta. Ho capito allora che i russi non volevano più combatterci. Ma ho dubitato finchè non è stato ovvio che stavamo vincendo. Anche se sapevo che combattere a Grozny sarebbe stato più facile, per inclinazione volevo combattere nel mio territorio. Sono sicuro che molti uomini la pensassero così.
Carro armate dell’esercito federale catturato dai separatisti durante l’Operazione Jihad
Pervomaisoye era la porta per Grozny e per l’aereoporto. E’ stato a Pervomaisjoye che i combattimenti furono più feroci. Dopo che i russi ci dettero un ultimatum di 48 ore, trasferirono più di 1000 tra carri e APC dall’edificio della Doikar – Oil all’aereoporto, che ne ospitava approssimativamente altrettanti. Aspettammo la scadenza dell’ultimatum, quando questa armata si sarebbe mossa contro di noi. Avevamo preparato barili con benzina, granate, mine ad ogni occasione. I carri armati avevano una protezione anti – granata. Abbiamo raccolto i proiettili dei carri armati e ne abbiamo ricavato delle bombe. Eravamo 80 uomini e abbiamo aspettato. Avevamo 12 lanciagranate, con 3 o 4 colpi. Avevo uno Shmel. Dotazioni da considerarsi straordinarie! Nessuno aveva sollevato la questione di cosa potesse accaderci.
Ho ricevuto i miei ordini da Maskhadov il 5 Agosto. I russi avevano occupato il Distretto di Nozhai Yurt. Sono partito subito con i miei uomini. Abbiamo guidato da Benoy a Dzhalka. A partire da Dzhalka siamo scesi ed abbiamo proseguito a piedi. Trasportavamo tutta la nostra attrezzatura. Io trasportavo 65 kg di armi e munizioni. Verso le 8 del mattino abbiamo raggiunto i nostri obiettivi – Pervomaiskoye. La strada principale e la fabbrica di latta, sulla strada per l’aereoporto, tra i grattacieli. L’ordine era di essere in posizione tra le 5 e le 6 del mattino, ma eravamo stati ritardati da diverse imboscate lungo il percorso. Basaev era al mercato centrale. Una volta trovata una posizione comoda negli edifici più alti, con acqua e cibo, talvolta riuscimmo anche a farci qualche bagno durante la notte! Ci furono pesanti combattimenti tra il 7 ed il 12 Agosto e rimanemmo a corto di munizioni, perché i nostri rifornimenti non erano riusciti ad arrivare. Fortunatamente riuscimmo a trovare le munizioni nei carri armati che distruggevamo: 37 in tutto per il mio gruppo. Controllavamo l’unica via d’uscita da Grozny per i carri armati russi. Combattemmo nel distretto per 12 giorni. 3 dei miei uomini rimasero uccisi e 3 feriti. Ascoltavamo le comunicazioni radio russe in cui si diceva che avevano perso 200 uomini in un posto, tanti dispersi senza notizie in un altro. In questo modo potevamo capire quali obiettivi stessimo conquistando.
LINEE DI COMUNICAZIONE
Non è stato facile interrompere le linee di comunicazione dei russi. Ad esempio: loro avevano un quartiere generale a Nozhay Yurt ed una base a Sayasan. Il quartier generale doveva provvedere alla logistica di Sayasan: noi mandavamo due o tre uomini a scavare nel guado sul fiume che porta a Sayasan. Loro avevano molta paura delle mine, davanti ai loro carri armati e APC mandavano sempre dei genieri. Noi non abbiamo mai avuto molta difficoltà a comunicare tra di noi. Potevamo muoverci liberamente, io potevo facilmente raggiungere a piedi Vedeno da Nozhai Yurt, se necessario. L’ho fatto diverse volte attraverso strade secondarie. La prova più eclatante di questo fatto fu il nostro ingresso a Grozny nonostante gli elicotteri, gli aerei da caccia ed i posti di blocco: non fu un problema.
CECCHINI
I russi chiamavano “cecchino” qualsiasi uomo con la mitragliatrice. Ma non avevamo cecchini appositamente addestrati. Chiaramente mi vantavo di avere granatieri, cecchini, genieri, anche “carristi”. Ma in realtà i ruoli erano intercambiabili. Tutti i combattenti ceceni sapevano come usare armi diverse. Ciò era legato al nostro naturale interesse per le armi, e alla necessità. Avremmo usato qualsiasi arma sulla quale saremmo riusciti a mettere le mani. Non dicevamo ai nostri uomini “tu sei un cecchino, questa è la tua posizione, rimani lì”. Piuttosto gli uomini venivano da noi e ci dicevano: “Ho un fucile da cecchino, voglio usarlo, posso aiutare?”
GLI “SHMEL”
Ricordo un episodio divertente: avevamo uno Shmel (lanciarazzi portatile per la fanteria, ndr.) che portavo ovunque, perché era la migliore arma del mio battaglione. C’era un carro armato di fronte all’edificio in cui ci trovavamo. Era facile fallire perché non avevamo un posto dove nasconderci e la visibilità era scarsa. Uno dei miei uomini gridò: “sbrigati, spara!”. Il cannone era già rivolto verso di noi. La casa era piccola, io ero in cucina. C’era un balcone ma se fossi uscito sarei stato ucciso. Mi sono guardato intorno. Il soffitto era basso, c’era un tavolo, sono saltato sul tavolo ed ho sparato senza pensare, senza mirare correttamente. Non ricordo esattamente cosa successe dopo, sono caduto dal tavolo, mi sono bruciato. Pensavo che fosse stato il carro a sparare. Sono corso fuori dalla casa urlando che stavo andando a fuoco. Ma era il calore del mio Shmel – stavo sparando troppo a ridosso del muro. Il carro armato era stato distrutto.
Gli unici Shmel che avevamo erano quelli che avevamo preso o comprato ai russi. Tutte le unità russe, sia della Milizia che del Ministero della Difesa, erano dotate di Shmels. Le unità della Milizia avevano molti contractors: era più difficile acquistare armi da loro. Anche loro vendevano le armi, ma era più facile comprarle da giovani coscritti.
Magomed Khambiev nel Febbraio 1997 , Comandante della Guardia Nazionale
MISSILI ANTIAEREI
Avevo un missile a ricerca di calore a Nozhai Yurt, con il quale riuscimmo ad abbattere un elicottero. Questo è stato l’unico caso al quale ho assistito durante la guerra. L’uomo che lo ha abbattuto ha ricevuto una decorazione. Successivamente abbiamo usato le mitragliatrici contro gli elicotteri, ma senza risultato. Potevi vedere le scintille sprizzare dalla lamiera degli elicotteri, ma questo era tutto. Quando inizi a sparare su un elicottero, questo vira sul lato placcato in titanio, esponendolo al fuoco.
ARMI “TROFEO”
Ricordo come Isa Ayubov, vice capo della logistica, fu assediato in una casa vicino al cinema “Jubilee” nel centro di Grozny. Quando siamo venuti in suo aiuto c’erano così tanti cadaveri, era spaventoso. Circa 100, forse 200 morti giacevano in un mucchio. I russi continuavano ad avanzare nell’edificio di Ayubov, e mentre avanzavano venivano uccisi. Come avanzavano, venivano uccisi. Non si rendevano conto di dove stavano andando. Non capivano da dove gli stessimo sparando. Si muovevano come un’onda umana senza avere il tempo di sparare. L’assedio finì quando si fece buio. Uscimmo dall’edificio, raccogliemmo tutte le armi – c’era di tutto, lanciagranate, fucili da cecchino e automatici. C’era l’imbarazzo della scelta. Molte persone non avevano le armi. Ci seguivano e cercavano di prenderle. E noi abbiamo sempre distribuito loro le armi. A volte le le persone cercavano armi semplicemente per rivenderle. Li vendevano ad altri ceceni sottocosto o li barattavano con farina, zucchero ecc. In alcuni casi interi battaglioni furono armati con armi -trofeo. Di solito combattevamo con armi russe. Non avevamo una nostra produzione né forniture estere.
I RUSSI
La propaganda russa affermava che tutti i ceceni erano uomini d’affari che erano interessati soltanto al benessere, che Dudaev aveva 100 uomini, non di più, i quali sarebbero fuggiti davanti all’esercito russo. Nonostante le rassicurazioni di Pavel Grachev che la Cecenia sarebbe stata conquistata in una settimana, gli ufficiali russi hanno capito subito che non sarebbe stato così. Quando hanno attraversato il confine con l’Inguscezia verso la Cecenia, hanno visto che non c’era nessuno che stesse scappando via. Già a quel punto iniziarono ad essere riluttanti a marciare. Mi ricordo come gli elicotteri russi stessero sparando alle spalle delle loro truppe per farle avanzare durante l’invasione.
Non ho notato alcuna differenza di prestazione tra le formazioni militari russe. Forse i russi ebbero i loro eroi durante la guerra, ma i loro commando e le truppe della milizia non si comportarono essenzialmente meglio di quelle ordinarie. Non avevano strategia organiche; non sapevano come combattere; il loro servizio di intelligence era scarso e di solito sbagliava; non facevano alcuna ricognizione prima di una sortita; non avevano tattiche offensive contro i nostri gruppi; non sapevano niente ed erano sempre spaventati. Ad esempio, quando noi avevamo un gruppo di 5 uomini posizionato da qualche parte, la loro intelligence ne individuava 200. Di conseguenza i nostri piccoli gruppi potevano mantenere le posizioni senza problemi, riposarsi e sparare di tanto in tanto per tenere i russi sulle spine. Che tipo di valutazioni si possono dare sulle truppe russe in queste condizioni? Sapevano di aver perso l’iniziativa. Quando un soldato ha paura non può pensare alla strategia, o alla tattica. Le truppe del Ministero della Difesa erano ragionevolmente dignitose nei confronti della popolazione civile. Penso che fosse perché sapevano che trattavamo i nostri prigionieri di guerra russi con equità. Stavano servendo e dovevano ubbidire agli ordini, come noi. Ce lo dicevano i prigionieri di guerra che erano stati costretti ad eseguire gli ordini, altrimenti avrebbero perduto i loro appartamenti, la loro pensione, qualunque cosa. Ci dissero che sapevano che quello che stavano facendo era sbagliato, ma che non avevano scelta. Ovviamente i prigionieri avrebbero detto queste cose in ogni caso. Ma c’erano vere pressioni e tanto bullismo, perché era chiaro che loro non volevano combattere.
Aydamir Abalaev (a sinistra) Aslan Maskhadov (al centro) e Magomed Khambiev (a destra) nel Febbraio 1997
Per noi era diverso, questa è la nostra terra, stavamo difendendo la nostra patria, le nostre famiglie, i nostri amici, non avevamo via d’uscita. Quando abbiamo avuto la notizia che i russi avrebbero occupato un distretto o un villaggio, avvertivamo i civili e li aiutavamo ad evacuare. Questo era l’unico modo in cui potevamo proteggere la popolazione. Tuttavia se i russi avessero saputo che c’erano dei combattenti nei paraggi, sarebbero stati più cauti. Sui blocchi stradali, o quando sapevano che non potevamo toccarli, erano più audaci e insolenti. La milizia del Ministero dell’Interno era un’altra cosa. Loro non facevano differenze tra combattenti e civili. Potevano addirittura uccidere i loro stessi soldati, impunemente. Quando catturavamo i soldati dell’MVD li trattavamo diversamente da quelli del Ministero della Difesa. Era l’MVD che conduceva le cosiddette “Zachistki”, le operazioni di polizia. Tiravano già gli uomini dagli autobus, li costringevano a spogliarsi davanti alle donne – una vergogna terribile per gli uomini ceceni – controllavano i calli sul loro corpo per capire se avessero portato armi, ma i ceceni lavorano sodo, tutti avevano calli da duro lavoro fisico. Qualsiasi uomo con un livido o una ferita veniva arrestata come boievik (bandito ndr), spesso scomparendo senza lasciare traccia.
Non c’erano schemi negli attacchi aerei e nei pattugliamenti dei russi. Non pattugliavano di notte. I nostri uomini, al contrario, sfruttarono al meglio la notte per la sorveglianza, mappando i campi minati, ad esempio. I russi durante la notte sparavano a caso.
PERSONALITA’
Dzhokhar Dudaev era molto divertente. Gli piaceva scherzare, anche quando le cose andavano molto male. Durante gli infiniti bombardamenti aerei ci diceva che questo era l’ultimo, e che i russi avevano esaurito le scorte. Gli credevamo, e mantenevamo la calma. Siamo stati fortunati per il fatto che lo stratega fosse Maskhadov. Molto può dipendere da un uomo. Maskhadov era un comandante molto bravo, ed un capo organizzato. Ha tenuto conto di ogni dettaglio. Gli piaceva che gli ordini venissero eseguiti puntualmente. Naturalmente non ti avrebbe punito se avessi fallito, ma tu ti saresti vergognato di fronte a lui se non avessi eseguito gli ordini correttamente. Questo sistema è stato molto efficace.
LEZIONI DI GUERRA
Era molto più facile combattere a Grozny che a Nozhai Yurt. Il Distretto di Nozhai Yurt era un territorio aperto, dove si doveva aspettare che i carri armati si avvicinassero entro i 500 metri per colpirli. Questa era la distanza dei nostri lanciagranate. I russi lo sapevano e non si avvicinavano mai così tanto. Avemmo molte vittime dovute al fatto che chiunque ad un certo momento doveva improvvisarsi geniere senza avere la formazione necessaria. Abbiamo imparato dalla pratica, insegnandoci a vicenda. Il risultato, tutto considerato, non fu cattivo. Cogliemmo dei brillanti successi.
La disciplina era eccellente, ma tutti prendevano iniziative personali. Prendevamo tutti le direttive dal Presidente Dudaev e dal Capo di Stato Maggiore, Aslan Maskhadov. Ad esempio, quando ci veniva detto di mantenere una posizione la mantenevamo, ma combattendo a proprio modo. Noi facevamo quello di cui c’era bisogno ma senza che ci fosse il bisogno di dirci come questo dovesse essere fatto. Nessuno si aspettava delle istruzioni specifiche. Gli uomini sapevano che cosa dovevano fare senza che glie lo dicessero. Ho capito che la nostra nazione era invincibile. Fin dall’infanzia mi è stato raccontato dei nostri antenati che combattevano con i russi. Quando era giovane avrei sempre voluto emularli. Ma non ho mai creduto o capito veramente come le persone potessero combattere per anni. Adesso lo so, e so che la nostra nazione è capace di resistere a qualsiasi prova. Questa per me è stata una lezione della guerra davvero straordinaria. Ancora oggi mi chiedo come abbiamo potuto compiere un simile miracolo. I comandanti erano uniti. Ho visto la dedizione e l’impegno che hanno motivato le persone che hanno combattuto. Naturalmente c’erano anche quelli che combattevano per mettersi in mostra, quelli che erano pronti a negoziare coi russi, ma erano l’eccezione.
Magomed Khambiev (sinistra) posa con Ramzan Kadyrov (destra) alzando il pollice in segno di complicità.
Si potrebbe dire che ogni operazione militare che abbiamo intrapreso sia stata eroica. Quando siamo andati a combattere ogni singolo uomo su 50 o 80 voleva ottenere qualcosa. Qualcuno a combattuto a modo suo. Quando nel dopoguerra mi fu chiesto di scegliere gli uomini da decorare non riuscii a farlo, perché per me erano tutti eroi. Non conoscevano la paura. Una volta a Grozny uno dei miei uomini stava cercando di colpire un carro armato con un “mukha” ma non ci riusciva. Mi ha chiedo aiuto gridandomi. Io ho sparato due volte dal balcone ed ho colpito il carro armato. Sapevamo tuti che era pericoloso sparare più volte dalla stessa finestra perché i russi se ne sarebbero accorti, ma quell’idiota saltò giù dal balcone urlando “Allah U Akbar!!!” senza alcuna preoccupazione per la sparatoria che stava infuriando. Ho afferrato quello sciocco e l’ho trascinato di nuovo dentro la stanza. Potrei passare giorni a raccontare le gesta dei miei uomini, erano tutti coraggiosi.
Altri comandanti affermarono di avere 500 uomini, anche 1000, ma io non ne ho mai avuti più di 150. Era l’inizio della guerra. Successivamente il nostro numero variava tra i 50, gli 80 e i 100. Il numero più basso lo raggiungemmo durante il nostro ritiro a Benoy, quando ne rimasero solo 40. Ma fu più facile operare con un piccolo gruppo. Conoscevo tutti i miei uomini, sapevo di cose fosse capace ognuno di loro. Sapevo di potermi fidare di loro. Abbiamo vinto insieme. Pervomaiskoye, durante l’assalto a Grozny dell’Agosto 1996 fu il nostro coronamento.
Mentre Dudaev consolidava il suo potere e lo Stato indipendente ceceno iniziava a prendere forma, l’opposizione ai separatisti si radunava intorno alla figura di Umar Avturkhanov, ex funzionario del Ministero degli Interni, eletto da poco Governatore del Distretto dell’Alto Terek e apertamente ostile al nuovo governo. Vicino a lui si erano raccolti sia i nazionalisti moderati, sia gli esponenti della vecchia classe dirigente sovietica. Si trattava di una trentina di notabili, tra i quali spiccavano il già citato Hadjiev, che aveva snobbato l’invito di Dudaev a fargli da vice, l’ormai apparentemente emarginato Zavgaev ed il leader di Daimokhk, Lecha Umkhaev.. Il Movimento aveva il supporto manifesto di Mosca, che intendeva usare l’opposizione come grimaldello per scardinare il fronte dudaevita. Con l’avvicinarsi del 31 marzo, data nella quale tutti i soggetti federati avrebbero dovuto firmare il nuovo Trattato Federativo, l’opposizione iniziò a manifestare la volontà di intervenire affinché la Cecenia interrompesse il suo percorso secessionista. Il 6 marzo, mentre i negoziati di Sochi erano in atto, Avturkhanov pubblicò un comunicato nel quale si appellava a tutti i cittadini della repubblica cecena, invitandoli a non riconoscere né Dudaev né il Parlamento. Lo stesso giorno, il governatore dichiarò lo Stato d’Emergenza nell’Alto Terek ed attivò un Quartier Generale, dal quale distribuì armi alla popolazione e mobilitò l’Unione per la Difesa dei Cittadini della Repubblica Ceceno – Inguscia, una milizia volontaria antidudaevita e filorussa. Secondo quanto riportato dai suoi stessi esponenti, da Mosca giunsero 50 milioni di rubli per finanziare l’attività dei dissidenti, mentre dalla vicina base militare russa di Modzok affluirono armi leggere. L’opposizione si era data anche un nome: Movimento per il Ripristino dell’Ordine Costituzionale nella Repubblica Ceceno – Inguscia.
Umar Avturkhanov, governatore dell’Alto Terek e principale oppositore di Dudaev tra il 1992 ed il 1994.
Il 17 marzo un primo volantino firmato dagli esponenti del movimento iniziò a circolare a Grozny. In esso si chiedevano le dimissioni di Dudaev, accusato di essere la causa della situazione drammatica nella quale stava precipitando il paese. Nei giorni seguenti distaccamenti armati dell’Unione per la Difesa dei Cittadini presero posizione nei distretti di Sunzha, di Achkoy – Martan, di Shali e di Grozny. Dudaev tentava di evitare uno scontro diretto con queste formazioni armate, un po’ perché sperava di ricondurre i loro leaders ad un’alleanza politica col suo governo, un po’ perché non era sicuro che la sua Guardia Nazionale fosse in grado di resistere ad un attacco ben coordinato[1]. La debolezza delle truppe regolari era ben chiara dall’opposizione, ed Avturkhanov si convinse che un assalto ben orchestrato a Grozny sarebbe bastato a far cadere il Generale. Così i leaders del Movimento per il Ripristino dell’Ordine Costituzionale organizzarono il loro colpo di mano. La sera del 30 marzo i leaders golpisti si riunirono in un’abitazione a Grozny, nei pressi di Kirov Park, poco lontano dalla stazione TV, e organizzarono in un Comitato d’Emergenza. La mattina del 31 marzo, intorno alle 7:00 un commando armato penetrò all’interno della TV di stato e disarmò le poche guardie che sorvegliavano l’edificio. Pattuglie armate occuparono il principale asse viario di Grozny, quello che da Nord – Ovest della città raggiunge i sobborghi meridionali. Nessun reparto della Guardia Nazionale intervenne. Ancora alle 9 e mezzo, più di due ore dopo il blitz, nessuna forza lealista aveva reagito all’attacco, mentre una folla piuttosto nutrita di civili, per lo più sostenitori dell’opposizione, si era radunata a Kirov Park, scandendo slogan di supporto al Comitato d’Emergenza. Nel frattempo un secondo distaccamento di golpisti aveva raggiunto l’avanguardia che aveva lanciato l’attacco: ora i ribelli contavano cento – centocinquanta uomini armati. Le unità dipendenti dal Ministero degli Interni, richiamate da Dudaev ad intervenire, rimasero chiuse nei loro acquartieramenti per ordine esplicito del Ministro, il quale dichiarò che non avrebbe permesso la partecipazione delle sue unità, impegnandosi soltanto a garantire “per quanto possibile il mantenimento dell’ordine pubblico”. Con questo atteggiamento, il Ministero degli Interni passava di fatto dalla parte degli insorti. Tutto era pronto per l’arrivo dei leader del Comitato d’Emergenza ed il rovesciamento di Dudaev.
Bandiera del Consiglio Provvisorio della Repubblica Cecena, il principale raggruppamento anti – dudaevita sorto nel 1992 intorno ad Avturkhanov. Nel corso del 1993 ad esso si unirono personaggi che avevano aderito al fronte secessionista, come il Sindaco di Grozny Bislan Gantamirov ed il Deputato Ibragim Suleimenov.
Ma nessuno si fece vivo. Che era successo ai capi della rivolta? Semplicemente si erano messi a litigare, si erano spartiti i fondi russi e se ne erano tornati da dove erano venuti. Era successo che durante la notte i componenti del Comitato d’Emergenza si erano affrontati per decidere chi avrebbe dovuto essere il capo di quell’accozzaglia di post – comunisti ed anti – dudaeviti così eterogenea e contraddittoria. Ne era venuto fuori che tutti volevano fare il Presidente, ma che nessuno aveva intenzione di guidare le operazioni militari. Dopo un acceso alterco la direzione del colpo di stato era stata abbandonata al suo destino. Così, alle 11 del mattino del 31 marzo, nonostante i ribelli avessero preso il controllo della piazza, non c’era nessuno in grado di ordinare la prosecuzione delle operazioni. Rimasto senza una regia, il golpe si trasformò in una farsa. Le forze lealiste, giunte nei pressi della TV di stato soltanto verso le 11, si trovarono ad affrontare un centinaio di miliziani privi di una catena di comando, circondati da un cordone di manifestanti disarmati e disorientati. Verso mezzogiorno dal Parlamento riunito in seduta plenaria giunse la condanna al colpo di stato. Akhmadov fece votare l’introduzione dello Stato di Emergenza in tutto il paese, dichiarando le azioni prodotte dal Comitato d’Emergenza “un tentativo di colpo di Stato”. Quando cominciò a circolare la voce che i ribelli erano finanziati ed armati dal Cremlino, la reazione popolare non si fece attendere: una folla di persone si radunò davanti al Palazzo Presidenziale, ed anche i sostenitori del colpo di stato, saputo che questo era orchestrato da Mosca, cambiarono bandiera e si unirono ai lealisti. Il silenzio degli esponenti del Comitato di Emergenza fece il resto, ed alle 18:35 un trionfante Dudaev, ormai tornato padrone della situazione, si rivolse ai cittadini, invitandoli a sollevarsi in difesa del sacro diritto del popolo alla libertà, all’indipendenza ed alla dignità nazionale, contro i circoli reazionari della Russia e i loro burattini locali. Nel giro di poche ore una folla di ceceni lealisti si raccolse intorno alla TV di Stato, l’ultimo edificio ancora in mano ai golpisti, mentre i reparti della Guardia Repubblicana si preparavano ad irrompervi. Alle 19:20, scaduti gli ultimatum, iniziò l’assalto.
Una folla di manifestanti fedeli a Dudaev si dirige verso il centro televisivo di stato per contrastare il golpe degli anti – dudaeviti.
La sparatoria durò alcuni minuti, dopodiché la Guardia Nazionale riuscì a penetrare nella stazione TV, sloggiando i ribelli e catturandone una dozzina. Morirono una quindicina di persone. Coloro che non se ne erano già andati approfittarono della calca per sgattaiolare fuori da Grozny, mentre i reparti ribelli che non erano stati ingaggiati dalla Guardia Repubblicana si ritirarono dalla città verso le basi di partenza. Alle 10 di sera il colpo di stato poteva dirsi ufficialmente fallito, e la TV riprese a trasmettere dal canale governativo. Yandarbiev parlò al paese, accusando i golpisti di essere una forza distruttiva al soldo della Russia. Nei giorni successivi il VDP e gli altri movimenti lealisti organizzarono una grande manifestazione di piazza a sostegno dell’indipendenza, alla quale parteciparono migliaia di persone. Il Governo ed il Parlamento emisero un appello generale nel quale si diceva:
“Noi, rappresentanti di tutti i villaggi ed i distretti della Repubblica Cecena, riuniti in una manifestazione di molte migliaia il 1 e il 2 Aprile 1992, esprimiamo il nostro sostegno al Parlamento eletto ed al Presidente della Repubblica Cecena, esprimiamo la nostra collera contro gli autori del raid all’emittente pubblica ed al tentativo di colpo di stato da parte delle forze reazionarie della cosiddetta opposizione, agenti dell’impero russo. Chiediamo con forza al Parlamento, al Presidente del Consiglio dei ministri di adottare misure di emergenza per frenare le azioni anticostituzionali delle forze di opposizione e la criminalità dilagante. Al fine di stabilizzare la situazione, proponiamo di introdurre la pena di morte in pubblico per reati gravi contro lo stato, nonché per i crimini contro la vita dei cittadini della nostra repubblica. […] Esortiamo i cittadini della repubblica ad essere vigili, a non soccombere al panico […].”
Avturkhanov e gli altri ribelli di ritirarono nell’Alto Terek e, tentando di salvare la faccia, dichiararono che quella del 31 marzo era stata soltanto una “azione dimostrativa” e non un colpo di stato. Qualunque fosse lo scopo dell’attacco, il risultato fu quello di mobilitare le piazze a sostegno di Dudaev, rendendolo ancora di più padrone della scena politica.
Bektimar Mezhidov, Hussein Akhmadov e Magomed Gushakayev, i tre leaders del Parlamento di prima convocazione. Il Parlamento si espresse compattamente contro il colpo di Stato, isolando i golpisti.
[1] A quel tempo essa era composta da qualche centinaio di volontari, pochi ed in perenne conflitto tra loro: una parte sosteneva Gantemirov, un’altra Basayev. Nel febbraio del 1992 le frizioni tra le due squadre erano giunte all’apice quando si era scoperto che le armi del principale magazzino militare in mani cecene, quello rinvenuto all’interno dell’edificio del KGB a seguito dell’assalto al palazzo, erano quasi tutte sparite. Basayev accusò Gantemirov (che ne aveva la custodia) di averle sottratte per armare la sua “fazione”. Gantemirov negò ogni accusa, ma non fornì alcuna spiegazione plausibile per la loro scomparsa. Se si escludono queste forze, a Dudaev rimaneva un piccolo nucleo di combattenti, che aveva inquadrato nella Guardia Presidenziale, il cui compito era quello di difendere la sua persona, i suoi familiari ed i principali edifici governativi. Ma si trattava di una trentina scarsa di persone, troppo poche per potersi opporre ad un attacco diretto da parte di un esercito organizzato.
Dzhokhar Dudaev pronincia il suo giuramento come Presidente della Repubblica Cecena durante la cerimonia di investitura. Grozny, 9 Novembre 1991
Il 12 Dicembre la giornalista italiana Maddalena Tulanti intervistò il Generale Dudaev nel Palazzo Presidenziale. La cosiddetta “operazione per il ripristino dei diritti costituzionali” era appena iniziata, ed il Raggruppamento delle Forze Unite dell’esercito federale era appena entrato in Cecenia con l’obiettivo di rovesciare il governo separatista e riannettere la Cecenia. Di seguito riportiamo il testo integrale di quell’intervista.
Grozny, 12 Dicembre 1994
Mentre i tank russi sono a due passi da Grozny entriamo nello studio dell’uomo che ha sfidato mosca “per restituire la terra ai ceceni”. “Noi non siamo russi – dice – e non vogliamo vivere sotto i russi. Siamo pronti a difenderci”. Entriamo nel palazzo presidenziale alle 17:30. La piazza è completamente al buio, s’intravedono solo le sagome delle decine di uomini armati che pattugliano da ogni lato. Il portavoce del presidente, Movladi Ugudov ci conduce dal quarto piano dove lo incontriamo al nono attraverso una scala nascosta. Anche qui non ci sono luci. Questione di sicurezza capire. Si capiamo ma fa un certo effetto scontrarsi con un mitragliatore che scende di corsa dalla parte opposta. Poi penetriamo in un’altra ala del palazzo e questa è illuminata. Ci sono quattro uomini armati fino ai denti che alzano appena gli occhi per salutare. La stanza dove lavora Dzhokhar Dudaev il ribelle è quella adiacente. E’ la stanza più sicura del palazzo. Anche se bombardano non la colpiranno mai, continua nelle spiegazioni Movladi. Diciamo solo “meno male” ma non gli chiediamo perché. Dudaev entra dopo pochi minuti. Veste come al solito la tuta mimetica. E’ pallidissimo e i suoi baffetti sembrano ancora più neri. Ha cinquant’anni e qualche anno fa era ritenuto molto affascinante del fascino della gente del Sud, sguardo morbido e sorriso accattivante. Ma provare a fare la guerra alla Russia non è facile, e sicuramente non ringiovanisce. Pilota di bombardieri nucleari e cintura nera di karate, conosce sei lingue oltre al ceceno materno: il russo, il kazako, l’estone, l’ucraino, l’uzbeko e l’inglese. Viene considerato una persona dura, energica, comunicativa, con una grande forza di volontà. Dicono anche che si ritiene un inviato, un messia per restituire ai ceceni la terra sottratta loro dai russi. Non sappiamo se è la sua prima o la sua ultima intervista ad un giornale italiano, perché i russi sono a due passi da Grozny e si attendono da un momento all’altro. Probabilmente non lo sa nemmeno lui.
Dudaev tiene una conferenza stampa
Preferisce essere chiamato Generale o Presidente?
Io faccio sempre scegliere alle signore. Decida lei.
Allora la chiamerò Presidente. Ho più dimestichezza con i civili. Signor Presidente, perché ha staccato la Cecenia dalla Russia?
E perché gli altri paesi si sono staccati?
La sua è dunque una lotta per l’indipendenza?
L’indipendenza non è uno scopo in sé. Ci sono principi che non consentono ad un intero popolo di vivere secondo l’immagine e la somiglianza di un altro. I ceceni sono preparati a vivere secondo le propria immagine e somiglianza e non quella dei russi.
E tuttavia i russi dicono che questa è terra loro.
Possono dire quello che vogliono. Anche l’Italia è territorio russo, potrebbero dire. Gli appetiti di Mosca sono notevoli. Dicono che possono arrivare fino all’Oceano Indiano, al Bosforo e alla Manica. E allora bisogna lasciarli fare? Cominceranno dalla Cecenia e arriveranno fino alla Manica e al Bosforo. Se non c’è un meccanismo internazionale di controllo delle aggressioni esse entreranno in ogni casa.
Lei pensa che entreranno sul serio a Grozny?
Sono già entrati. E più di una volta. Il 26 Novembre è stata la quarta. Erano già venuti nel ’91 mentre ancora c’erano in cecenia settantamila loro soldati, nel ’92 hanno occupato parte del territorio con i blindati, nel 093 hanno organizzato un golpe armato dell’opposizione, infine l’aggressione aperta di questi giorni. In Cecenia è possibile entrare solo con la armi in pugno, e da noi è in corso una guerra, anche se non dichiarata.
Della Cecenia si parla malissimo. Che è un covo di banditi che nascoste la mafia…
Anch’io ho letto tante cose cattive sull’Italia, eppure so che non è così. Quello della mafia cecena è un mito inventato di sana pianta per discriminare il mio popolo. Agli usurpatori serve sempre un fattore su cui speculare. Dopo la mafia hanno inventato il fondamentalismo islamico, cosa avranno in comune Dio solo lo sa. Quando si è sciolta l’URSS mentre in Russia non nasceva nessun potere legittimo in Cecenia si metteva su invece uno Stato di diritto. Oggi si vede distruggere questo stato. Il 26 Novembre la città è stata invasa da oltre 170 unità corazzate, da cinquemila mercenari, da aviazione d’urto che hanno colpito con bombe e missili. E’ un precedente. I russi vogliono far sapere che faranno così in qualunque altra parte dell’impero.
Dudaev attorniato dai suoi seguaci durante le prime fasi della Rivoluzione Cecena
Tutti i ceceni sono con lei? E l’opposizione?
In ogni popolo ci sono elementi criminali ma li sistemeremo. E poi anche se volessi non potrei più indietreggiare. I ceceni non me lo permetteranno. L’indipendenza è un diritto vitale.
Quale strada per la pace?
L’unica strada pacifica. Le strade militari non portano da nessuna parte, né tantomeno alla pace. La Russia è un pericolo per il mondo. I massimi dirigenti politici russi chiedono ai militari la soluzione politica per un conflitto che è squisitamente militare. E quando si chiedono soluzioni ai militari si è già al collasso.
Quanto durerà tutto ciò?
La Russia è imprevedibile. Non esiste analisi, prognosi, diplomazia, legalità attendibile. Non si può credere a nulla. Avanzano come tori contro la pezza rossa, hanno costantemente bisogno di problemi esterni perché hanno paura di confrontarsi con quelli interni. Questo popolo è profondamente malato di russismo. Il mondo deve curare la Russia, ma nessuno vuole farlo.
Come bisognerebbe curarla?
Costringendola a rispettare il diritto internazionale da un lato e quello di Dio dall’altro. Il Vaticano potrebbe svolgere un ruolo importante.
E’ una richiesta ufficiale?
Ci siamo già rivolti al Papa perché della Chiesa ortodossa non ci fidiamo, serve troppo gli interessi del Cremlino.
Perché si è rivolto a Gorbaciov?
Lo considero un riformatore straordinario. Ha avviato una causa importante e io sono convinto che ha ancora un futuro e che è l’unico in grado di guidare la Russia di oggi.
Ma i russi non la pensano così…
Nell’85 e nell’87 lo accoglievano con le lacrime agli occhi. Può cambiare di nuovo. Non faccio pronostici ma per me il suo ritorno curerebbe molti mali cronici della Russia. Al potere ora sta gente di strada. Eltsin ha goduto dell’onda d’urto di Gorbaciov e poi ha scaricato lui e tutti i veri democratici. Oggi è attorniato da avanzi di galera. Le dico una cosa: in Russia arriveranno al potere forze terribili armate di soldi e armi. E sarà una tragedia.
Lei ha rimpianto per l’URSS?
Si poteva e si doveva fare diversamente, con graduali riforme democratiche. Sarebbe stato meglio per tutti. L’URSS è andata a rotoli e il tentativo di tenerla insieme ha generato violenze lungo tutto il perimetro dell’impero.
Qual è la Cecenia che sogna?
Libera.
Libera nella CSI?
Dovrà decidere il popolo.
Mi dica della guerra: ci sarà sul serio?
E’ una domanda difficile. Se dipendesse da me pur di non farla mi brucerei sulla piazza pubblica. Ma non dipende da me. Ho detto che se non vado a genio alla Russia o al mondo che si riconosca il diritto di esistere della Repubblica cecena e io andrò a coltivare i fiori. Io non sono un politico. Come soldato sono capace di dire solo quello che vedo. E dopo tanti anni non si possono cambiare le proprie abitudini.
Ho letto che viene definito il nuovo Shamil…
Non bestemmiamo. Shamil fu un uomo geniale, mise in ginocchio i russi per 20 anni, costruì il primo grande stato caucasico, io mi sono occupato solo della piccola Cecenia.
Aslan Maskhadov fu Capo di Stato Maggiore dell’esercito ceceno dalla primavera del 1994 al Settembre del 1996, quando fu nominato capo del Governo Provvisorio post – bellico. Eletto Presidente della Repubblica nel Gennaio 1997, guidò la ChRI fino alla sua morte, nel 2005.
Durante la Prima Guerra Cecena fu l’ideatore delle strategie di difesa e di attacco per tutto il corso del conflitto: organizzò la difesa di Grozny nei primi mesi del ’95, la guerra di posizione fino al Maggio dello stesso anno, la guerra di movimento sulle montagne ed i due riusciti raid su Grozny, l’ultimo dei quali, passato alla storia come Operazione Jihad, condussero alla vittoria cecena ed agli Accordi di Khasavyurt.
Di seguito riportiamo un’intervista rilasciata da Maskhadov nel Giugno 1999 alla testata “Small Wars Journal”:
Aslan Maskhadov
IL FIASCO DI CAPODANNO
I russi non intrapresero una guerra correttamente, erano preparati soltanto a subire perdite enormi ed a distruggere tutto. Non valorizzavano i loro soldati, mentre noi consideravamo ognuno dei nostri uomini. Per esempio: la Battaglia di Grozny del 31 Dicembre 1994. C’erano rumorosi e vanagloriosi annunci del Ministro della Difesa russo, Pavel Grachev, secondo i quali la città avrebbe potuto essere presa con un reggimento di forze speciali. I russi entrarono in Cecenia con circa 3 – 4 divisioni. Erano posizionati nella valle di Dolinsky, a Tolstoy Yurt, ad Argun e ad Achkoy – Martan. Avevano truppe d’elite e commandos, reggimenti corazzati.
Il nostro primo problema fu quello di evitare la ritirata ed ingaggiare i russi in battaglia. La prima battaglia che combattemmo si svolse letteralmente alle porte del Palazzo Presidenziale. Il mio Quartier Generale era nel basamento del palazzo. La 131° Brigata Motorizzata, il 31° Reggimento Corazzato Samara ed altre unità furono in grado di entrare dentro Grozny senza opposizione. Non avevamo un esercito regolare che potesse opporsi alle forze russe, soltanto alcune piccole unità che cercavano di tenere varie posizioni nella città. I russi piombarono dentro Grozny sui loro APC e carri armati senza usare la fanteria, come fossero ad una parata. Circondarono il Palazzo Presidenziale, la città fu riempita di carri. Ero nel mio Quartier Generale, circondato dai carri russi. Decisi che avremmo dato battaglia. Detti il comando a tutte le piccole unità che avevamo in giro per la città di lasciare lo loro posizioni e di dirigersi al Palazzo Presidenziale. Loro non sapevano che ero circondato ma io sapevo che quando fossero arrivate avrebbero affrontato il nemico.
Video contenente filmati originali della Battaglia di Grozny. L’audio è in russo.
Le nostre unità iniziarono ad arrivare, videro le posizioni russe e la battaglia iniziò, i russi non se l’aspettavano. Erano seduti ai loro posti, molte delle loro truppe erano posizionate come in una parata intorno al Palazzo e sulla piazza di fronte alla stazione ferroviaria. I loro APC furono distrutti in meno di quattro ore. I russi fuggirono, cacciati, attraverso Grozny, inseguiti dalle nostre unità armate di lanciagranate, anche da ragazzi con bottiglie molotov. Questo durò per 3 giorni: tutte le apparecchiature russe, 400 tra carri e APC che entrarono a Grozny, furono distrutti. La città si riempì di cadaveri di soldati russi. Fu un tremendo successo.
LANCIAGRANATE CONTRO CARRI ARMATI
Una delle ragioni del nostro successo fu l’operazione del 26 Novembre, quando l’opposizione cecena attaccò la città con 50 veicoli corazzati. Gli ufficiali e gli equipaggi erano contractors russi. Raggiunsero il Palazzo Presidenziale, dove il primo carro fu distrutto. Dopo tre ore tutto l’equipaggiamento era in fiamme o catturato, inclusi 11 carri armati. Questa battaglia fu una sorta di prova. La gente perse il timore dei carri russi: erano semplici scatole di fiammiferi. Questo primo successo dette fiducia ai nostri uomini: il 31 Dicembre, quando vedevano un carro armato, consideravano un loro compito distruggerlo. In alcuni casi divenne una competizione: “lasciami questo carro, è mio”.
Quando tutti i mezzi russi furono distrutti intorno al Palazzo Presidenziale, la mia decisione successiva fu quella di difendere il Palazzo. Combattenti e volontari iniziarono arrivare dai quattro angoli della Cecenia. Li registrai e dissi loro “questa è una casa, avete 40 uomini, difendetela e non muovetevi da lì”. Così un poco alla volta venne organizzata la difesa intorno al Palazzo Presidenziale. La divisione commando del Generale Babichev, che stazionava nei pressi di Achkoy Martan si mosse lungo la cresta montuosa e si affacciò su Grozny, altre unità russe furono richiamate, la battaglia si accese intorno al Palazzo per ogni casa, ogni quartiere della città. Le nostre unità si comportarono bene, respinsero ogni attacco. I russi erano riluttanti ad usare la fanteria. Ebbi l’impressione che fossero impauriti, tutto quello che volevano era trincerarsi in posizione difensiva, nascondere i loro carri, ma era impossibile in queste condizioni: al contrario era più pericoloso. Così i carri e gli APC bruciarono ed i soldati perirono all’interno. Non ci fu nessun tentativo di difendere o coprire i carri, o di accompagnarli con la fanteria. Semplicemente loro avanzavano in massa, e come avanzavano venivano distrutti. Più tardi la battaglia si accese intorno all’edificio del Consiglio dei Ministri, all’Hotel Kavkaz, ed al vecchio Istituto Petrolifero, dove avevamo 12 combattenti. L’edificio fu circondato da carri armati, i quali iniziarono a sparare senza sosta. I miei uomini mi chiesero aiuto, ma non potevo provvedere a loro. “Allah vi aiuterà” dissi loro. Un’ora più tardi fecero fuori un carro, poi un altro. AI russi saltarono i nervi e si ritirarono. Fu così che combattemmo.
Miliziani combattono tra le carcasse di mezzi blindati russi messi fuori combattimento.
DAL PALAZZO PRESIDENZIALE A PIAZZA MINUTKA
Difendemmo il Palazzo per 18 giorni. Dopo un costante fuoco di mortaio rimase soltanto il guscio dell’edificio, tutti gli alberi di fronte al palazzo furono spazzati via. Vicino, nel quartiere dell’Archivio Nazionale, a 20 metri dal Palazzo, le unità Alfa e Beta tentarono di irrompere intorno al 5/6 Gennaio (1995). Occuparono l’edificio che si trovava all’angolo con il Palazzo Presidenziale. Mi aspettavo un attacco da quella direzione, e tenni le mie migliori unità su quel lato. Loro provarono molte volte ad irrompere ma non riuscirono a coordinare un attacco frontale completo. Poi intorno al 18 Gennaio l’aviazione russa lanciò bombe di profondità sul Palazzo Presidenziale. Tre bombe colpirono il basamento dove avevamo il nostro Quartier Generale – una colpì il corridoio, un altra l’infermeria, ed una porta sul retro. Fortunatamente il giorno precedente le donne ed i dottori erano stati evacuati, ed erano rimasti soltanto i soldati e la Guardia Presidenziale.
Rimanemmo con il cielo sopra le nostre teste e decidemmo di lasciare il Palazzo. Pianificai la ritirata nella notte, intorno alle 22. Tutti i nostri combattenti che erano circondati in città o che stazionavano più lontano in periferia dovettero ritirarsi per primi oltre il fiume Sunzha. Quelli che coprivano la ritirata e la Guardia Presidenziale furono gli ultimi ad andarsene, alle 23. Yandarbiev ed io ce ne andammo alle 22 in direzione del Sunzha. Avevamo 4 uomini con me. Basayev ci stava aspettando oltre il Sunzha, dove installammo un altro Quartier Generale. Tutti quelli che riuscirono a ritirarsi dalla città attraversarono il Sunzha: i russi ovviamente non se ne accorsero. Continuarono a bombardare il Palazzo Presidenziale per tre giorni, chiaramente non intenzionati ad avanzare le loro truppe.
Militari russi attraversano le rovine di Piazza Minutka
La decisione successiva fu quella di mettere tutte le truppe disponibili lungo una linea di difesa sul Sunzha. Mentre i russi ancora bombardavano il Palazzo, prendemmo rapidamente posizione e costruimmo difese su ogni ponte sul Sunzha che divide la città in due. Potevamo assegnare soltanto 5 o 10 uomini ad ogni ponte. Installai il mio Quartier Generale nell’ospedale cittadino numero 21. Rafforzammo le nostre posizioni con nuove truppe fresche appena arrivate. Riuscimmo a tenere la posizione per un altro mese, con attacchi e ritirate, attacchi e ritirate. Dall’altra parte del Sunzha i russi rasero al suolo ogni edificio, ma non portarono i loro carri oltre i ponti per via delle nostre difese. Alla fine riuscirono ad aprirsi una breccia alla stazione dei tram, attaccandoci da dietro. Eravamo virtualmente accerchiati. Fu in quel momento che decisi, contro ogni logica militare, di contrattaccare […] costringemmo i carri a ritirarsi. Come fu possibile? I nostri uomini non sapevano come scavare trincee, lo consideravano umiliante, ma non c’era scelta – le case erano troppo piccole e fragili, non avrebbero retto ad un attacco corazzato. Così costituimmo una linea tra il Sunzha e (Piazza) Minutka, scavammo trincee, e con circa 40/50 uomini avanzammo metro per metro, scavando ancora trincee finché non ci trascinavamo vicino ai carri e li bruciavamo. Li pressavamo finché non si ritiravano, poi scavavamo ancora e avanzavamo. Era una guerra di trincea altamente non convenzionale!
Nel frattempo nuovi sviluppi pericolosi stavano avvenendo nella direzione del Ponte Voykovo (un ponte sospeso). I carri lungo il fiume stavano coprendo la fanteria che tentava di passare il ponte. I russi avanzarono fino a 200 metri dal mio Quartier Generale. Lanciai tutte le forze disponibili contro di loro ma non riuscii a fermare l’offensiva. Avevano già raggiunto Piazza Minutka. Decidemmo di muovere il Quartier Generale indietro e di abbandonare le nostre posizioni sul Sunzha. La ritirata fu organizzata nella stessa maniera in cui era stata messa in atto la ritirata dal Palazzo Presidenzale – ogni unità sapeva in quale ordine ed a quale ora ritirarsi. La nostra retroguardia era nel 12° distretto, comandata da Shamil Basayev. Alle 18 ci eravamo tutti ritirati alla nostra terza linea di difesa nel 30° e nel 56° distretto lungo la cresta montuosa.
I resti del quartiere governativo di Grozny, Febbraio 1995
DA SHALI A VEDENO
Quanto tenevamo Grozny vivevamo una sensazione di euforia. Invece temevamo che se avessimo abbandonato la città saremmo stati vulnerabili nelle pianure. Non avevamo unità corazzate e non potevamo sopravvivere lì. Qualunque cosa fosse successo sarebbe stato più facile combattere in città, così combattemmo casa per casa. Tenemmo duro per circa due settimane. Ci lasciai Shamil Basayev e spostai il mio comando a Shali, posizionando le difese lungo il fiume Argun. Vi portammo tutto quello che avevamo, qualche carro e qualche cannone. Tenemmo ancora per un po’, poi dovemmo abbandonare Shali ed Argun, non volevamo combattere la come avevamo fatto a Grozny, avremmo condannato quelle città. Quando i russi attraversarono l’Argun ci ritirammo sulle montagne. Sapere che avevamo le montagne dietro di noi ci dette una certa sicurezza. Non difendemmo i villaggi tra Shali e le montagne per evitare distruzioni inutili. Le montagne erano la nostra ultima speranza. Organizzammo le nostre difese a Serzhen Yurt, Bamut, Agishty, lungo le gole delle montagne. Tenemmo duro per un paio di mesi perché i russi non erano intenzionati a muovere un’offensiva nel sud, anche se i bombardamenti aerei continuarono per tutto il tempo.
Nel Maggio 1995 dovemmo ritirarci da Vedeno. Fu lì che fummo traditi. Stavamo tenendo le cime sopra il Canyon Vashtary – è una gola così stretta che due uomini con i lanciagranate avrebbero potuto fermare un’intera divisione. Avevo cento uomini ed ero sicuro al cento per cento che i carri non sarebbero passati quando, improvvisamente, 400 carri mossero su Mekhketi alle nostre spalle. Questa fu la situazione più difficile che affrontammo durante la guerra. Non potevamo capire come questo potesse essere successo. Ancora non conosciamo com’è andata quel giorno. Fummo costretti ad abbandonare Vedeno.
Soldati delle forze armate della ChRI si sfidano in un torneo sportivo a Vedeno, poco prima che la città venga occupata dai russi. A fare da arbitro Shamil Basayev,
BUDENNOVSK E IL NUOVO CORSO DELLA GUERRA
Budennovsk fu seguita da negoziati per un cessate – il – fuoco che ci dette un po’ di respiro. L’accordo per il cessate – il – fuoco fu un moderato successo, anche se Dudaev non ne fu soddisfatto. I russi avevano tentato di marginalizzare la resistenza spingendola sulle montagne. Tuttavia insistei durante i negoziati affinché fosse istituita una forza di “autodifesa” di 20/30 uomini in ogni villaggio, città o insediamento in Cecenia. Il Generale Kulikov fu d’accordo. Tre mesi più tardi, quando divenne ovvio che il cessate – il – fuoco stava venendo violato, si lamentò con me: “non vi abbiamo disarmato, ma riarmato!”. Prima avevo cinque, seimila combattenti. Con le unità di autodifesa portai i membri delle nostre forze armate a dieci, dodicimila. Ma la cosa più importante era che ancora una volta eravamo padroni nelle nostre città e villaggi. I villaggi più piccoli fornivano compagnie, i più grandi battaglioni e reggimenti, ogni distretto aveva i suoi comandanti, i nostri numeri crescevano. Così tutto quello che i russi avevano precedentemente conquistato era andato perduto per loro.
Dopo l’attentato dinamitardo al Generale Romanov i combattimenti ripresero. I russi lanciarono un’offensiva politica con la pretesa di disarmare e pacificare i villaggi, e di installare un’amministrazione – fantoccio. Come ci riuscirono? Per esempio nel caso di Gerzel, circondarono il villaggio con 400 carri armati. Avevamo soltanto 30 combattenti nel villaggio. Il nostro ordine fu che questi non difendessero il villaggio ma vi si nascondessero dentro. Se i russi fossero entrati nel villaggio loro avrebbero dovuto distruggere quanti più carri ed APC avessero potuto, per poi ritirarsi. I russi dettero un ultimatum. Generalmente non si arrischiavano ad entrare nel villaggio quando sapevano che c’erano dei combattenti al suo interno, ma si mantenevano alla periferia. Poi uno o due dei loro uomini della milizia apparivano e facevano delle fotografie, fingendo che si stessero svolgendo negoziati per il disarmo del paese. Questi scenari vennero ripetuti in molti posti.
Aslan Maskhadov e Shamil Basayev
Decidemmo di contrattaccare a Novogroznensky nel Dicembre del 1995. Combattemmo la per una settimana. All’inizio la nostra tattica fu quella di ingaggiare i russi, poi ritirarsi e prendere posizione tra i villaggi e lungo le strade, colpirli lungo le vie di comunicazione, poi attaccare di nuovo le posizioni russe nelle città, e ancora ritirarci. Più tardi lanciammo operazioni di commando per tagliare le linee di comunicazione. Nella primavera del 1996 fummo ancora una volta spinti verso sud nelle montagne. I russi occuparono Dargo, Benoy, Shatoy, Bamut. Dovemmo ritirarci fino ad Itum Khale. Più tardi iniziarono i negoziati di Nazran, nei quali entrambe le parti si accordarono per interrompere le azioni militari. Tuttavia i russi non avevano intenzione di rispettare questi accordi. Quando tornai da Nazran con la mia delegazione, fummo attaccati tre volte sulla strada principale. Praticamente tutte le strade erano minate, fu un miracolo se riuscimmo a tornare indietro vivi.
Il 9 Giugno ci incontrammo nel Quartier Generale di Mechkey con un rappresentante di Lebed (Kharlamov). Dopo l’incontro ci furono pesanti attacchi aerei su tutte le mie basi. Unità di commando vennero trasportati via elicottero ed occuparono le creste montuose. Fu un ultimo disperato tentativo da parte dei russi di prendere l’iniziativa. Eravamo circondati, schiacciati contro le montagne sotto il fuoco dell’artiglieria e dell’aereonautica. Riuscii ad attraversare i passi di montagna a piedi ed a ritirarmi attraverso Uluskert. Shamil Basayev sfondò attraverso Sharoy. Attraversammo il fiume Argun, superammo Dasho Borzoy e raggiungemmo Nizhny Atagi. Sfuggimmo per miracolo. A quel punto fu chiaro che non ci sarebbe stata pace, che tutto stava ricominciando di nuovo. Fu allora che prendemmo la decisione di riprendere Grozny.
Maskhadov esorta i suoi sostenitori, Luglio 1995
OPERAZIONE JIHAD
Avevamo iniziato a preparare questa operazione sei mesi prima. Avevo sempre pensato che la guerra sarebbe finita con la riconquista di Grozny. Avevo pensato a questo continuamente, fatto alcune prove radio, provocando gli ufficiali russi. Studiavo sulle mappe la posizione di ogni unità russa, gli accessi, quali rotte avrebbero dovuto seguire i comandanti, eccetera. Avevo tutto pronto. Organizzammo un incontro con i nostri comandanti, i quali ci fecero i loro rapporti, condivisero le informazioni, e fecero ricognizioni lungo i percorsi. Conoscevamo le posizioni dei russi a Grozny, i loro numeri, dove si trovavano i blocchi stradali. Il 3 Agosto 1996 detti l’ordine di muovere sulla città. In quel momento i russi erano ovunque, anche a Dargo. Ci muovemmo attraverso le loro posizioni da tutte le direzioni, anche da oltre il Terek. Intendevamo entrare a Grozny il 5 Agosto. Incredibilmente quel giorno i media russi annunciarono che i ceceni sarebbero entrati a Grozny. Ero impensierito perché c’erano due aree nel 56° Distretto di Grozny dove era facile prendere in un’imboscata le nostre truppe, ma era troppo tardi per fermare l’attacco. 820 uomini presero parte all’operazione. Detti ordine che ogni comandante guidasse i suoi uomini, sia che avesse con sé 20 combattenti sia che ne avesse 200. Avrebbero dovuto essere in prima linea. Lo considerai la cosa più importante. Se fossero morti, saremmo morti tutti.
L’attacco iniziò alle 5 di mattina del 6 Agosto. Tutti i nostri obiettivi furono centrati. Fu un successo. I nostri uomini entrarono in città attraverso diverse rotte per raggiungere i loro obiettivi )presidi, basi, commissariati, la guarnigione di Khankala) e li presero di sorpresa, poi proseguirono tagliando le rotte e facendo si che nessuno le attraversasse, disponendo qualche cecchino ed un mitragliere. Ogni unità sapeva precisamente in quale sezione avrebbe dovuto operare. In pochissimo tempo tutte le strade furono bloccate fino all’aeroporto di Severny ed i russi furono immobilizzati. Quando le colonne russe tentarono di penetrare in città dall’esterno era troppo tardi. Tutte le basi erano state catturate o disarmate. Non riuscimmo a prendere il palazzo del governo e quello del Ministero degli Interni, e decidemmo di distruggerli. Il giorno successivo apparve Lebed, inaspettatamente, alle 2 di mattina, a Starye Atagi. Offrì l’apertura di un negoziato. […] Mi disse: “Se lasciate la città vi do la mia parola di ufficiale che presto non ci sarà un solo soldato russo sul suolo ceceno.” La mia risposta fu “non lascerò mai la città, è inutile, anche se volessi farlo non sarei autorizzato a farlo – parliamo in un altro modo”. Suggerii lui che i russi avrebbero potuto ritirare le loro truppe dalle montagne alle pianure. Per ogni reggimento che avessero ritirato io avrei ritirato una delle mie unità, ed avremmo potuto stabilire una commissione militare congiunta. Lui non poteva essere d’accordo: “Il presidente mi ha affidato un compito”. Ci lasciò, nel panico. A questo seguì l’ultimatum di Pulikovsky: avremmo dovuto ritirarci o lui avrebbe raso al suolo la città. Fu probabilmente un’iniziativa di Lebed. Poi mi incontrai con Pulikovsky (venne ad Atagi). Era in uno stato terribile, molto nervoso. “Che cosa avete fatto, ci sono donne e bambini a Grozny, come avete potuto fare una cosa così terribile?” Ci confrontammo per due ore. Gli dissi che era lui l’aggressore, che era entrato nella mia capitale con la sua armata, e che io la stavo liberando dai barbari russi. Questa discussione andò avanti per 30 minuti. Lui capì, alla fine. Gli ripetei che non ci saremmo mossi da Grozny. La conversazione era surreale: Pulikovsky era sconvolto dal fatto che non intendessi ubbidire agli ordini del Presidente russo. Io gli feci notare che se fossi stato disposto ad ubbidire agli ordini di Eltsin non ci sarebbe stata la guerra. Ci lasciammo senza aver raggiunto un accordo. Quando il termine dell’ultimatum scadde riapparve Lebed, dichiarando che “i ragazzi hanno fatto una dichiarazione avventata, senza essersi consultati con le alte autorità, ecc.” Pulikovskoy fu rimpiazzato da Tikhomirov. Lebed accondiscese alle nostre condizioni. Firmammo un cessate – il – fuoco. I russi iniziarono a ritirare le loro truppe dalle montagne, Shatoy, Benoy. Poi scegliemmo i distretti cittadini dai quali avrebbero dovuto ritirarsi. Istituimmo una commissione congiunta. Lebed commentò: “La città è vostra, se una commissione ha soltanto due ceceni, è sufficiente per essere nelle vostre mani”. Lo rassicurai: “Non preoccuparti, darò ordine ai miei uomini di non bullizzare i suoi soldati”.
Miliziani separatisti caricano le loro armi, Grozny, 1996
LEZIONI DI GUERRA
Lo spirito è il fattore più importante. Per esempio: come comandante delle unità di resistenza, dico ai miei uomini: “restate in questa casa e non muovetevi”. Loro considerano umiliante rimanere semplicemente seduti ad aspettare. Dopo due o tre giorni non rimarrebbero ancora a lungo, farebbero automaticamente una sortita, proverebbero a distruggere qualcosa. Successivamente mi spiegherebbero la loro tattica militare. Io risponderei: la Russia ha migliaia e migliaia di carri. Il fatto che avete bruciato 10 APC non farà alcuna impressione. Inoltre è l’unico esercito che non conta la sue vittime. Per questo vi prego, rimanete nelle vostre posizioni per tutto il tempo che vi ordino. Se ve ne andate almeno fatemelo sapere”. In ogni caso era difficile tenerli sulle loro posizioni per più di 3 giorni – erano iperattivi! Ogni ceceno è un generale, uno stratega ed un tattico, ognuno ha un piano per sconfiggere la Russia! Per questo dovevo lasciare una certa libertà di iniziativa. Questa fu la premessa del nostro successo. Fu grazie alla mentalità ed al carattere della nostra gente.
C’era anche il fattore religioso. Come militare conoscevo le capacità dell’esercito russo. Quando una colonna russa avanzava e non ti erano rimaste munizioni adeguate e stavi aspettando che si muovessero di 200 o 300 metri per distruggerli, e questo ti riusciva – questi erano miracoli. Fu in quel momento che il fattore religioso iniziò ad avere gioco. Cominciavi a credere che il destino fosse nelle mani di Dio. Ricordo di essermi sentito così a Vedeno, nel Maggio 1995, quando i bombardieri russi arrivavano come uno sciame di mosche. Anche ad Argun, dove avevo il mio Quartier Generale: alcuni anziani vennero per lamentarsi dei bombardamenti intorno ai loro villaggi. Ero furioso e mi rifiutai di riceverli nel mio Quartier Generale. Uscii fuori dal mio seminterrato, c’era una Zhiguli, aprii la portiera e due missili caddero a dieci metri di distanza. Gli uomini furono fatti a pezzi ma io non ricevetti nemmeno un graffio. Ci furono molte altre situazioni nelle quali sopravvissi miracolosamente, cacciato dagli aerei da caccia […].
Sostenitore dell’indipendenza sventola la bandiera della ChRI ad una manifestazione a favore del ritiro delle truppe federali. Grozny, primavera del 1996.
C’era un altro fattore. Gli analisti affermavano che avevamo cinquemila/diecimila combattenti, ma noi sapevamo che era importante mostrare che tutta la nazione stesse combattendo. Mancavamo di tutto, ma ogni casa era un rifugio. In ogni luogo eravamo rifocillati e potevamo riposarci. Ovviamente era pericoloso per le persone, ma nessuno si rifiutò di darci rifugio. Ogni proprietario di casa aveva della riserve. I ceceni sono ricchi perché hanno sempre riserve, non vivono alla giornata. Chiedemmo alle persone di tenere dimostrazioni, bloccare la strade, eccetera. Questa era la lotta di tutta la nazione.
Il resto era irrilevante. Sono stato spesso criticato e consigliato che avremmo dovuto passare alla guerra partigiana. Dudaev consigliò delle tattiche “afghane” “attacca e fuggi”. Queste erano le tattiche dei volontari stranieri. Ero contrario perché in un piccolo territorio come il nostro se avessimo usato tali tattiche saremmo stati spinti in profondità sulle montagne in meno di una settimana. Durante tutta la guerra tenemmo una linea di difesa, nella città come nelle montagne avevamo un territorio nel quale ritirarsi. All’inizio le nostre tattiche erano puramente difensive, poi passammo a manovre offensive, più tardi a tattiche di commando ed alla guerra sulle linee di comunicazione. Non sono mai stato entusiasta riguardo a raid come quelli su Budennovsk o Pervomaskoye (Klizyar, ndr). Dovevamo combattere con onore, per mostrare non soltanto il coraggio ma anche le qualità del nostro popolo. Le leggi di guerra dovevano essere seguite nonostante i nostri piccoli numeri
Volevo mostrare la superiorità del nostro codice d’onore al pari delle nostre abilità militari. Penso che ci riuscii. Non approvai operazioni come quella di Pervomaikoye (di nuovo, Klyziar, ndr) – sapevo che l vittoria sarebbe stata nostra in ogni caso. Budennovsk fu più importante: costrinse i russi al tavolo dei negoziati. Fu la prima volta che la gente in Russia si rese conto che c’era una guerra. Era molto importante psicologicamente – i russi non potevano credere che i civili potessero essere uccisi alla luce del giorno in “tempo di pace”. Che tipo di pace era questa? Loro non credevano che ci fosse la guerra. Era importante dimostrare che le persone potevano essere uccise anche in Russia. Budennovsk aprì gli occhi al russo medio.
A Vedeno giunse un gruppo di 30 madri, parlai con loro, le rassicurai quando un massiccio attacco aereo ci colpì. Ero arrabbiato, mentre ero gentile con queste donne che avevano mandato i loro figli ad uccidere i miei fratelli, questi barbari ci colpirono. Le madri capirono che ero furioso e se ne andarono. Fino ad allora non avevano preso sul serio la guerra, anche se volevano proteggere i loro figli.
Aslan Maskkhadov ed Alexander Lebed firmano i protocolli di Khasavyurt
EDUCAZIONE MILITARE
Come ufficiale ceceno, dovevo ri – regolare tutti i concetti, diventare professionale in un altro modo. Tutti gli uomini erano volontari, non potevo neanche dar loro un fucile mitragliatore o una pistola. Ognuno aveva la sua idea riguardo la tattica, come dicevo prima. Era impossibile dar loro ordini, era necessaria più diplomazia. Quando gli uomini mi spiegavano come combattere, dovevo ascoltarli diplomaticamente per 30 minuti, far loro i complimenti, poi imporre il mio volere. Era un approccio differente rispetto all’esercito russo.
Ti darò un esempio: un giorno Dzhokhar venne da me al Quartier Generale. I comandanti si raggrupparono e lo attaccarono: “che tipo di guerra è questa? Non abbiamo niente!” Lui li guardò e disse loro “Dunque, che cosa posso darvi se non abbiamo niente?” Mi sentii veramente dispiaciuto per lui. Lui si alzò e disse: “Vi ho ordinato di combattere? Siete venuti di vostra spontanea volontà. State combattendo per Allah” e se ne andò. Se avesse promesso qualcosa sarebbe stato più difficile. Sapevamo di non avere nulla, sapevamo che non potevamo aspettarci alcun aiuto nonostante il mondo esterno parlasse di mercenari stranieri, arabi, “tuniche bianche”, afghani. Ma ce n’erano così pochi di questi, qualche dozzina al massimo. Le armi che riuscivamo ad ottenere dall’esterno erano poche quasi nessuna. Le migliori risorse erano i magazzini di rifornimento russi.
I nostri uomini divennero ingegneri piuttosto esperti sapevano come costruire le loro difese. Il tiro dei GRAD non li impressionava più di tanto e la fanteria russa non aveva il morale per combattere. I Russi circondarono Pervomaiskoye con un triplo anello e pensavano che non ci fosse bisogno di un attacco di fanteria. Spostai il mio Quartier Generale a Novogroznensky e portai tutti i miei rifornimenti. Da lì facemmo una diversione in direzione di Sovenskoye per aiutare gli uomini a Pervomaiskoye, e richiamammo il fuoco dell’anello esterno su di noi. A quel punto aprimmo uno stretto corridoio dall’altra parte, lungo il Terek, dal lato del distretto di Shelkovsky, mentre i russi pensavano che avremmo tentato di salvarli da Sovetskoye. Loro si portarono dietro tutti gli ostaggi ed i prigionIeri. Se i miei uomini fossero stati russi avrebbero spinto i prigionieri in avanti sul campo minato, ma al contrario loro stavano guidando la sortita. Tre o quattro ostaggi perirono. Noi perdemmo 90 uomini. L’operazione fu un errore, loro furono ingannati muovendosi verso Pervomaiskoye. Avrebbero dovuto rimanere a Klizyar.
Aslan Maskhadov ad altri alti funzionari della ChRI (Abusupyan Mosvaev alla sua destra, Akhmed Zakayev dietro col cappello nero) pregano di fronte alle rovine del Palazzo Presidenziale
Costruito per ospitare le alte gerarchie del Partito Comunista, l’imponente edificio divenne il cuore pulsante del separatismo ceceno ed il suo principale simbolo politico. Nelle sue stanze si affaccendarono i funzionari della giovane repubblica indipendente, i ministri dei governi presieduti da Dudaev e gli ufficiali dello Stato Maggiore dell’esercito, durante i terribili giorni dell’Assalto di Capodanno. Per conquistarlo l’esercito russo impiegò tutte le sue forze, nella convinzione che se questo fosse caduto i separatisti avrebbero perso ogni speranza. La sua conquista richiese diciannove giorni di combattimenti casa per casa. Devastato e saccheggiato durante la Prima Guerra Cecena, fu demolito nel 1996 e mai più ricostruito.
IL RESKOM
Con il ritorno dei ceceni e degli ingusci dalla deportazione del 1944, i nuovi leaders della Ceceno – Inguscezia vararono un ambizioso piano urbanistico nella città di Grozny, per accogliere le centinaia di migliaia di ex – esiliati che stavano rientrando nel paese. Il fulcro di questo progetto edilizio fu il Palazzo del Partito Comunista, chiamato in acronimo Reskom: per realizzarlo venne reclutato un ream di architetti ed ingegneri moldavi. Agli inizi degli anni ’80 l’edificio venne portato a termine: si trattava di una gigantesca struttura di 11 piani (9 fuori terra e 2 interrati) atti ad ospitare uffici, comitati, assemblee direttive ma anche centri di controllo, stazioni per la telecomunicazione e magazzini. Il Palazzo fu pensato per essere non soltanto un monumento al Socialismo, ma anche come una “fortezza di cemento” in grado di resistere a terremoti ed altre sollecitazioni naturali, e perfino a bombardamenti aerei e di artiglieria.
Il Reskom in una foto di fine anni ’80
Il Reskom sorse alla convergenza delle due principali arterie cittadine, il Viale della Vittoria, che proveniva da Nord (oggi Viale Putin), e il Viale Lenin, che dai sobborghi meridionali della città raggiungeva il Sunzha (oggi Viale Kadyrov). Due linee rette che, incontrandosi proprio davanti alla grande fontana del Palazzo, tagliavano in due la capitale ceceno – inguscia. Il Palazzo del PCUS avrebbe rappresentato quindi sia il fulcro politico che il centro geografico della città e, considerato che Grozny si trova pressappoco al centro della Cecenia, il Reskom sarebbe diventato il centro dell’intero Paese. Intorno ad esso si sviluppava tutto il quartiere governativo: nei pressi dell’imponente edificio trovavano posto il Sovmin (la sede del Consiglio dei Ministri sovietico), l’edificio del KGB, l’Hotel Kavkaz (deputato ad ospitare le alte personalità che si trovavano a soggiornare nel paese) l’Istituto Petrolifero di Grozny (la principale istituzione professionale della Cecenia) ma anche la sede della Radio TV di Stato, il Ministero della Stampa, la Casa della Cultura e via dicendo.
(lo Slideshow mostra alcuni degli edifici pubblici del quartiere governativo di Grozny: la Casa dei Pionieri in Piazza Lenin (1) l’Hotel Kavkaz (2) il Palazzo del KGB (3) il Ministero della Stampa (4) ed il Sovmin, divenuto sede del Parlamento dal Novembre 1991 (5)
IL PALAZZO PRESIDENZIALE
Quando i secessionisti presero il potere nel Novembre 1991 il Reskom fu ribattezzato “Palazzo Presidenziale”. Dudaev prese posto in un grande ufficio all’ottavo piano della struttura, mentre il Gabinetto dei Ministri fu sistemato al secondo piano. Al posto della bandiera della Repubblica Socialista fu fatto sventolare un grande drappo verde con lo stemma “Lupo – cerchiato” della Cecenia indipendente. Tra il 1992 ed il 1994 questo palazzo fu il centro del potere politico della ChRI, ed il simbolo stesso dell’indipendenza cecena: lungo il largo viale davanti al Palazzo Dudaev organizzò numerose manifestazioni pubbliche, tra le quali le celebri parate militari per l’anniversario dell’indipendenza e le sfilate del 23 febbraio, anniversario della deportazione del 1944. Un disegno del palazzo finì addirittura sul fronte della banconota da 50 Nahar, la moneta nazionale predisposta alla fine del 1994 e mai entrata in circolazione a causa dello scoppio della guerra.
Non è un caso, quindi, che sia gli oppositori di Dudaev sia i russi identificassero il Palazzo Presidenziale come il cuore del potere in Cecenia. Durante la guerra civile dell’Estate 1994 i piani di attacco delle forze del Consiglio Provvisorio si concentrarono sull’unico fondamentale obiettivo di far convergere quante più truppe possibile sul Palazzo Presidenziale, occuparlo ed installarvi un governo di salvezza nazionale che riportasse la Cecenia nella Federazione Russa. Quando il 26 Novembre 1994 Gantamirov, Avturkhanov e Labazanov tentarono di prendere Grozny e di rovesciare Dudaev col supporto della Russia, il piano che elaborarono rispecchiò questa convinzione: tutti i reparti avrebbero dovuto dirigersi verso il Palazzo Presidenziale e limitarsi a sorvegliare le vie d’uscita dalla città: una volta che questo fosse caduto per i dudaeviti non ci sarebbe stato scampo. In questo approccio c’era tutta l’ingenuità dell’opposizione antidudaevita, convinta di stare lottando contro un regime impopolare arroccato dentro i palazzi del potere. Dudaev rispose con efficacia a questa falsa idea, lasciando che i ribelli arrivassero quasi indisturbati al Palazzo per poi ingaggiarli da tutte le direzioni, mobilitando centinaia di volontari e costringendo le forze del Consiglio Provvisorio ad una precipitosa fuga.
Miliziani dudaeviti pregano prima della battaglia. Sullo sfondo il Palazzo Presidenziale ancora intatto
ASSALTO AL PALAZZO
Stessa errata valutazione fu compiuta dai Russi subito dopo la disfatta di Novembre: anche gli alti comandi federali pensarono a torto che una “spallata” al Palazzo Presidenziale sarebbe bastata a far crollare il governo separatista, considerato ormai impopolare. Il piano russo previde un “blitz” convergente sull’edificio, senza un adeguato piano di avanzata che coprisse le colonne d’attacco e senza attendere che le forze federali completassero l’accerchiamento della città. Di questo si approfittò Dudaev, ben conscio del fatto che un’invasione russa avrebbe velocemente ricompattato i ceceni intorno alla sua figura a difesa dell’indipendenza. Il Generale abbandonò molto presto il Palazzo Presidenziale, sistemando il governo nella cittadina di Shali, a Sudest della capitale. A guidare la difesa di Grozny rimase il suo Capo di Stato Maggiore, Aslan Maskhadov, il quale si sistemò nei piani interrati dell’edificio. I reparti russi, convinti di stare portando a termine niente di più che una manovra militare, si ritrovarono accerchiati in una gigantesca imboscata, nella quale si contarono centinaia di morti e feriti. Fu l’inizio di una devastante battaglia casa per casa durata due mesi, durante i quali le forze federali si aprirono la strada verso il Palazzo Presidenziale radendo al suolo quasi per intero il centro della città, per poi varcare la sponda destra del Sunzha e respingere i separatisti fino ai sobborghi meridionali. Come il Reichstag per il Terzo Reich, il Palazzo Presidenziale divenne il perno della difesa cecena, il premio simbolico dell’avanzata russa ed il simbolo della più devastante azione di guerra in Europa dalla Seconda Guerra Mondiale ad oggi.
Rovine di Grozny dopo la battaglia. Sullo sfondo le rovine del Palazzo Presidenziale
Una volta giunti nei pressi della struttura e messi al sicuro i fianchi, i russi iniziarono a bombardare a tappeto il Palazzo e gli edifici circostanti: il palazzo del consiglio dei ministri di epoca sovietica, il cosiddetto Sovmin, l’Hotel Kavkaz situato dall’altra parte del viale, ed alcuni alti edifici residenziali utilizzati dai separatisti come ricoveri e postazioni di tiro dei cecchini. All’interno del Palazzo Maskhadov aveva istituito il suo comando, un ospedale da campo ed un magazzino dal quale era possibile rifornire i reparti che difendevano palmo a palmo il quartiere governativo dall’avanzata dei russi. I bombardamenti federali raggiunsero il ritmo di un colpo di granata al secondo, ma non riuscirono a fiaccare la resistenza dei difensori, né a minare la poderosa struttura in cemento armato del quale era costituito. I tiri di artiglieria riuscirono a provocare vasti incendi ai piani superiori, ma non a scalfire quelli inferiori, al di sotto dei quali si trovavano i quartieri operativi. La stessa sala del Gabinetto dei Ministri, situata al secondo piano, rimase pressoché intatta, tanto che le sue suppellettili furono saccheggiate dai soldati russi quando questi riuscirono a conquistarlo.
Foto di Grozny dopo la battaglia: una delle vie principali della città (1) una panoramica con il Palazzo Presidenziale sulla destra (2) i dintorni di Piazza Minutka (3) la Chiesa dell’Arcangelo Michele (4) l’Istituto Petrolifero di Grozny (5) il Ministero della Stampa e dell’Informazione (6) Mezzi blindati russi si dirigono verso il Palazzo Presidenziale (7) Il quartiere governativo distrutto con il Palazzo Presidenziale sulla sinistra (8) foto aerea delle rovine del Palazzo Presidenziale, lato tergale (9) istantanea della spianata davanti al Palazzo Presidenziale (10) Il Palazzo Presidenziale da dietro l’Hotel Kavkaz (11) I ruderi del Palazzo Presidenziale (12) i ruderi del Parlamento (13)
LA CADUTA
Maskhadov ed i suoi si decisero ad abbandonare il Palazzo Presidenziale soltanto il 19 Gennaio, venti giorni dopo l’inizio dell’attacco, quando ormai gli edifici adiacenti alla struttura erano caduti nelle mani dei russi nonostante i rabbiosi contrattacchi delle unità di Shamil Basayev. Nel corso dei giorni precedenti il palazzo era stato colpito incessantemente dall’artiglieria e dall’aereonautica, e due potenti bombe a detonazione ritardata erano penetrate fin nei sotterranei dell’edificio sventrando il palazzo.Il giorno successivo le forze federali occuparono il palazzo quasi senza combattere, ed innalzarono sul pennone la bandiera russa. La presa del Palazzo Presidenziale fu tuttavia poco più che un successo politico. L’attesa dissoluzione delle forze separatiste non avvenne, ed i combattimenti per Grozny sarebbero durati ancora per un mese, per poi proseguire fino al Maggio successivo nelle campagne e sui monti della Cecenia.
Bandiere russe sventolano dalle rovine del Palazzo Presidenziale appena conquistato
Durante l’occupazione militare il palazzo, totalmente inagibile e spogliato di qualsiasi cosa avesse un valore, divenne il monumento all’indipendentismo ceceno: i movimenti contro la guerra ed i partiti che fiancheggiavano Dudaev tennero manifestazioni imponenti all’ombra delle sue rovine. La milizia del governo collaborazionista, nel tentativo di reprimerle, finì per sparare contro la folla il 24 ottobre, uccidendo un dimostrante e ferendone altri quattro. Ma il più grave fatto di sangue occorse l’8 Gennaio 1996, quando un’imponente presidio venne disperso dai collaborazionisti a colpi di lanciagranate. Morirono tre persone, e altre sette rimasero ferite. Il 10 febbraio un’esplosione, sembra accidentale, provocò la morte di una madre e di suo figlio, scatenando l’ennesima ondata di manifestazioni a seguito delle quali le autorità di occupazione decisero di demolire definitivamente l’edificio. Neppure la demolizione, tuttavia, andò per il verso giusto: i genieri militari minarono maldestramente il Palazzo, e la mattina del 15 febbraio, quando le cariche esplosero, ne venne giù soltanto un pezzo.
Manifestanti indipendentisti presidiano le rovine del Palazzo Presidenziale il 9 Febbraio 1996.
LE ROVINE
Quando i separatisti ebbero riconquistato Grozny, nell’Agosto del 1996, si trovarono padroni di una città in rovina. I resti del Palazzo Presidenziale erano talmente deteriorati che un suo ripristino era impossibile. Del resto la carenza di risorse economiche avrebbe comunque reso inattuabile la ricostruzione di un edificio così imponente. Le macerie rimasero così ammassate sul posto, ed il grande spiazzo dove un tempo sorgeva il rigoglioso giardino di rappresentanza divenne un pantano fangoso. Il degrado e la sporcizia si accumularono progressivamente, man mano che la stessa Repubblica Cecena di Ichkeria sprofondava nella corruzione e nell’anarchia. Nel Settembre del 1999 le truppe federali rientrarono in Cecenia, e Grozny tornò ad essere un campo di battaglia. Tra le vie del disastrato quartiere governativo si combatterono feroci battaglie, ma alla metà di Febbraio i reparti di Mosca riuscirono ad assicurarsi le sue rovine, e dalla fine del mese i combattimenti si spostarono nella parte meridionale della città. I resti del palazzo caddero definitivamente nelle mani dei russi, e furono presto sgomberati.
Con la fine delle operazioni militari in città e l’avvento del governo di Akhmat Kadyrov iniziarono i lavori di ricostruzione del quartiere. Di ricostruire un Palazzo Presidenziale non si parlò mai, e certamente non di ricostruire quel palazzo. Dopo la morte di Akhmat Kadyrov e la successione al potere di suo figlio Ramzan il piano di restauro del quartiere prese il via a pieno regime. Ad oggi l’area è quasi irriconoscibile rispetto a com’era prima della guerra. Al posto del Palazzo Presidenziale sorge un grande parco, al centro del quale è stato eretto un monumento ai poliziotti caduti nella guerra contro il terrorismo. Insieme a “Palazzo Dudaev” vennero sgombrati anche molti altri edifici, ed al loro posto è stato eretto il quartiere islamico della città, con una gigantesca moschea chiamata “Cuore della Cecenia”, un centro islamico ed un gigantesco giardino. La residenza del Presidente della Repubblica è stata costruita nella grande ansa sul Sunzha posta ad est del quartiere governativo.
La Battaglia di Khankala fu l’unica manovra di contrattacco in campo aperto dell’esercito della ChRI durante la Prima Guerra Cecena. Le unità cecene, al comando di Umalt Dashaev tentarono di ricacciare indietro i reparti del 129° Reggimento Motorizzato Guardie e del 45° Reggimento di Fanteria, penetrati in profondità sul fianco orientale della difesa di Grozny e giunte nei pressi della base militare di Khankala. Respinti, i separatisti si trincerarono all’interno della base, contrastando un violento contrattacco federale ed arrestando temporaneamente l’avanza delle truppe di Mosca
La mappa mostra le direttrici dell’attacco lanciato l’11 Dicembre delle forze federali. Il piano prevedeva che il Gruppo Est prendesse la Base di Khankala e da lì si spingesse fino a Piazza Minutka, centro nevralgico del settore meridionale della città.
ANTEFATTI
L’11 Dicembre 1994 i reparti del Raggruppamento delle Forze Unificate entrarono in Cecenia da tre direzioni: da nord – ovest (Mozdok) da nord – est (Klizyar) e da sud – ovest (Vladikavkaz). Per contrastare l’avanzata russa Maskhadov aveva predisposto una linea difensiva lungo il cosiddetto “Terek Ridge”, una catena di colline che protegge Grozny da Nord. La linea difensiva si incardinava sui villaggi di Dolinsky ad ovest (lungo la strada per la capitale cecena) e di Petropavlovskaya ad Est (poco a Nord della città). Le forze di Mosca tentarono di forzare la difesa cecena in questi due punti. I primi accaniti combattimenti si ebbero a Dolinsky, dove le unità di Vakha Arsanov riuscirono a reggere l’urto dei federali ed a tenerli inchiodati sulle loro posizioni fino al 21 Dicembre (VEDI: Battaglia di Dolinsky). Mentre Arsanov teneva la posizione ed i suoi reparti impegnavano le forze russe lungo tutta la dorsale del Terek Ridge, un consistente raggruppamento federale riuscì a forzare Petropavlovskaya il 17 Dicembre, prendendo il villaggio, ma soprattutto il ponte che avrebbe permesso loro di attraversare in sicurezza il Sunzha e piombare alle spalle della difesa cecena all’altezza del villaggio di Khankala, dove aveva sede la principale base militare del paese.
La presa di Petropavlovskaya permise ai federali di raggiungere in breve tempo i villaggi di Berkat – Yurt, Tsentora – Yurt e Primykaniye, alle porte della città di Argun, e ad un tiro di schioppo dalla base. Da quella posizione i russi avrebbero potuto facilmente bloccare l’autostrada Rostov – Baku, unico asse viario di una certa importanza che collegasse l’Est e l’Ovest del Paese: in questo modo Grozny sarebbe stata isolata dalle altre due grandi città della Cecenia (Argun e Gudermes) e l’esercito di Eltsin avrebbe consolidato il braccio sinistro di una gigantesca tenaglia che, con l’arrivo delle forze provenienti da Vladikavkaz a formarne quello sinistro, si sarebbe chiusa all’altezza di Gikalovsky, dando il via all’assedio di Grozny. Per evitare che ciò avvenisse Maskhadov inviò uno dei suoi più valenti uomini, Umalt Dashayev, ed uno dei suoi più efficienti reggimenti, il Battaglione Speciale Separato “Borz” (per approfondimenti vedi la pagina sulle Forze Armate della ChRI), a fermare l’avanzata russa verso Khankala.
L’ATTACCO CECENO
Nel Dicembre del 1994 Umalt Dashaev poteva essere considerato, insieme a Shamil Basayev ed a Ruslan Gelayev, uno dei migliori combattenti di tutto il Caucaso. Veterano della Guardia Nazionale (in effetti uno dei suoi comandanti fin dalla fine del 1991) e della Guerra in Abkhazia (aveva guidato una delle brigate internazionali della Confederazione dei Popoli del Caucaso, perdendo un occhio nei combattimenti) aveva fama di essere un coraggioso soldato ed un ottimo comandante. La sua unità, costituita come sottogruppo del Reggimento “Borz” (“Lupo”) di Ruslan Gelayev, era composta per lo più di veterani dell’Abkhazia, ed era schierata a difesa di Grozny. Maskhadov fornì a Dashayev alcuni mezzi blindati ed un paio di carri armati, e lo inviò presso la base di Khankala, dove avrebbe dovuto costituire un raggruppamento d’attacco e lanciarsi contro le posizioni occupate dai russi prima che questi riuscissero a trincerarsi ed a porsi sotto la copertura dell’aereonautica. Dashayev tentò di camuffare al meglio i suoi movimenti in campo aperto, ma già il 19 dicembre, quando ancora le truppe di Mosca stavano raggiungendo i loro obiettivi, i suoi mezzi furono intercettati dai caccia federali e bersagliati severamente. Ciononostante il 21 Dicembre il comandante ceceno guidò il reggimento all’assalto delle posizioni tenute dal 129° Reggimento Motorizzato Guardie e dal 45° Reggimento di Fanteria, sostenuti da mezzi corazzati del 133° Battaglione Carri. L’assalto si risolse in un nulla di fatto, con i federali ancora padroni dei villaggi di Berkat – Yurt, Tsentora – Yurt e Primykaniye ed i ceceni costretti a tornare sulle posizioni di partenza.
Umalt Dashaev, terzo da destra nella foto. Alla sua destra Shamil Basayev. Alla sua sinistra Khunkarpasha Israpilov.
LA CONTROFFENSIVA RUSSA
Dopo aver consolidato le loro posizioni i reparti federali presero ad avanzare verso il villaggio di Khankala e la base militare adiacente, ma i reparti di Dashaev tornarono presto all’attacco. Nella notte tra il 25 ed il 26 Dicembre ciò che rimaneva delle unità corazzate cecene (un carro T- 72 ed alcuni blindati) si lanciarono contro i reparti nemici, riuscendo a distruggere alcuni veicoli ed a interrompere l’avanzata dei russi. Durante lo scontro, tuttavia, i separatisti accusarono forti perdite e lasciarono sul campo tutti i mezzi in dotazione, bersagliati dall’aereonautica o messi fuori combattimento dai carri armati del 133°. Per tutta la giornata del 27 Dicembre i ceceni tentarono di impedire ai russi di mettersi in posizione offensiva, bersagliando le loro posizioni con colpi di mortaio e ferendo alcuni di loro. La mattina del 28, tuttavia, la difesa sembrò iniziare a cedere, ed i reparti di Mosca presero ad avanzare lungo due direttrici: da nord, lungo la ferrovia Gudermes – Grozny, e dal centro, lungo il campo di aviazione della base verso gli acquartieramenti militari.
I federali avanzarono piuttosto speditamente fino alle 11:30, incontrando scarsa resistenza e convincendosi di aver definitivamente sloggiato i difensori, ma quando giunsero all’altezza delle caserme della base, posizionate ad ovest del complesso, furono investiti dal fuoco di numerose mitragliatrici pesanti, oltre che dal tiro di almeno 5 carri T – 72 ed un T – 62. Dashaev aveva predisposto le unità in modo da mascherarle all’azione dell’aereonautica e poter sfruttare la massima potenza di fuoco laddove aveva la miglior copertura offerta dagli edifici della base. La battaglia infuriò per tutta la giornata, ed i federali accusarono gravi perdite, tra le quali almeno due T- 80. Nonostante l’agguerrita reazione dei federali, i separatisti rimasero barricati nelle baracche, costringendo gli attaccanti ad arrestare l’azione ed a porsi in posizione difensiva fuori dal raggio degli RPG. Durante l’azione di ripiegamento Umalt Dashayev, già ferito tre volte durante gli scontri, fu centrato mentre tentava di assaltare un veicolo nemico armato di lanciagranate.
Mezzo blindato dell’esercito regolare della ChRI nel 1994, poco prima dello scoppio della Prima Guerra Cecena
ESITI DELLA BATTAGLIA
Da un punto di vista strategico la battaglia si risolse con una vittoria russa. Le deboli unità corazzate della ChRI non riuscirono ad arrestare l’avanzata federale, dimostrandosi incapaci di impegnare seriamente il nemico in campo aperto, senza adeguata copertura aerea. La difesa approntata da Dashaev presso la base di Khankala rallentò i progressi russi, ma non impedì che il braccio sinistro della tenaglia predisposta dai comandi di Mosca si allungasse fino a coprire tutto l’arco necessario a chiudere l’accerchiamento. Tuttavia è importante notare che la fiera resistenza offerta dai separatisti fu tra le ragioni che portarono, alcuni giorni dopo, il Ministro della Difesa russo Pavel Grachev ad abbandonare l’idea di un lungo e difficile assedio in favore di un attacco diretto al centro cittadino, decisione che avrebbe portato al tragico “Assalto di Capodanno”, rivelatosi un fiasco.
La morte di Umalt Dashaev privò Maskhadov di uno dei più valenti e rispettati comandanti separatisti, ma produsse anche il primo “martire” della guerra contro i russi: Dzhokhar Dudaev insignì il defunto Dashaev del titolo “Qoman Turpal” (“Eroe della Nazione”) facendone il primo campione dell’indipendenza del Paese. Al termine della Prima Guerra Cecena Maskhadov gli avrebbe dedicato uno dei battaglioni della ricostituita Guardia Nazionale.
Tra le forze armate che servirono la Repubblica Cecena di Ichkeria, l’Aereonautica Militare della ChRI fu quella più celebre, nonostante il fatto che a causa degli eventi che descriveremo in seguito, non entrò quasi mai in battaglia. Il motivo di tanta fama è dovuto al modo in cui nacque, ed all’uso propagandistico che Dudaev seppe farne tra il 1992 ed il 1994.
IL GENERALE E LA SUA AVIAZIONE
Quando DzhokharDudaev fu eletto Presidente, egli si era da poco congedato dall’Armata Rossa, nella quale serviva come Maggior Generale dell’Aviazione. La sua fama come pilota e come militare precedevano di gran lunga il suo nome di politico, e l’alta considerazione come comandante e come addestratore della quale godeva presso gli alti comandi sovietici condizionarono l’agire del governo russo. Quando l’esercito russo si ritirò dalla Cecenia nel Giugno del 1992, gran parte dei suoi arsenali militari rimasero in mano cecena. Dudaev potè così mettere le mani su centinaia di velivoli, buona parte dei quali in condizione di volare. Questi erano alloggiati in due aereoporti: la base militare di Khankala, alla periferia orientale di Grozny e la base di addestramento di Kalinovskaya, nel nord del Paese. A Khankala i russi avevano abbandonato 72 aerei L – 39, L – 69 ed L – 29 “Delfin” (aerei da addestramento in grado di operare anche in azioni di guerra), mentre a Kalinovskaya avevano lasciato 80 L – 29, 39 L . 30 “Albatros” (versioni più aggiornate del “Dolfin”) 3 aerei da combattimento MIG – 17 e 2 MIG -15 (velivoli datati ma ancora temibili), 6 An – 2 (aerei degli anni ’40 ormai utilizzati per scopi civili o come aerei da addestramento) e 2 elicotteri MI – 8 da trasporto. In totale si trattava di una flotta aerea di 265 aerei da guerra, una forza che sulla carta poteva tenere testa alle aereonautiche di molti grandi paesi del mondo.
Aereo militare sovietico rimarchiato con le insegne della Repubblica Cecena di Ichkeria
Il Generale sfruttò fin da subito la forza propagandistica di questi numeri, dichiarando già nel Dicembre del 1991 che la Cecenia avrebbe costituito una aeronautica di altissimo livello, facendo leva sulle sue esperienze personali e su quelle dei più alti ufficiali del nascente esercito nazionale. Non a caso ai vertici delle forze armate il nuovo presidente nominò due colonnelli dell’aviazione: Viskhan Shakhabov e Musa Merzhuyev, anche loro appena fuoriusciti dall’esercito sovietico e pronti a mettersi al servizio della Cecenia indipendente. Il governo di Mosca minimizzò il peso delle dichiarazioni di Dudaev, sostenendo che soltanto il 40% dei velivoli lasciati in Cecenia fosse funzionante. Tuttavia, anche tenendo in considerazione questo dato, ciò significava che i ceceni avevano a disposizione almeno 100 aerei da guerra in grado di operare, una forza di tutto rispetto per una nazione di poco più di un milione di abitanti.
PROPAGANDA E REALTA’
Nella complessa partita negoziale con Mosca, Dudaev affidò un grosso ruolo alla minaccia teorica di un bombardamento aereo a tappeto delle città meridionali della Russia. Dal Gennaio del 1992 venne costituito il 1° stormo dell’Aereonautica nazionale, e dalla primavera dello stesso anno venne attivata una scuola di volo militare alla quale si iscrissero 41 cadetti. Il Presidente dichiarò alla stampa che un centinaio di nuove reclute erano in addestramento in Turchia e che queste forze si stavano addestrando all’eventualità di una guerra con la Russia. Sulla stampa iniziarono a circolare voci allarmanti riguardo ad un fantomatico “Piano Lazo” allo studio presso gli alti comandi di Grozny, secondo il quale allo scoppio delle ostilità una flotta di bombardieri avrebbe raso al suolo Stavropol, Rostov e Volgograd. A sostegno di tale ipotesi vennero rilevati lavori sia alla pista di addestramento militare di Kalinovskaya, sia sui rettilinei dell’autostrada Rostov – Baku, lasciando intendere che Dudaev stesse cercando di diversificare le basi aeree proprio in vista di un attacco multiplo contro il Sud della Federazione Russa. Il presidente ceceno cercò in ogni modo di alimentare le voci riguardo il potenziamento della sua aereonautica. Sulle tv russe iniziarono a circolare filmati e fotografie dei velivoli militari rimarchiate con la “Green Wolf Star”, la stella verde sovrastata dal lupo ceceno, simbolo ufficiale dell’aereonautica della ChRI. Il nuovo identificativo era realizzato dipingendo di verde la stella rossa sovietica e sovrapponendovi lo stemma della repubblica.
Disegni di velivoli dell’aviazione cecena
Il Piano Lazo, in ogni caso, era pura fantasia: non esiste alcuna prova documentale di un simile progetto, ma anche se ci fosse stato l’aereonautica cecena non avrebbe avuto alcuna possibilità di attuarlo. La consistenza effettiva dell’aviazione di Dudaev era infatti molto inferiore rispetto ai numeri ufficiali della propaganda: la totalità dei messi aerei a disposizione della ChRI aveva ormai almeno venticinque anni di anzianità, e buona parte di essi era ridotta a rottame. Gli unici caccia che potessero essere un minimo competitivi con l’aereonautica federale erano i MIG – 17 ed i MIG – 15, comunque ritirati dal servizio attivo dalla metà degli anni ’70. Allo scoppio della guerra civile, nell’estate del 1994, l’esercito governativo poteva schierare a stento una quarantina di velivoli in grado di tenere il cielo, ma non era in grado di armarli a causa della quasi totale assenza di munizioni. La dotazione di missili era quasi assente, così come quella delle bombe a caduta. Nei magazzini militari si trovavano alcuni vecchi ordigni da 250 kg, ma la maggior parte di questi erano da addestramento, quindi non – esplosivi. Situazione simile si rilevava riguardo le munizioni per mitragliatrice, il che impediva un efficace utilizzo della forza aerea come forza di attacco al suolo. Alla luce di tutto questo è chiaro che l’aviazione cecena era in grado al massimo di svolgere compiti di osservazione, o limitatissime azioni di disturbo contro unità terrestri. Anche la situazione del personale era critica: al di là delle pompose dichiarazioni di Dudaev, al Giugno del 1994 risultavano addestrati appena 15 piloti. Le loro qualifiche erano decisamente basse a causa delle pochissime ore di volo che avevano potuto effettuare, ed erano considerati “non adatti” ad effettuare missioni di combattimento, tanto che nell’unica dimostrazione aerea dell’aviazione della ChRI, avvenuta il 6 Settembre 1994 in occasione del triennale dell’indipendenza, la squadra di Albatross che si esibì era guidata da piloti stranieri reclutati come mercenari. Dudaev era ben cosciente che la sua aviazione fosse poco più che una trovata propagandistica, se è vero che in ciò che rimane degli archivi della ChRI non si trova traccia di alcun piano di utilizzo dell’arma aerea. Allo scoppio della Prima Guerra Cecena non esisteva alcun ordine di battaglia per l’aereonautica, né un comandante in capo dell’aviazione che si occupasse di metterlo a regime.
In questa foto di propaganda un aereo dell’aviazione cecena sorvola una manifestazione separatista. La foto è molto probabilmente un falso, montato ad arte utilizzando l’immagine di un aereo sovraimpressa su un’altra foto. In questo modo Dudaev voleva mostrare alla Russia di possedere un’efficiente aereonautica da guerra.
Se la situazione delle forze aeree era catastrofica, quella della difesa aerea poteva dirsi un po’ meno difficile. La forza antiaerea della ChRI poteva contare su 10 sistemi missilistici Strela – 10, 7 sistemi missilistici Igla ed altri 23 sistemi di artiglieria non missilistici, prevalentemente ZSU – 23 – 4 “Shilka”. Gli altri erano “riconversioni” di veicoli sui quali erano state montate mitragliatrici più o meno pesanti: si trattava di armamenti piuttosto artigianali e spesso poco efficienti (gli Strela – 10 erano in buona parte sprovvisti di radar) ma sufficienti a costituire un pericolo per l’aeronautica federale. Tali risorse avrebbero dovuto essere implementate con uno stock di MANPADS acquistato dall’Azerbaijian, ma il velivolo che lo trasportava fu abbattuto dall’aereonautica federale il 1 Dicembre 1994, ed 8 sistemi missilistici andarono perduti. Per quanto negli anni di guerra fu confermato il possesso da parte dei guerriglieri di alcuni MANPADS (sistemi portatili) Stinger di fabbricazione americana, pare che allo scoppio della Prima Guerra Cecena tali dispositivi non fossero presenti nell’arsenale di Dudaev.
Mezzi blindati da trasporto modificati artigianalmente per ospitare mitragliatrici. Veicoli di questo genere costituirono il grosso della difesa antiaerea della ChRI.
LA GUERRA
I primi impieghi dell’aviazione cecena si ebbero nell’estate del 1994. I pochi piloti addestrati al volo effettuarono tra le 20 e le 30 sortite per individuare le posizioni dell’opposizione filorussa. Durante due di queste missioni, il 21 Settembre un An – 2 venne colpito e si schiantò al suolo, ed il 4 Ottobre 1994 un L – 39 Albatros fu abbattuto dai ribelli, i quali erano ben riforniti di sistemi missilistici MANPAD forniti dalla Russia. Da Settembre iniziarono a comparire nei celi ceceni i primi “velivoli non identificati” (quindi russi) a sostegno dell’opposizione: cacciabombardieri effettuarono numerose sortite contro la base militare di Khankala, distruggendo al suolo svariati veicoli (per lo più inutilizzabili da tempo) e craterizzando la pista. Dudaev si decise quindi a trasferire gli aerei in grado di volare alla pista di Kalinovskaya, che essendo costituita di terra battuta era più facilmente riparabile con l’utilizzo di materiale di risulta. Il 10 Ottobre uno stormo aereo del Consiglio Provvisorio (l’organizzazione che raccoglieva l’opposizione al regime) bombardò i depositi del Reggimento Corazzato Shali (la più importante unità dell’esercito regolare) danneggiando numerose strutture e una ventina di veicoli, oltre a provocare circa 200 morti, per poi rientrare alla base senza essere stato intercettato dalla caccia governativa. Durante l’Assalto di Novembre, infine, le “Green Wolf Stars” furono pressoché inattive, mentre la difesa antiaerea respinse con successo i tentativi di avvicinamento degli elicotteri da combattimento federali inviati in supporto alle unità avanzanti.
Un sistema antiaereo semovente “Strela”. Esso era armato con 4 missili radioguidati capaci di distruggere o danneggiare gravemente anche i velivoli più moderni in dotazione all’esercito russo, ma la mancanza di munizioni rese gli Strela in dotazione ai dudaeviti quasi inefficaci contro l’aereonautica di Mosca.
La vittoria dudaevita del 26 Novembre rese chiaro alla Russia che senza un intervento diretto contro il regime di Dudaev la Cecenia non sarebbe mai tornata sui suoi passi. Così fin dal 28 successivo la caccia federale iniziò a sorvolare il paese, e le truppe di terra furono schierate ai confini in vista di un’invasione militare. Nonostante l’aviazione cecena non avesse quasi operato durante tutto il 1994, i comandi militari di Mosca continuavano a temere un colpo di coda del Generale dell’Aviazione diventato Presidente dell’Ichkeria. Il timore che il “Piano Lazo” fosse stato effettivamente predisposto, quantomeno sotto forma di “pioggia kamikaze” sulle città della Russia Meridionale convinse lo Stato Maggiore ad intervenire tempestivamente per garantirsi l’assoluto controllo dei cieli. Oltre ai motivi strategici vi era un’altra ragione per la quale Eltsin voleva ridurre in cenere l’aereonautica cecena: il Presidente russo temeva che Dudaev avrebbe potuto usare uno degli aerei di linea parcheggiati all’aeroporto di Grozny (o pure un aereo da guerra, che il Generale sapeva pilotare con grande maestria) per fuggire dal Paese e riparare in Azerbaijian, o in Turchia, e da lì guidare in sicurezza una logorante guerriglia contro le forze del Cremlino. Così la mattina del 1 Dicembre 1994, dieci giorni prima che le truppe federali iniziassero l’avanzata via terra, uno stormo di cacciabombardieri Su – 25 bombardò gli hangar delle basi di Kalinovskaya e di Khankala. La difesa antiaerea, colta di sorpresa, non si attivò neanche, cosìcché gli aerei russi poterono allontanarsi indisturbati dopo aver completamente distrutto l’aviazione da guerra della ChRI.
Carcasse degli aerei ceceni a margine della pista di Khankala. I relitti semidistrutti furono smontati e le parti di pregio stoccate in attesa di essere vendute sul mercato dei pezzi di ricambio.
Rientrati alla base i Su – 25 fecero rifornimento e tornarono in volo verso l’aereoporto civile di Grozny. Stavolta ad accoglierli c’era una nutrita difesa a terra, la quale ingaggiò i velivoli federali e li costrinse più volte ad allontanarsi dall’obiettivo. Al termine dell’azione, tuttavia, i russi avevano distrutto tutti gli aerei in grado di decollare, tra i quali 12 An – 2, sei aerei civili Tu – 134 (tra i quali l’aereo presidenziale) ed un ereo civile Tu – 154. Alla fine della giornata si contarono dai 130 ai 170 velivoli distrutti al suolo. Delle “Green Wolf Stars” non era rimasto più nulla. Quella sera Dudaev inviò un messaggio ai russi:
“Mi congratulo con il comando dell’aereonautica russa per aver raggiunto il dominio nel cielo dell’Ickeria. Ci vediamo a terra.”
Un elicottero da combattimento russo sorvola gli aerei di linea ceceni distrutti al suolo il 1 Dicembre 1994.
Dalkhan Abdulazizovich Khozhaev è una figura molto particolare nel novero della classe dirigente della Repubblica Cecena di Ichkeria. Nato il 18 Aprile 1961 a Grozny, i suoi genitori erano nativi di Novye Atagi. Laureatosi nel 1983 presso la facoltà di storia dell’Università Statale Ceceno – Inguscia, fu tra i promotori del Congresso Nazionale Ceceno, entrando a far parte del Comitato Esecutivo fin dall’Agosto del 1990 (secondo alcuni testimoni lui stesso avrebbe disegnato la bandiera ufficiale del Congresso, dalla quale sarebbe scaturita la bandiera nazionale della ChRI). La sua produzione letteraria fu interamente dedicata alla storia del popolo ceceno. Fu compilatore della raccolta “Living Memory” sulle vittime delle repressioni staliniste nella RSSA Ceceno – Inguscia (pubblicata a Grozny nel 1991) autore di numerosi articoli sui popoli del Caucaso ed autore del popolare lavoro scientifico “I ceceni nella Guerra Russo – Caucasica” (pubblicato a Grozny nel 1998). Tra il 1991 ed il 1994 sovrintese alla cura ed allo sviluppo degli Archivi di Stato, giungendo ad occupare una posizione stabile nel Gabinetto del Consiglio dei Ministri di Dudaev. Allo scoppio della Prima Guerra Cecena si arruolò al seguito di Ruslan Gelayev, guidando un distaccamento armato inquadrato nel Fronte Sud – Occidentale agli ordini di Akhmed Zakayev, guadagnandosi il “Qoman Siy” (“Onore della Nazione”) uno dei più alti riconoscimenti al merito militare della ChRI.
Dalkhan Khozaev
Tornato alla vita civile alla fine della guerra, sovrintese alla ricostruzione dell’Archivio di Stato, pesantemente danneggiato durante la guerra, sotto i governi Maskhadov e Basayev. Allo scoppio della Seconda Guerra Cecena tornò al comando della sua unità sotto Gelayev. Combatté tutte le principali battaglie della guerra, compresa quella di Komsomolskoye, durante la quale la brigata di Gelayev venne quasi completamente distrutta. Dopo il ritiro di Gelayev dal servizio attivo Gelayev si ritirò presso il villaggio di Valerik, dove il 26 Luglio 2000 un cecchino lo centrò mentre riposava in un’abitazione privata. La sua morte non fu rivendicata dai Servizi di Sicurezza Federali, i quali accusarono uomini al Comandante di Campo Arbi Baraev, da tempo in conflitto con Gelayev.
L’intervista che segue è apparsa nel Giugno 1999 sul “Small Wars Journal”.
LA PRIMA BATTAGLIA PER GROZNY – 26 NOVEMBRE 1994
Sono stato coinvolto per la prima volta nei combattimenti contro l’opposizione a Dudaev, in particolare contro Ruslan Labazanov. Gli scontri iniziarono il 12 Giugno 1994, Giorno dell’Indipendenza Russa, ed il 13 Giugno ci scontrammo con le sue unità. Non ero aggregato a nessuna struttura militare ma le azioni di Labazanov mi fecero infuriare. Quando gli scontri iniziarono mi unii ad un gruppo di amici per dare una mano. Non presi parte ai successivi scontri a Gekhi, ma i miei amici furono coinvolti. Dopo gli scontri negoziammo con Labazanov e con l’opposizione. Loro avevano promesso che non sarebbero entrati a Grozny, ma sapevamo che l’attacco fosse imminente. Il 26 Novembre il nemico giunse con 42 carri armati ed 8 APC da due direzioni – Alto Terek ed Urus – Martan. Il gruppo di Labazanov attaccò da Petropavlovskaya (Alto Terek). Era una vera e propria forza di intervento, con più di 3000 uomini. C’erano equipaggi russi nei carri armati. Vedemmo due aerei volare sopra di loro ed (alcuni) elicotteri. Gli elicotteri non volarono sopra la città, rimasero nei sobborghi. Andai a lavorare quella mattina ignare di qualsiasi problema, vidi le sparatorie, controllai chi stesse combattendo ed andai a casa a prendere le mie armi ed un gruppo di amici. Arrivammo al Palazzo Presidenziale. Un carro armato stava bruciando davanti al Palazzo. Apprendemmo che i russi erano coinvolti perché erano stati presi prigionieri. La presenza dei russi ci infiammò – eravamo ansiosi di combatterli. I combattimenti nei pressi del Palazzo Presidenziale si placarono, ma si accesero vicino al palazzo della Sicurezza di Stato. Ci arrivammo intorno a mezzogiorno. Uno dei nostri carri stazionava da quelle parti, sparava e tentava di distruggere un carro nemico.
Il video mostra scene di vita quotidiana a Grozny nell’Ottobre 1994, un mese e mezzo prima che la città fosse ridotta in macerie
L’INCONTRO CON I T – 72
La situazione era totalmente caotica. Nessuno sapeva cosa fare. I nostri volontari e partigiani non avevano mai combattuto prima. Dissi loro di prendere posizione all’altezza di varie strade e di difenderle. Facemmo lo stesso, con il mio gruppo di amici. C’era un piccolo magazzino di proiettili alla Sicurezza di Stato: 2 AGS (?) che lasciammo là perché nessuno sapeva come usarli. C’erano dei lanciagranate ma molti tra di noi li vedevano allora per la prima volta. Chiesi a Magomed Khambiev quale fosse il raggio di tiro dei lanciagranate ma neanche lui lo sapeva! In quel momento i carri armati iniziarono ad avanzare da tutte le direzioni. Se ricordo bene ero in Via Cecenia quando vidi due carri avanzare verso di noi. Avevo 2 granate anticarro. Ne avevo data una ad un altro tizio. Avevamo armi da fuoco automatiche. Lyoma Arsimikov aveva un lanciagranate ma lo aveva prestato a qualcuno che andava in un’altra direzione, con la promessa di riportarlo indietro. Aveva preso due missili. Mi raccomandai con lui che avevamo bisogno del suo lanciagranate perché due carri stavano avanzando verso di noi. Lyoma era un tipo allegro. Rispose: “Non importa, ci occuperemo comunque di loro!”
I carri stavano avanzando in colonna molto lentamente, come se i loro equipaggi fossero spaventati. Il carro di testa ruotava la torretta sparando alle case su entrambi i lati della strada. Mi misi di fronte al carro armato e gridai a Lyoma: “Lancia la tua granata sul primo, io mirerò al secondo!”. Avevamo mandato un altro amico alla ricerca del nostro lanciagranate. La gente camminava ancora per le strade tranquillamente ma potevi vedere i proiettili traccianti ed udire le esplosioni dei missili. Alcuni uomini erano già feriti. Quando il carro giunse più vicino, puntai tutte le mie armi davanti a me, pronte all’uso. Davanti a noi c’era un incrocio. Il carro era evidentemente timoroso di venire colpito dalla via laterale e lo attraversò molto velocemente. In qualche secondo fu davanti a noi. Lyoma lanciò la sua granata ma questa esplose davanti al carro. Quello cambiò rotta e si spostò un poco su un fianco. Poi diresse le sue armi contro di noi. Lyoma urlò: “lancia la tua granata, veloce!” Lanciai la mia granata e colpii il bersaglio. Ma i carri non bruciano velocemente, le fiamme iniziarono a estendersi due o tre minuti più tardi. Un carrista uscì fuori, aveva un giubbotto antiproiettile ma lo uccisi subito. Altri due uscirono fuori e si nascosero dietro al carro. Quando il carro di testa iniziò a bruciare, il secondo carro fece marcia indietro e si ritirò. Se ci avesse attaccato saremmo stati in pericolo. Iniziammo ad urlare ai due uomini di arrendersi. Un altro carro stava imboccando l’incrocio dalla direzione del mercato. Qualcuno era arrivato con un lanciagranate e sparò al carro. Il carro non soffrì danni perché il lanciagranate era troppo vicino – servono almeno 18 metri di spazio per lanciare una granata. Non sapevamo a quel tempo che i lanciagranate fossero inefficaci sulle brevi distanze. Lo capii soltanto due mesi più tardi, quando cominciai ad imparare ed a studiare le armi seriamente. Molti degli uomini quel giorno non lo sapevano. Sparavano coi lanciagranate a brevi distanze e non capivano come mai le granate non attraversassero i carri.
Miliziani separatisti osservano la carcassa di un T – 72 distrutto durante l’Assalto di Novembre
Lyoma corse attraverso la strada con i suo lanciagranate, ingiunse ai 2 russi che si stavano nascondendo “strisciate, vermi!”. Ridemmo. Trascinammo uno dei russi in un cortile. La faccia del russo era lievemente bruciata, puzzava di alcohol. Lyoma lo perquisì, prese la sua pistola, poi gli disse di consegnare il suo coltello. Il russo era terrorizzato, pensando che stessimo per tagliargli la gola. Piagnucolava: “Non fatelo, vi dirò tutto!”. Il nostro gusto nell’acquisire armi come trofei si stava risvegliando tra noi. Corremmo dall’altro soldato per prendere le sue armi. Il soldato stava morendo. Lyoma portò il prigioniero al Quartier Generale. I combattimenti stavano divampando sulla tangenziale, alla stazione ferroviaria, in una strada dopo l’altra. L’opposizione ci sparava addosso da Via Rabochaia. Accorremmo là, e loro si ritirarono. I carri stavano diventando più prudenti nel tentativo di evitarci ma sparavano sulle case circostanti. Un altro carro ci stava di fronte mentre correvamo nella zona di battaglia. Non c’era nessuno dentro, ma noi non lo sapevamo. Non avevamo più granate anticarro. Uno di quelli che non aveva armi mi disse: “dammi una bomba a mano, farò saltare quel carro”. Gli detti una granata, lui si avvicinò al carro, guardò dentro, e solo allora realizzò che non c’era nessuno all’interno.
LA VITTORIA
Ci muovemmo. L’opposizione si era ritirata, lasciando indietro un ferito. Si stava facendo buio. Dissi a Magomed Khambiev che se non avessimo controllato tutte le strade adesso sarebbe stato più difficile di notte. Dovevamo buttarli fuori da tutte le parti prima di notte. Cinque di noi andarono in Via Rabochaia. Un civile venne da noi chiedendo “C’è qualcuno coraggioso tra di voi?” risposi che ce n’erano. “C’è un carro armato due isolati più avanti, dev’essere controllato”. Dal momento che era già buio, non potevamo vedere se fosse presidiato. Ci avvicinammo con i nostri limonki (bombe a mano) e ci parve che l’equipaggio avesse abbandonato il carro. Un uomo entrò all’interno, gli dicemmo di sparare se c’era qualcuno nascosto dentro. Quello accese un fiammifero e vide che era vuoto. Il carro era pieno di munizioni. Lo portammo al Quartier Generale. Più tardi un ragazzo, giocando con i bottoni dentro al carro fece fuoco per errore, facendo un buco nell’edificio del Ministero dell’Interno. Catturammo anche un’auto ufficiali (una Nissan) e trovammo una lista di membri dell’opposizione coinvolti nell’operazione. Catturammo un altro veicolo con una scorta di missili (TURS – “faggot” e “Strela”) ed un missile antiaereo. Portammo i nostri trofei al Quartier Generale ed andammo a casa.
Molti dei prigionieri di guerra russi furono portati al Parco Kirov. I russi erano circondati dal fiume, e non avevano modo di fuggire. Si erano arresi senza combattere agli uomini di Shamil Basayev. Ma intorno alla stazione ferroviaria ed all’edificio del Servizio di Sicurezza i combattimenti erano accesi contro l’opposizione proveniente da Urus – Martan. I nostri avversari ceceni erano più agguerriti e aggressivi dei russi. Molti combattenti non avevano armi quel giorno, e noi non avevamo così tanti uomini. All’edificio della Sicurezza di Stato c’erano circa 20 o 30 uomini. Alcune stime parlano di non più di 100 uomini che combattevano contemporaneamente contro le forze d’intervento. Erano le 4 del pomeriggio quando altri uomini arrivarono dai villaggi per dare supporto. L’esperienza di quel giorno lasciò un’impressione duratura. Essa ci dette una tremenda confidenza con la conoscenza del modo di fermare un carro armato con una granata. Precedentemente i russi avevano fatto circolare voci secondo le quali i T – 72 erano invincibili. Quando le persone videro quanto fosse facile distruggerli, la paura se ne andò. Molte persone rimpiansero di non aver preso parte alla battaglia. Spesso osservai in seguito che se la tua prima battaglia aveva avuto successo, avresti continuato ad avere successo. Quella vittoria incoraggiò l’intera nazione e forgiò la sua determinazione. Tutto quel giorno ebbe una bizzarra qualità – immagina le persone camminare tranquillamente su strade disseminate di carri armati in fiamme! – Il numero dei carri completamente distrutti era sorprendente. Capìì il perché più tardi. La nostra gente non sapeva che quando un carro è messo fuori combattimento, questo non brucia immediatamente. Loro cercavano di danneggiarli finché non esplodevano. Per questo motivo i carri esplodevano con tutte le loro munizioni, le quali andavano perdute. Ma riuscimmo comunque a catturare 4 o 5 carri intatti, e li usammo successivamente.
LA GUERRA
Dopo il 26 Novembre tutti seppero che la guerra stava arrivando, Molte persone iniziarono ad armarsi da sole. Con un gruppo di amici armammo un’unità. La minaccia unì molte persone e l’opposizione perse molti partigiani. Molti uomini si erano uniti all’opposizione sulla promessa di incentivi economici. Quando realizzarono che la Russia stava per invaderci si unirono alle nostre file. Vidi molti uomini nelle nostre unità che precedentemente aveva combattuto contro le nostre forze regolari. Ci furono alcune pesanti battaglie. All’inizio della guerra avevamo pochi militari d’esperienza ed i partigiani volontari non erano disciplinati. Un’unità ben armata poteva arrivare a prendere il controllo di una posizione, ma tenerla era difficile. L’inverno era molto freddo, e dovevi stare appostato nella neve. I ceceni amavano il loro comfort, molti si rifiutavano di tenere la posizione in condizioni disagevoli. Si rifiutavano di scavare trincee. Come risultato molte persone soffrirono. Ma tutto sommato le nostre perdite non furono così pesanti rispetto a quelle patite dai russi. Facemmo uno studio dopo la guerra – tra l’11 Dicembre 1994 ed il Febbraio 1995 perdemmo 800 combattenti.
Miliziani ceceni pregano nel bosco
Le uniche unità veterane erano quelle di Basayev, Gelayev e di Magomed Khambiev. C’era anche un’efficiente unità proveniente da Gudermes. Avevamo un battaglione OMON, ma gli uomini non erano addestrati al combattimento. Per tutta a durata della battaglia di Grozny soltanto 200 o 300 uomini poterono essere definiti veterani su circa 2000 uomini che presero parte ai combattimenti. Queste erano le forze su cui Maskhadov dovette fare affidamento nella Battaglia di Grozny. I comandanti erano responsabili di fronte a Maskhadov della difesa delle loro posizioni. Ma voglio ripetere ancora che nel caso dei partigiani volontari, loro potevano accorrere a difesa di una posizione nel pomeriggio ed andarsene a casa la sera per mangiare.
I RUSSI A GROZNY
I russi ci osservarono per circa un mese mentre la situazione rimaneva allarmante. Ma la loro intelligence era al lavoro. Loro sapevano che la notte la gente abbandonava le posizioni di battaglia; durante la notte loro si muovevano passo passo per occupare posizioni vuote, o attaccavano le posizioni che loro sapevano essere poco difese. Più tardi la loro tattica divenne quella di bersagliare a distanza le posizioni con ogni tipo di arma a disposizione, e di attaccare soltanto quando pochi partigiani erano rimasti. Così iniziarono ad avanzare verso il centro di Grozny. All’inizio il contingente russo contava 10.000 uomini. Fu aumentato a 40.000. Le truppe di Rokhlin si muovevano davanti alle altre formazioni attraverso Petropavlovskaya. Babishev avanzava da Ermolovka. Marciò lungo la cresta di montagne baipassando i villaggi dove la gente occupava la strada principale per impedire il passaggio delle colonne. Riprese la strada principale ad Ermolovka e cominciò ad avanzare verso la stazione dei bus (avtovazkal). So che Babishev è stato descritto come un grande umanista per non essersi aperto la strada sparando attraverso i villaggi. Questo è un non senso – per lui i ceceni erano nemici, inclusi i civili. Sapeva in ogni caso che se si fosse aperto la strada ed avesse distrutto un villaggio, l’altro lo avrebbe combattuto.
COLLABORAZIONE E NEUTRALITA’
Stephasin in qualità di capo dell’FSK fece un buon lavoro in Cecenia! Dopo la guerra individuammo coloro tra l’opposizione che avevano servito i russi come guide, cecchini o posamine. Sultan Satuev di Urus – Martan, per esempio, ricevette l’Ordine del Coraggio della Russia per “aver salvato molte vite russe” durante le battaglie di Gennaio 1995. In quei giorni la gente non era sospettosa – semplicemente andava in giro tra le nostre unità con una radio, informando i russi riguardo le nostre posizioni. Collaborazionismo e neutralità erano manifestate anche e specialmente dagli anziani. Loro usavano argomenti come “dobbiamo evitare la resistenza per proteggere i civili, le donne ed i bambini”. Altri sostenevano che i russi erano venuti a “liberarci dal regime di Dudaev”, che non avrebbero ferito i civili neutrali, e così via. Questi argomenti ebbero un certo impatto. Porterò l’esempio di Starye Atagi: il villaggio si trova sulla strada tra Grozny e Shatoy. I russi avrebbero potuto distruggerlo facilmente ma preferirono fare i prepotenti con la popolazione in modo che questa controllasse la strada per loro. Tutti i rifornimenti per Shatoy e le montagne meridionali venivano controllati dagli abitanti del villaggio. Quanto tentavamo di minare la strada, gli abitanti obiettavano dicendo che avevano un accordo con i russi di non spararsi a vicenda. Questo avvenne in molte occasioni e non soltanto in Starye Atagi.
Era impossibile costringere un villaggio a combattere se non voleva farlo. La resistenza locale influenzava le decisioni del villaggio, e non quella proveniente da fuori. Normalmente andava così: il villaggio teneva un’assemblea per decidere se avrebbe combattuto o no. I russi attivavano i loro agenti per spostare la decisione in favore dell’espulsione dei combattenti, e della costituzione di un’unità di autodifesa che avrebbe raggiunto un cessate – il – fuoco con l’esercito russo. Se i combattenti locali erano popolari, se il loro comandante godeva di autorità e rispetto, la decisione poteva volgere in favore della resistenza. Alla fine era il 3 – 5% della popolazione a decidere. Il resto seguiva.
La tragedia di Samashki fu un punto di svolta psicologico. Rese tutto più chiaro. I russi avevano convinto gli anziani di Samashki a spingere i combattenti a lasciare il villaggio. Quando questi lo fecero, il massacro ebbe inizio. Dopo Samashki molti villaggi iniziarono ad armarsi ed a difendersi. Ma l’autorità degli anziani che predicavano la pacificazione era già in declino prima di Samashki. La gente che aveva combattuto sapeva che stavano combattendo per la loro patria. Non ascoltavano nessuno e sapevano cosa facevano. Devo aggiungere che la nautralità (o la neutralità apparente) di certi villaggi serviva alla resistenza. Se i russi avessero svolto pressione militare ovunque nello stesso momento la nostra situazione avrebbe potuto essere molto più difficoltosa. In questi villaggi i nostri uomini potevano riposare 5 o 10 km lontani dalle operazioni militari.
RECLUTAMENTO E LOGISTICA
Per tutta la durata della guerra fummo a corto di munizioni. Nei primi giorni eravamo a corto di armi. Se avessimo avuto adeguate scorte di armi penso che molte più persone avrebbero combattuto. Non avevamo supporto logistico. I combattenti portavano il loro cibo da casa, ed alcune persone portavano il cibo alle prime linee. In ogni caso era impossibile tenere fermi gli uomini in un posto per molto tempo. Anche dopo un anno di guerra, quando questi ebbero guadagnato esperienza e mantenevano una disciplina di ferro, il problema logistico permase. Man mano che la guerra continuava sempre più volontari si unirono ai nostri reparti. Questi volontari erano sempre più giovani. Gli uomini più anziani erano smesso debilitati, malati di polmonite o di mal di schiena. Gli uomini oltre i 35 anni restavano a casa. Chiedevano di assisterci per le operazioni speciali ma non potevano sedere nelle trincee per molto tempo. Una generazione più giovane venne a rimpiazzarli. Spesso giovani ragazzi provenienti da un villaggio andavano ad unirsi ad un’unità in un altro villaggio per evitare attriti nella loro comunità se questa aveva deciso di non combattere.
Soldati federali posano davanti alle macerie di un’abitazione distrutta
BATTAGLIE E TATTICHE
In questo tipo di battaglia (la battaglia di posizione, ndr.) i due fronti, quello russo e quello ceceno, si fronteggiavano ad una distanza approssimativa di un chilometro. I russi normalmente disponevano le loro forze fuori dal raggio di tiro, non più vicino di 800 metri. Loro sapevano che avevamo soltanto lanciagranate e fucili automatici. Loro usavano artiglieria pesante, lanciamissili GRAD e URAGAN, mortai, e anche carri armati e postazioni antiaeree ogni giorno, giorno e notte. Per un singolo colpo loro rispondevano con tutta la loro potenza di fuoco. Sperimentavano e si addestravano, ma allo stesso tempo addestravano noi. Nei primi giorni di guerra scegliemmo posizioni su terreno aperto e scavammo trincee nei pressi della vegetazione e delle zone boschive. Ma presto capimmo che era un errore, perché questo aiutava i russi a calcolare con accuratezza le distanze tra di noi. Ci volle del tempo prima che capissimo quale fosse il miglior modo per progettare le trincee. Normalmente avevamo circa 25 uomini, talvolta soltanto 10, talvolta 50 di fronte ad un reggimento o ad un battaglione russo. L’iniziativa offensiva era loro. La nostra parte aspettava l’attacco russo.
METODI DI GUERRA
Usammo ogni possibile metodo e tattica di guerra: combattimenti difensivi e convenzionali, raid offensivi in stile commando, imboscate, guerra partigiana e così via. I russi non ci lasciavano altra scelta. Oggi i russi dicono che ci stavamo nascondendo da loro. In alcuni casi lo facemmo, in altri attaccammo. Ci furono combattimenti urbani e battaglie in aree rurali, nelle pianure aperte e nelle montagne. Hai visto Goyskoe, è un piccolo villaggo di pianure. Per due mesi combattemmo dalle trincee che avevamo difeso. I russi circondarono il villaggio, lasciando soltanto una via d’uscita verso Urus – Martan, nella speranza che le nostre unità fuoriuscissero. Adottarono questa tattica dopo Samaskhi. Samashki fu distrutta per instillare la paura, il terrore non ci impressionò, così i russi iniziarono a lasciare aperto un corridoio affinchè le persone abbandonassero i villaggi assediati. La tattica funzionò talvolta, perché i nostri combattenti dipendevano sempre da rifornimenti esterni.
Dalkhan KHozhaev in uniforme. Sul petto “L’Onore della Nazione”
All’inizio della guerra i nostri combattenti erano abituati a ritirarsi poco prima di essere circondati. Ma dopo il primo anno di guerra gli uomini non si curarono più molto del fatto che fossero o meno circondati. Sapevano che era sempre possibile fuggire. Gli attacchi aerei erano particolarmente terrificanti per la popolazione civile, non così per i combattenti. Loro sapevano che gli attacchi aerei non duravano molto. Temevamo di più il tiro dei mortai perché non c’era protezione contro di quelli. Era pericoloso ed efficace, anche sotto la copertura delle trincee. Molte delle nostre perdite furono inflitte dal fuoco di mortaio. I bombardieri, gli elicotteri ed i carri armati non erano pericolosi.