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DAI TRIBUNALI ALLE CORTI ISLAMICHE: IL SISTEMA GIUDIZIARIO IN ICHKERIA (SECONDA PARTE, 1992 – 1994)

LOTTE DI POTERE

Tra il 1992 e il 1993 il cronicizzarsi dello scontro politico tra Presidente e Parlamento ed il proliferare di numerose strutture ed agenzie governative, ora fedeli all’una, ora all’altra autorità, misero in pericolo il lavoro dei magistrati. Questo stato di insicurezza era emerso fin dalle prime fasi della Rivoluzione Cecena: in un appello pubblicato sul giornale “Voce della Ceceno – Inguscezia” dell’Ottobre 1991, esponenti del sistema giudiziario lamentavano la perniciosa presenza di elementi fedeli al governo rivoluzionario, i quali tentavano di condizionare il lavoro di Giudici e Notai a vantaggio della loro causa, o a loro vantaggio personale, tentando di evitare di essere inquisiti o rifiutandosi di accettare il normale iter giudiziario previsto dalla legge. La cronica carenza di fondi e di spazi a disposizione dei tribunali rendeva complessa anche l’ordinaria amministrazione, ed a poco servì l’ordinanza numero 19 del 15 Marzo 1992 “Sulle misure volte a migliorare le condizioni di lavoro dei tribunali distrettuali e cittadini della Repubblica Cecena”, con il quale si raccomandava la concentrazione degli uffici e l’utilizzo di risorse, locali e mobilio di proprietà del disciolto Partito Comunista dell’Unione Sovietica (PCUS): il cronico ritardo nel pagamento degli stipendi e la carenza di risorse liquide impedì di fatto al sistema giudiziario di funzionare.

In ambito giudiziario l’acredine tra parlamentaristi e presidenzialisti raggiunse un livello tale che l’Assemblea Legislativa, allora guidata da Hussein Akhmadov, rifiutò le nomine proposte da Dudaev al Ministero della Giustizia. In particolare, si oppose alla nomina di Imaev, già Presidente del Comitato Nazionale per la Riforma Giuridica, giudicandolo inadatto al ruolo e troppo dichiaratamente allineato sulle posizioni del Presidente. Per tutta risposta, Dudaev estese i poteri del Comitato al punto da farli coincidere con quelli del Ministero della Giustizia, aggirando il veto parlamentare e lasciando il vecchio dicastero un contenitore vuoto. Con l’Ordine del Presidente della Repubblica numero 66 del 26 Agosto 1992 “Sulla registrazione statale degli atti normativi della Repubblica Cecena” il Comitato fu dotato del compito di certificare l’entrata in vigore degli atti normativi e delle loro successive modifiche, diventando a tutti gli effetti una sorta di “cancelleria dello Stato” non riconosciuta dal Parlamento.

Sostenitori del Presidente della Repubblica Dudaev in piazza durante la crisi istituzionale del 1993. In piedi sta tenendo un discorso il deputato dudaevita Isa Arsemikov.

Dalla fine del 1992 il confronto tra partito parlamentare e partito presidenziale divenne serrato, aprendo una crisi politica che paralizzò l’attività dello stato, nel comparto legislativo ed esecutivo ma anche in quello giudiziario. Contrariamente a quanto previsto dalla legge del 18 Novembre 1992, la quale prevedeva un cursus honorum interno alla magistratura per la nomina dei giudici, il ricorso alla clientela politica ed alla pressione dall’alto per l’investitura di questo o quel magistrato erano all’ordine del giorno. Dal Marzo del 1993 Dudaev chiese l’intervento della Corte Costituzionale, all’epoca presieduta da Ikhvan Gerikhanov, riguardo a una proposta di modifica costituzionale che avrebbe profondamente riformato lo Stato ceceno, attribuendo un gran numero di poteri al Presidente della Repubblica a scapito del Parlamento. Al rifiuto di questi di riconoscere legittimità a tale proposito, Dudaev non trovò altra via d’uscita se non quella di sopprimere tutte gli organi statali a lui ostili. Anche la stessa Corte Costituzionale finì nel mirino dei dudaeviti, ed il 28 Maggio 1993 il Presidente emise il decreto n° 45 “Sullo scioglimento della Corte Costituzionale della Repubblica Cecena”. Tramite questo decreto il Capo dello Stato abolì ogni attività di tale organo sul territorio della repubblica, motivando la scelta con la necessità di “prevenire una scissione nella società e” di conservare “L’autocrazia”. Tale decreto, palesemente incostituzionale, fu l’anticamera del colpo di stato che seguì pochi giorni dopo, il 4 Giugno 1993, con l’occupazione manu militari del parlamento, del consiglio cittadino di Grozny e delle altre strutture di potere, e lo scioglimento delle assemblee elettive.

Il Colpo di Stato dette a Dudaev ancor più mano libera nell’intromettersi nel sistema giudiziario. Per la verità questa tendenza era evidente fin dai primi giorni del suo governo, come testimoniato dal Decreto numero 34 del 25 Febbraio 1992 “Sull’esecuzione delle sentenze dei tribunali e delle corti arbitrali straniere nella Repubblica Cecena”, nella quale si diffidava i giudici a dare seguito a sentenze emesse da corti di paesi i quali non avevano riconosciuto la Repubblica Cecena o con i quali la Repubblica non avesse un qualche tipo di accordo. Questo decreto, emesso appena quattro mesi dopo l’entrata in carica di Dudaev, rendeva chiara la volontà del Presidente di utilizzare la Magistratura come arma coercitiva nei confronti dei governi stranieri e forzare il riconoscimento della Cecenia facendo leva sulla velata minaccia di trasformare il paese in un “Buco nero giudiziario”.  

Ikhvan Gerikhanov, Presidente della Corte Costituzionale, tentò di mediare il conflitto istituzionale tra Presidente e Parlamento, intervenendo nella primavera del 1993. Il suo intervento, tuttavia, non arginò le pretese di Dudaev, il quale il 28 Maggio sciolse la Corte Costituzionale, ed il 4 Giugno mise in atto un colpo di Stato militare.

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AZIONE DI CONTRASTO AL CRIMINE

Uno dei problemi più gravi che il sistema giudiziario della Repubblica si trovò ad affrontare fu quello connesso alla proliferazione delle armi da fuoco, conseguente al saccheggio delle strutture militari sovietiche, all’esplosione del mercato nero ed alla costituzione di numerosi gruppi armati semi – legalizzati come reparti dell’esercito o società di sicurezza private. In questo senso uno dei primi provvedimenti di Dudaev non aiutava: il Decreto del 16 Dicembre 1991 “Sul diritto dei Cittadini della Repubblica Cecena ad acquistare e tenere armi da fuoco personali e sul diritto di portarle” riconosceva il diritto “sottratto durante il periodo totalitario” dei cittadini ad armarsi, recuperando così una antica tradizione ingiustamente soppressa. Probabilmente nella visione dudaevita questo era un buon compromesso per controllare il fenomeno, anziché vietarlo non avendo gli strumenti per farlo. Ma il risultato certamente era stata una “corsa sociale alle armi” che alimentava l’illegalità, paralizzando il lavoro dei tribunali. A sua volta la paralisi dei tribunali alimentava la paura della gente comune, la quale continuava ad armarsi per timore di non avere nessuna protezione dallo Stato.

La carenza di fondi e le paghe basse e insicure producevano un diffuso fenomeno di corruzione. Questa era già esplosa prima ancora che Dudaev desse il suo colpo di piccone alla giustizia con il commissariamento del Ministero e la calmierazione dei prezzi, che aveva privato la magistratura delle fonti economiche necessarie a sostentarsi, tanto che un decreto dell’8 gennaio il Parlamento invitava le autorità giudiziarie a perseguire i cittadini che si rifiutavano di riconoscere lo stato di diritto e tentavano di influenzare il lavoro delle corti. Ma anche questo decreto era privo di eseguibilità pratica e rimase sostanzialmente una dichiarazione. Nel 1992 appena il 12% dei crimini registrati nella repubblica furono oggetto di processo, e soltanto 327 colpevoli su 1204 furono condannati alla prigione. Il diffuso senso di impunità incoraggiava il ricorso al crimine, visto da molti come unica soluzione alla miseria dilagante, e da alcuni come una buona opportunità per fare soldi facili.

Le attività criminali divennero endemici, a partire dal florido mercato della contraffazione dei titoli di credito. Basti pensare che nel solo 1993, dei 9,4 miliardi di rubli in titoli di Stato contraffatti in Russia, ben 3,7 miliardi provenivano dalla Cecenia. Fiorì il contrabbando di merci e di droghe, ed il mercato delle armi di Grozny divenne il più grande mercato nero di tutta l’ex Unione Sovietica. Tra il 1992 e il 1994 vennero registrati 1354 attacchi a treni merci e passeggeri. Secondo i dati riportati dalle agenzie di stampa e dal Ministero degli Interni ceceno, alla sola stazione di Grozny della Ferrovia del Nord Caucaso, nel solo 1993, vennero attaccati 559 treni, saccheggiati circa 4.000 vagoni per un valore di circa 11,5 miliardi di rubli. Nei primi 8 mesi del 1994 vennero commessi 120 attacchi armati, che portarono al saccheggio di 1156 vagoni e 527 container, per oltre 11 miliardi di rubli di danni. Nel biennio 1992 – 1994 26 lavoratori delle ferrovie persero la vita in attacchi armati. 

Reparto di Polizia dei Trasporti della ChRI sfilano in un documentario della TV di Stato. Il crimine dilagante si abbattè in primo luogo sul trasporto ferroviario con saccheggi sistematici delle merci e ruberie ai passeggeri.

RIFORME DI FACCIATA E DIRITTO CONSUETUDINARIO

In sostanza vi era una notevole differenza tra quanto prodotto in termini legislativi dal Parlamento e dal Presidente, e la realtà quotidiana del paese. Sulla carta le istituzioni lavoravano alacremente al disegno di un nuovo sistema giudiziario. Di fatto, questo era paralizzato dalle lotte di potere interne, dalla carenza di disponibilità economica e dalla corruzione dilagante, tre fattori che rendevano lo Stato virtualmente impotente rispetto alle forze criminali che si stavano impadronendo del Paese.  Stante il collasso totale delle strutture giudiziarie pubbliche, la società iniziò a recuperare quelle forme di diritto consuetudinario in vigore presso le società islamiche chiamato Adat, una sorta di “codice civile non scritto” patrimonio degli anziani, tramandato di generazione in generazione. Ancorchè non riconosciuto dallo Stato, l’Adat iniziò a prendere campo soprattutto nella risoluzione di controversie di natura economica, per le quali era previsto il Tribunale Arbitrale, il quale tuttavia funzionava poco e male, e non riscuoteva la fiducia dei cittadini.

Del resto Dudaev aveva tentato di reintrodurre l’Adat nei livelli più bassi dell’amministrazione della giustizia. In particolare, con la ricostituzione del Mekhk  – Khel, il Consiglio degli Anziani, Dudaev puntava a ricostituire un sistema di arbitrato locale basato sul diritto consuetudinario. In questo senso il Consiglio degli Anziani fu ufficialmente riconosciuto come entità deputata al “controllo morale ed alla supervisione delle attività istituzionali” dall’articolo 12 della Legge sull’Attività del Parlamento della Repubblica Cecena, varata il 24/12/1991. Tale legge riconosceva il Mekhk -Khel come una istituzione dello Stato, ma i suoi membri presero presto a comportarsi in maniera così pervasiva da costringere il Parlamento a negare il diritto del Consiglio degli Anziani ad interferire con le attività degli organi statali, revocando lo status di “istituzione statale” al Mekhk – Khel (febbraio 1992).

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“LA MIA VITA CON DZHOHAR DUDAEV” – MEMORIE DI ALLA DUDAEVA (PARTE 2)

Alla Dudaeva accompagnò suo marito per tutta la durata della guerra fino a quando, il 21 Aprile 1996, i federali individuarono il suo segnale di chiamata e riuscirono ad ucciderlo con un bombardamento missilistico sulla posizione dalla quale stava avendo una conversazione telefonica. In questa seconda serie di citazioni riportiamo le memorie di Alla riguardo al periodo della guerra.

LA GUERRA

La guerra era inevitabile e Dzhokhar lo capiva meglio di chiunque altro. Parlando alla gente. Fu molto serio e concentrato: “Si, una guerra è imminente. Si, sarà molto difficile per noi, ma la nostra generazione la porterà a termine. Per secoli, ogni cinquant’anni la Russia ha distrutto il nostro popolo. Raccogliamo le nostre forze. Si, loro combatterono, ma non vinsero mai. Noi vinceremo! Anche se dovesse rimanere vivo soltanto il trenta percento di noi”. Vecchi uomini, guidati da Ilyas Arsanukaev vennero all’ufficio di Dzhokhar. Ilyas iniziò la conversazione: “Dzhokhar, non sei dispiaciuto per gli altri, non ti dispiace per te stesso…”. Dzhokhar, che non si è mai seduto di fronte e persone anziane, sentendo queste parole, si sedette ed ascoltò in silenzio il discorso di Ilyas. Poi, come al solito, come sempre quando era eccitato, strinse i pugni e disse con voce insolita per lui, calma, ma molto ferma: “Ilyas, non sono una persona così felice di morire in questa guerra. La nostra conversazione è finita.” Era una persona appassionata, una persona entusiasta per la quale un’idea è più importante della sua vita, delle vite dei suoi cari e di quelle di coloro che gli stanno intorno.”

I fratelli Abu e Iles Arsanukaev, militanti della prima ora del Comitato Esecutivo e molto vicini a Dzhokhar Dudaev

L’ASSALTO DI NOVEMBRE

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Non volendo invadere direttamente la Cecenia, il governo federale russo tentò in un primo momento di mettere su un esercito di fiancheggiatori ceceni che rovesciasse Dudaev senza troppo clamore. L’opposizione antidudaevita, concentrata nel Nord del paese, fu armata ed affiancata da militari a contratto: dopo alcuni mesi di schermaglie questa forza, appoggiata dall’aereonautica federale e da un imponente dispiegamento corazzato, tentò di prendere Grozny il 26 Novembre 1994. Quella battaglia, terminata con la completa vittoria dei dudaeviti, costrinse i russi ad intervenire direttamente per “ripristinare l’ordine costituzionale”, dando il via alla Prima Guerra Cecena.

“Dalle 7 del mattino del 26 Novembre hanno iniziato a bombardare il centro di Grozny, il Palazzo Presidenziale e le strade adiacenti. Gli attacchi missilistici e i bombardamenti sono continuati per un’ora. Quindi i carri armati sono entrati in città da tre lati. Gli aereoplani ruggivano e ululavano, perforando i piani superiori degli edifici residenziali con raffiche di mitragliatrice. La prima colonna corazzata, accompagnata dalla fanteria, si è divisa ed è entrata in città attraverso l’autostrada di Petropavlovskoye ed il Microdistretto; la seconda colonna – attraverso la trentaseiesima sezione. I Gantamiroviti attraverso Chernorechye. 

Il primo attacco fu fermato dai combattenti di Ilyas Arsanukaev. Diversi carri armati fecero irruzione nel centro, dove furono accolti dalla Guardia Presidenziale. Le colonne dei carri furono divise in gruppi dalle unità di Shamil Basayev e Ruslan Gelayev ed iniziò il loro bombardamento. I carri armati bruciavano come fuochi nelle strade. Appollaiati sui tetti delle case, i cecchini russi sparavano sui coraggiosi volontari. 

Resti dei carri da battaglia in dotazione agli antidudaeviti carbonizzati davanti al Palazzo Presidenziale

[…] I veicoli corazzati erano in fiamme in tutta la città e i cadaveri carbonizzati dei soldati russi erano sparpagliati ovunque. Delle unità d’élite delle divisioni Kantemirovskaya e Taman sopravvissero soltanto pochi veicoli corazzati. La città odorava di bruciato. Giornalisti stranieri e media russi filmavano e mostrarono al mondo intero i volti dei primi prigionieri [russi, ndr.] catturati dopo la battaglia dei carri. Insieme ai banditi ceceni, agli “oppositori”, ce n’erano più di 100. Ma il comandante Pavel Grachev, insieme alla leadership politica e militare della Russia, abbandonò i soldati russi, dichiarando pubblicamente di non sapere nulla della partecipazione dell’esercito federale alla “azione anti – Dudaev”. La bugia era palese e ovvia e suscitò indignazione pubblica nella stessa Russia.

Il presidente Dzhokhar Dudaev disse: “Stiamo conducendo una guerra non con l’opposizione, ma con la Russia. La prova di ciò sono i settanta militari russi che abbiamo arrestato”. Quando i giornalisti gli hanno chiesto quale sarebbe stata la sorte dei prigionieri di guerra, egli rispose: “In questo caso, stiamo parlando di delinquenti. Poiché la Russia non riconosce queste persone come personale militare, dovremo giudicarle secondo le leggi del tempo di guerra, cioè come criminali. Solo se Mosca dichiara che sono soldai russi che eseguono un ordine, e ammette apertamente il fatto che si tratta di un intervento militare negli affari della Cecenia sovrana, essi, come prigionieri di guerra, saranno trasferiti in Russia di comune accordo. […] Se il Ministro della Difesa non sa dove sono i suoi militari come può guidare le forze armate del paese, come può conoscere la situazione operativa? Tali dichiarazioni da parte sua sono stupide e ingenue.”

L’ASSEDIO

Dopo la bruciante sconfitta delle milizie antidudaevite del 26 Novembre 1994, la Russia si decise ad intervenire direttamente, inviando un grosso contingente corazzato alla presa di Grozny. La città patì immense distruzioni, ma l’avanzata dei federali per le sue strade fu sanguinosa e per nulla facile. Alla Dudaeva racconta qui le sue impressioni:

“Un enorme armata di carri armati russi bruciò nel centro di Grozny in un inferno. L’Esercito di Grachev cadde nella trappola dei dudaeviti. Come stormi di corvi neri, aerei ed elicotteri russi sorvolavano la città, lanciando missili e bombe. Cannonate di artiglieria a lunga gittata e lanciarazzi Grad rombavano incessantemente. In Piazza della Libertà e in Piazza Sheikh Mansur le guardie presidenziali e le milizie, normali lavoratori di ieri: insegnanti, medici, muratori, combatterono e morirono in uno scontro terribile. Impararono le lezioni della guerra, sacrificando la loro cosa più preziosa: la loro vita. […] Lo spettacolo era così terribile che era difficile credere a i propri occhi. Era l’inferno sulla terra. Storditi dalla sorpresa, i federali confusi bombardavano le loro stesse unità chiedendo l’aiuto dell’aviazione!”

Carro armato dell’esercito regolare ceceno si dirige verso una postazione di combattimenti nei pressi del Palazzo Presidenziale

[…] Il Palazzo Presidenziale in Piazza della Libertà è diventato un simbolo delle battaglia dell’Ichkeria. Venne bombardato con tutti i tipi di armi, ma i falchi russi non riuscirono a distruggerlo. Una bomba di profondità di molte tonnellate, che perforò tutti e 9 i piani ed i soffitti di cemento, uccise contemporaneamente 40 persone nel seminterrato: prigionieri e feriti, insieme alle infermiere. Un’altra bomba esattamente uguale si incastrò, senza esplodere, in uno dei solai. I difensori del palazzo ed i giornalisti si recarono stupiti a vedere le sue enormi dimensioni.

Si decise di spostare la sede del Presidente in un luogo più sicuro. Dzhokhar rifiutò a lungo, ma i suoi seguaci insisterono sulla loro decisione: “Non puoi rischiare la causa della libertà. Cosa succederà alla Repubblica se moriremo tutti insieme?” Si trasferì solo dopo un lungo lavoro di persuasione. Amici e compagni fedeli rimasero al Palazzo: Aslan Maskhadov, Zelimkhan Yandarbiev, la Guardia Presidenziale e le milizie.

CRIMINI DEI “LIBERATORI”

Ardente sostenitrice degli ideali propugnati da suo marito, Alla Dudaeva fu sempre molto critica verso il comportamento delle truppe di occupazione russe:

“Il villaggio di Assinovskaya si era arreso dopo una consultazione preliminare dei residenti, senza combattere. Questo è un esempio di cosa accadde a coloro che si arresero. I soldati entrarono in ogni casa, cercarono e presero quello che volevano, quello che piaceva loro. […] Una ragazza di sedici anni fu portata via in un mezzo blindato, una vicina russa, uscita fuori per proteggerla urlando come stesse difendendo sé stessa, fu uccisa con una raffica di fucile automatico. La ragazza non è mai tornata. Due bambini di undici e nove anni, che avevano violato il coprifuoco per recuperare una mucca slegata, non tornarono a casa. Quando al mattino seguente la madre in lacrime implorò i soldati russi di raccontarle cosa fosse successo, ricevette come risposta: saltarono in aria su una mina. Ma nessuno aveva sentito l’esplosione nel villaggio. Furono ritrovato morti, e che aspetto [terribile] avevano! Un anziano, che stava esortando i compaesani a non far entrare nessun militare nel villaggio, è stato spogliato e linciato in un cerchio dai militari russi. Lo stesso fecero con sette adolescenti di quindici o sedici anni.

Cadaveri di civili ceceni uccisi nella strage di Shamaski

[…] Non molto tempo fa, nello stesso villaggio sono stati uccisi 27 civili che […] erano tornati alle loro case. Per gli occupanti tutti sono uguali. La paura ha occhi grandi: inizieranno improvvisamente una “guerra partigiana” nel villaggio?

[…] Chi ha visto gli enormi fossati di Grozny riempiti coi corpi delle persone uccise durante i bombardamenti? Se ne trovano durante lo smantellamento di edifici distrutti, vicino alle case, nel fiume o sepolti nelle fosse comuni. Diciottomila persone, di diverse nazionalità, credevano di non vere nulla da temere dall’esercito russo e quindi non se ne andarono in tempo […].

MANIFESTAZIONI DUDAEVITE A GROZNY

Con il passare dei mesi la durezza della vita sotto il regime di occupazione ed i continui successi della guerriglia dudaevita dettero il la ad una serie di manifestazioni di protesta, durante le quali gli intervenuti facevano sfoggio di ritratti del presidente e di bandiere della Repubblica Cecena di Ichkeria. Alla Dudaeva descrive l’atmosfera di quegli eventi.

“La Russia stava subendo un collasso, sia militare che morale, che politico. Annunciò l’intenzione di risolvere il problema delle relazioni russo – cecene con mezzi politici. Beato chi ci crede…

Incontro aperto a Grozny. Decine di migliaia di persone  – Anziani, donne e bambini – Rimangono nella neve con qualsiasi tempo. Vicino al Palazzo Presidenziale, bombardato e carbonizzato, sui resti della cui facciata sono appesi un ritratto del Presidente Dzhokhar Dudaev e la bandiera verde ribelle della Repubblica Cecena di Ichkeria, c’è un campo di tende. E’ stato chiamato “Duki – Yurt”, dal nome di infanzia di Dzhokhar [“Duki”, appunto, ndr] […]. Arrivano autobus da tutta la repubblica. Nelle fredde notti invernali la gente si riscalda davanti al fuoco con tè e con quello che a volte riesce a passare attraverso la fitta sicurezza del Ministero dell’Interno, il quale sta assediando una manifestazione di disobbedienza senza fine. Sulla neve sciolta, in ginocchio, una donna anziana e magra tiene con entrambe le mani il ritratto del Presidente Dudaev, stretta al petto infossato.

Separatisti ceceni manifestano tra le rovine del Palazzo Presidenziale, 4 Febbraio 1995

[…] L’8/9/10 Febbraio le truppe di occupazione, vestite con uniformi della polizia cecena, della polizia antisommossa e delle forze speciali, sparano su una manifestazione permanente in piazza Svoboda. Per ordine di Doku Zavgaev diverse tonnellate di dinamite vengono deposte di notte nelle fondamenta del Palazzo Presidenziale, orgoglioso simbolo della libertà di Ichkeria, e lo fanno saltare in aria. Queste scene furono trasmesse alla televisione russa per molto tempo. Questo è ciò che attende tutte le nazioni che si ribellano! Dopo due potenti esplosioni l’edificio monolitico si alza in aria, poi scende lentamente in una grande e densa nuvola di polvere. Bene, l’edificio può essere distrutto, ma lo spirito di libertà non può essere sconfitto!

GROZNY, MARZO 1996

Il primo segnale che la situazione militare stesse cambiando a favore dei separatisti fu il successo del Raid su Grozny organizzato da Dudaev nel Marzo 1996, poco più di un mese prima di morire: le forze separatiste riuscirono a penetrare nella capitale, metterla a soqquadro ed abbandonarla senza che i federali riuscissero a fermarle. In questo ultimo brano, Alla Dudaeva ne descrive gli eventi salienti.

Il 6 Marzo ha avuto luogo un’improvvisa cattura senza precedenti nella storia di Grozny, la città più fortificata al mondo, secondo gli esperti militari. Si basava su tattiche militari completamente nuove. Il nostro piccolo esercito non aveva aerei, carri armati, installazioni Grad, artiglieria pesante e leggera (allora non avevamo altro che fucili mitragliatori e un ardente, inesauribile desiderio di riscattare l’ingiustizia più crudele). Era possibile solo con la forza dello spirito […] Johar doveva trovare una via d’uscita, e la trovò!

Avendo precedentemente occupato tutti i passaggi e le “fessure” nella difesa di Grozny, i nostri militanti entrarono in città alle 5 del mattino e presero posizione. All’ora stabilita, iniziarono a prendere d’assalto i posti di blocco, gli uffici del comandante e le altre strutture militari. Le esplosioni scuotevano la terra. I residenti di Grozny di unirono agli attaccanti, portando via le armi ai soldati russi, sequestrando camion dei pompieri, li hanno riempiti di benzina ed hanno lanciato la benzina dai manicotti contro i veicoli blindati per incendiarli. Il torrente infuocato generò un ruggente muro di fuoco, dal quale saltarono fuori i soldati. I veicoli corazzati esplodevano, i proiettili esplosivi volavano in tutte le direzioni.

[…] L’assalto alla città continuò per tre giorni. Alla fine le munizioni terminarono, e lo scontro a fuoco ebbe termine. […] La cattura dimostrativa della capitale fu completata in tre giorni. Questa operazione mostrò al mondo intero la forza dell’esercito ceceno, ed il fatto che le nostre scorte erano state significativamente rifornite.

Vista di Grozny dal tetto dell’edificio sede dell’FSB in città, Agosto 1996

L’ECONOMIA AGRICOLA DELLA CHRI – PRIMA PARTE

DALLE ORIGINI ALLA “RIVOLUZIONE CECENA”

INTRODUZIONE

Tra le tante mancanze che la storiografia occidentale ha in relazione alla storia recente della Cecenia, c’è sicuramente quella di non aver mai approfondito le ragioni del conflitto sociale che fu all’origine della Rivoluzione Cecena, della secessione dalla Russia e delle due sanguinose guerre che dilaniarono il paese. Anche i più attenti tra i giornalisti che si sono occupati di questo tema si sono fermati alla definizione del conflitto russo – ceceno come di una “guerra per il petrolio” intrecciata con un confronto politico tra il regime ultranazionalista di Dudaev ed i revanscisti russi del cosiddetto “partito della guerra”. Tutto questo è vero: certamente nazionalismo radicale ed interessi petroliferi furono due elementi essenziali a spingere la Cecenia sulla via dell’indipendenza, e da lì nella spirale autodistruttiva dell’anarchia e del fondamentalismo. Tuttavia entrambi i fenomeni sono “concause”, derivanti da un problema socioeconomico precedente, mai risolto, detonato al crollo dell’URSS. Questo problema non stava nelle raffinerie, né nelle assemblee legislative, ma tra i campi e i pascoli dove la maggior parte dei ceceni risiedeva.

Questo ciclo di articoli è un focus sulla storia agricola della Cecenia. Che poi è la storia della maggior parte dei ceceni fino al 1991.

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LA GEOGRAFIA PLASMA I POPOLI

Guardando la carta fisica della Cecenia salta subito all’occhio come questa sia divisa in due aree geografiche ben distinte: c’è una “regione delle pianure” a Nord, ed una “regione delle montagne” a sud. Fin dal loro insediamento in queste terre, gli antenati dei ceceni si organizzarono in clan (i cosiddetti “Teip”) che si identificavano con la loro collocazione geografica: quelli del sud si definirono “teip della montagna” e si dedicarono all’allevamento, mentre quelli del nord divennero i “teip della pianura” e svilupparono l’agricoltura. Tra i due gruppi di clan si svilupparono fitti rapporti economici, con i pastori del sud che ogni anno scendevano a valle per commerciare i prodotti dell’allevamento in cambio di frumento per i loro animali e di farina per sfamarsi, ma parallelamente si produssero anche delle differenze culturali: gli abitanti del sud rimasero culturalmente più rigidi, meno inclini alla contaminazione con la nascente cultura slava, animati dalla convinzione di essere i depositari di una genuina “cecenità” in contrasto con la “meticcia” popolazione delle pianure. Anche il progressivo acuirsi delle differenze economiche tra i due gruppi, dovuto al sempre maggior sviluppo agricolo del nord e il conseguente “emanciparsi” dei benestanti che abitavano quelle terre, rafforzò negli abitanti del sud montagnoso la convinzione di essere lo “zoccolo duro” della nazione, il suo cuore incorruttibile, disposto a combattere e a morire pur di non piegarsi alla dominazione straniera o alla pervasività di culture più evolute come quella russa la quale, tra una guerra e l’altra, penetrava nella Cecenia settentrionale con le sue strade, le sue scuole, i suoi telegrafi e infine la sua industrializzazione.

Geografia fisica della Cecenia. E’ evidente la divisione tra una “Cecenia delle Pianure” situata a Nord, ed una “Cecenia delle Montagne” a Sud.

Agli inizi del ‘900, mentre le pianure del nord conoscevano la loro prima industrializzazione (intorno agli allora ricchi giacimenti di petrolio) e nel bel mezzo di quel territorio prosperava una cittadina moderna di trentamila abitanti (Grozny, originariamente costruita dagli stessi Russi come fortezza militare) il sud rimaneva una terra aspra e povera, formalmente parte dell’Impero Russo ma di fatto indipendente, nella quale la figura dell’Abrek (il “Brigante d’Onore” che ruba ai ricchi e distribuisce i frutti delle sue razzie ai poveri contadini affamati) era considerata quasi un’istituzione politica, ed ogni forma di governo combattuta come un esercito invasore. Le Montagne rimasero fino al 1944 il rifugio di chiunque intendesse opporsi al governo imperiale russo, e tra le loro gole si armarono e partirono all’assalto numerosi eserciti di volontari determinati a “Liberare” la Cecenia dal giogo di Mosca.

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IL POTERE SOVIETICO

Come tutti i popoli pre – industriali, anche i ceceni presentavano alti tassi di natalità e una piramide sociale fortemente sbilanciata verso le giovani generazioni. Gli anziani erano pochi (l’età media era inferiore ai cinquant’anni, mentre i bambini e gli adolescenti erano tantissimi. Questo continuo afflusso di forze giovani, per lo più disoccupate, veniva assorbito principalmente dalle coltivazioni del Nord, cosicché le popolazioni montane “scaricavano” le loro eccedenze sulle fattorie localizzate nelle pianure, o le inurbavano a Grozny, Gudermes, Urus – Martan e nelle altre cittadine stabilite lungo il corso dei due principali fiumi del Paese, il Terek ed il Sunzha.

Questo fenomeno si ingrossò ulteriormente con la nascita dell’URSS, allorché il governo di Mosca lanciò il programma di collettivizzazione delle terre, dirigendo gli investimenti pubblici sulle aziende collettive (i famosi Kolchoz e Sovchoz) con l’intento di costringere i piccoli agricoltori ad associarvisi. Il piano di collettivizzazione fu iniziato proprio dalle regioni del Caucaso, ed in particolare la Repubblica Socialista Sovietica Autonoma Ceceno  – Inguscia (lo stato – fantoccio costituito dai sovietici per governare la regione) fu tra le prime a sperimentarne gli effetti. Laddove le misure di incentivo non funzionavano, il potere sovietico non si riguardò ad usare la violenza, come nel caso della persecuzione dei Kulaki (i contadini “ricchi” che si opponevano alla collettivizzazione delle loro proprietà) attuata tra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ‘30.

I ceceni di montagna, da sempre abituati a vivere in modo indipendente, non accettarono le imposizioni di Mosca. Questo atteggiamento, se da un lato mantenne vivo e fiero il sentimento nazionale dei ceceni, acuì per contro il divario da la popolazione del nord, la quale cominciava a sperimentare il benessere derivante dall’industrializzazione del lavoro, e quella del sud, che rimaneva ancorata ad un modello economico di sussistenza. Gli effetti di questo stato di cose sono facilmente rilevabili nell’arretratezza cronica nella quale rimase il settore dell’allevamento, motore trainante l’economia del Sud, rispetto alla sempre maggior produttività del comparto agricolo, caratteristica dell’economia del Nord: Per dare qualche numero, nel 1944 nelle fattorie collettive risiedevano soltanto tra il 6 ed il 19% dei capi di bestiame, mentre il resto rimaneva sparpagliato in piccole e piccolissime realtà economiche di sussistenza e non produceva praticamente alcun tipo di surplus.

contadine al lavoro in un Kolchoz

La deportazione operata da Stalin nel 1944 sconvolse bruscamente l’equilibrio secolare tra il Nord e il Sud del paese. Nell’ottica di pacificare una volta per tutte quella regione di confine il dittatore russo decise di sbarazzarsi del problema alla “sua” maniera: fedele al motto “niente uomini, niente problemi” Stalin ordinò la fulminea deportazione di tutta la popolazione cecena dalla regione ed il suo trasferimento in Asia Centrale, con l’intenzione di non permettere più ad un solo ceceno di nascondersi tra quelle montagne così impervie e inespugnabili. Per tredici anni i Ceceni (ma anche gli Ingusci) vissero in uno stato di esilio permanente che fu interrotto soltanto dalla morte dello spietato leader sovietico.  Il suo successore, Khrushchev, permise un graduale rientro dei Vaynakh nelle loro terre, ma ebbe cura di impedire loro di reinsediarsi in massa nei distretti montani, volendo evitare che il problema così brutalmente risolto da Stalin si riproponesse alla prima difficoltà politica dell’URSS.  Gran parte dei ricchi pascoli della Cecenia meridionale rimasero quindi spopolati e improduttivi, ed i profughi russi inviati a sostituire i ceceni non si arrischiarono ad avviare attività in montagna, preferendo la vita di città e le occupazioni industriali. D’altro canto le autorità sovietiche tentarono di limitare l’afflusso dei ceceni anche nella capitale, Grozny, la quale, nel frattempo, era passata dai 170.000 ai 250.000 abitanti, per lo più immigrati russi inviati là da Stalin per sostituire i ceceni deportati. La misura era volta ed evitare che il tumultuoso ritorno dei ceceni alle loro terre generasse conflitti sociali con la minoranza russa, ma il primo effetto che produsse fu quello di allontanare geograficamente gli indigeni dal principale centro industriale e culturale del paese, generando il germe della discriminazione tra i ceceni, destinati a rimanere poveri agricoltori analfabeti, ed i russi, avvantaggiati dalle opportunità offerte dallo sviluppo di Grozny e preferiti dalle autorità sovietiche nelle attività pubbliche e politiche.

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LA CECENIA SOCIALISTA

Tra gli anni ’60 e 70 le autorità stimolarono l’inurbamento degli abitanti delle regioni montane tramite campagne pubbliche, attraendo un sempre maggior numero di giovani provenienti dai remoti distretti montani di Itum – Khale e Sharoy nei villaggi alla periferia di Grozny, il cui distretto passò dai 250.000 ai 400.000 abitanti tra il 1960 e il 1990.  La città divenne un corpo esageratamente pesante rispetto alla capacità del territorio rurale di provvedere al suo mantenimento. Questo cronico deficit alimentare si acuiva man mano che le montagne si spopolavano, e l’allevamento perdeva sempre maggiori quote di produttività a vantaggio dell’agricoltura: basti pensare che nel 1990 il seminativo produceva il 61% dell’ammontare loro di produzione agricola, pur estendendosi su appena il 30% del territorio, mentre l’allevamento ed i prodotti di filiera, pur avendo a disposizione il 60% del territorio, raggiungevano appena il 39% del prodotto lordo. Altro indicatore dell’arretratezza del settore era la sua scarsa redditività: l’allevamento presentava una redditività media del 7% (intorno al livello di sussistenza) mentre l’agricoltura raggiungeva il 22,7%, un dato non molto confortante, considerato che era uno dei più bassi dell’URSS, ma comunque ancora sufficiente a garantire un decoroso livello di benessere agli occupati. Per effetto di questo disinteresse (come abbiamo visto, in parte “voluto”) verso l’allevamento la Cecenia, che pure aveva tutte le carte in regola per diventare un grosso produttore di carne e latticini, si ritrovò ad importare quasi la metà dei prodotti da allevamento da altre regioni dell’URSS.

L’ECONOMIA DEL PETROLIO

Come abbiamo accennato in questo articolo (e spiegato approfonditamente QUI) lo sviluppo dell’industria di prospezione petrolifera aveva trasformato la Cecenia in uno dei principali fornitori di petrolio dell’Unione Sovietica. Negli anni ’70 la produzione di greggio iniziò a calare, per effetto del progressivo esaurirsi dei pozzi superficiali. Il governo di Mosca decise di convertire il settore estrattivo in quello della lavorazione dei prodotti petroliferi, favorendo la costruzione di uno dei più grossi complessi di raffinazione di tutta l’Unione. Alla periferia di Grozny sorserò così tre grandi raffinerie, ed una estesa rete di impianti per la produzione di lubrificanti, oli combustibili e refrigeranti per motori. Questo piano avrebbe permesso di sfruttare la manodopera specializzata già presente nel paese, oltre alle infrastrutture per il trasporto della materia prima già presenti, ma non solo: non potendo sopperire da sola, con le sue sempre più scarse risorse naturali, all’alimentazione delle sue raffinerie, la Cecenia sarebbe stata sempre più dipendente dalle forniture di petrolio provenienti da altre regioni dell’URSS, integrandosi maggiormente nel sistema politico. Nell’ottica di mantenere uniti tutti i soggetti sottoposti al regime socialista, Mosca aveva ideato un sistema di interdipendenze economiche per le quali ogni repubblica aveva bisogno delle altre per poter sostenere il proprio benessere. Nel caso della Cecenia si era scelto di sviluppare il settore della lavorazione dei derivati del petrolio, impiantando fabbriche, magazzini, oleodotti e scuole atte alla formazione dei lavoratori del settore. La Cecenia non doveva emergere come piccola potenza agricola, ma dedicarsi alla sua “missione” socialista: la produzione di idrocarburi industriali per l’armata rossa e per le industrie pesanti. In cambio, l’agricoltura locale, povera e arretrata, sarebbe stata tenuta in piedi con laute sovvenzioni pubbliche. Così, se nel 1975 il debito delle fattorie collettive e delle altre imprese agricole ammontava a circa 6,2 milioni di rubli (circa 137 milioni di euro attuali) nel 1980 questo era lievitato a 40,2 milioni, corrispondenti a circa 900 milioni di euro odierni. Giusto per dare un ordine di paragone, questa cifra era circa dieci volte il PIL della Cecenia di allora.

Dietro alla politica dei sovvenzionamenti statali c’era anche l’altra faccia della medaglia dei rapporti tra Russia e Cecenia. Se gli investimenti nel settore industriale servivano a rendere la piccola repubblica dipendente dal sistema socialista, le sovvenzioni agricole servivano principalmente a mantenere i ceceni fuori da Grozny. La città si era infatti accresciuta principalmente grazie all’insediamento di russi e discendenti di russi trasferiti qui da Stalin nel 1944 – 46, mentre i ceceni che progressivamente rientravano dall’esilio in Asia Centrale veniva ostacolato il reinsediamento nelle grandi città. Per loro il progetto socialista prevedeva un futuro da “eccedenza rurale”, cioè massa lavoratrice scarsamente qualificata dedita all’agricoltura o al lavoro stagionale. Come specificato nel pezzo dal titolo “Battaglia per la Cecenia: guerra della storiografia” di D.B. Aburakhmanov e di Ya. Z. Akhmadov:

“Quindi, misure appositamente adottate dal 1957 hanno fortemente limitato il permesso di soggiorno dei ceceni e degli ingusci a Grozny e parti del distretto di Grozny, e senza un permesso di soggiorno non hanno potuto accedere a lavori in un certo numero di industrie (ad eccezione del commercio, dei lavori stradali e dell’edilizia ). Inoltre, le principali imprese di produzione di petrolio e costruzione di macchine, che avevano salari alti, fondi per appartamenti , ecc., non permettevano ai ceceni e agli ingusci di “sparare colpi di cannone”. C’era una garanzia reciproca che permetteva al partito e alla marmaglia economica di ignorare anche le decisioni del Comitato centrale del PCUS di correggere gli squilibri nella questione nazionale nella Repubblica socialista sovietica autonoma ceceno-inguscia ”

Il sovvenzionamento dell’agricoltura da parte del governo sovietico era funzionale a mantenere quieta questa massa sempre più grande di cittadini semianalfabeti e privi di qualifiche professionali, la quale negli anni ’90 avrebbe costituito la massa d’urto della Rivoluzione Cecena. Così, nel 1990, il 70% della popolazione rurale della RSSA Ceceno – Inguscia era costituito da Vaynakh mentre soltanto il 15 – 20% dei ceceni era impiegato nel settore secondario.

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I timidi passi messi in atto dal 1985 dal governo di per correre ai ripari e limitare il divario tra i residenti russi, per lo più istruiti e impiegati nei settori secondario e terziario, ed i Ceceni, per lo più non istruiti e dediti all’agricoltura (e per entrambi i motivi sempre più insofferenti verso la minoranza russofona) non ebbero il tempo di produrre risultati tangibili. L’esercito dei lavoratori stagionali cresceva di pari passo con la crisi economica che attanagliava l’URSS in quegli anni. Il calo delle sovvenzioni pubbliche all’agricoltura generava sempre maggior surplus di manodopera, la quale per sopravvivere si dedicava al cosiddetto “shabaskha”, o “lavoro festivo”. Gli storici dibattono sulla consistenza numerica di questo fenomeno, ma le cifre più frequenti si aggirano tra gli Ottantamila e i Duecentomila individui, per lo più capifamiglia.

Raffineria a Grozny, foto scattata negli anni ’60

L’ERA GORBACHEV

I.G. Kosilov, in una monografia del 2012 scrive:

“Fino al 1991, ⅘ della popolazione normodotata, per lo più uomini ceceni, erano impegnati nel cosiddetto ‘shabashka’, o lavoro festivo, come era consuetudine designare questo tipo di attività lavorativa. Praticamente dall’inizio della primavera all’autunno, hanno lavorato in varie regioni del paese alla costruzione di manufatti – case, locali per il bestiame , ecc. – avendo concordato la consegna rapida di questo oggetto su base “chiavi in ​​mano”,  utilizzando la cosiddetta “brigata” [cioè una squadra di lavoratori organizzati in una sorta di “cooperativa” informale NDR]. Va notato che l’alto salario non ha compensato i lavoratori per le perdite in un’altra area: isolamento prolungato dalle famiglie, soggiorno spesso in luoghi lontani dal Caucaso, mancanza di cure mediche e comfort di base. I “Sabbat” erano i principali capifamiglia della popolazione cecena. Questo era il principale tipo di etnoeconomia nella repubblica. Gli uomini ceceni per la maggior parte non avevano specialità industriali moderne, la professione principale tra loro era quella del muratore o del pastore. Erano questi costruttori e pastori (delle zone rurali) che lavoravano in tutti i cantieri dell’URSS ”.

Allo scoppio della Prima Guerra Cecena la “Brigata” sarebbe diventata l’unità di base dell’esercito separatista, ed i suoi comandanti avrebbero attinto a piene mani da questa formula di inquadramento già sperimentata in campo civile. A ben guardare, quindi, gli elementi sociologici che avrebbero assicurato da una parte la vittoria della prima guerra, dall’altra l’anarchia degli anni successivi erano già presenti in un popolo gravemente traumatizzato dall’esilio, poi dalla discriminazione economica e infine dalla discriminazione sociale.

E’ evidente, dagli studi storici effettuati, che la base sociale del nazionalismo separatista ceceno era proprio questa “eccedenza rurale” che alla fine degli anni ’80 era ormai ridotta alla fame, o aveva ingrossato per necessità le file del crimine organizzato, destinato a diventare tristemente noto col termine di “mafia cecena”. Questa massa di disperati, facilmente mobilitabili e disposti a lottare per cacciare la nomenklatura sovietica (considerata la causa della miseria degli strati popolari) e la minoranza russa (considerata una sorta di grande parassita sulle spalle dei lavoratori indigeni) covava un sentimento rivoluzionario che trovò terreno fertile anche tra le altre anime della società cecena: prima fra tutti la nascente borghesia privata, nata dalle riforme di mercato di Gorbachev, la quale vedeva nella caduta del sistema socialista l’opportunità di mettere le mani sulle risorse statali, privatizzandole, e andando a costituire la punta di lancia di un modo capitalista di intendere l’economia.

Militanti separatisti radunati intorno a Dzhokhar Dudaev. Sullo sfondo il motto dei rivoluzionari: “Morte o Libertà!”

A dare una veste “politica” alle rivendicazioni socioeconomiche c’erano gli intellettuali e gli idealisti, appartenenti per lo più ai settori accademici ed ai comparti più scolarizzati della popolazione, i quali sostenevano le tesi dei primi e dei secondi nell’ottica di democratizzare la vita politica e scrollarsi di dosso l’ormai incagliato sistema a partito unico. Per motivi fondamentalmente diversi, quindi, la gran parte della popolazione convergeva sulla necessità di rivoluzionare il sistema: cosa si sarebbe dovuto fare dopo era oggetto di aspri dibattiti i quali, come vedremo, avrebbero scatenato una vera e propria guerra civile.

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LA CECENIA E L’INDIPENDENZA CONDIZIONATA: IL “PIANO AKHMADOV”

UN NUOVO MINISTRO DEGLI ESTERI

Ilyas Akhmadov fu appuntato Ministro degli Esteri da Maskhadov il 27 Giugno 1999, pochi mesi prima dello scoppio della Seconda Guerra Cecena. Akhmadov fu scelto per il fatto di non aver partecipato a nessuna delle azioni terroristiche (Budennovsk e Klizyar in primis) che avevano resto tristemente celebre la resistenza separatista durante il primo conflitto. In questo modo egli avrebbe potuto muoversi con maggior facilità tra le cancellerie occidentali senza incorrere nel rischio di essere arrestato per terrorismo. Nella sua veste di alto rappresentante della diplomazia cecena, Akhmadov si diresse dapprima in Turchia, poi in Belgio, poi ancora negli Stati Uniti, girando in lungo  e in largo nel tentativo di coinvolgere i governi occidentali in un negoziato trilaterale con la Federazione Russa (per approfondire, leggi il libro “Libertà o Morte! Storia della Repubblica Cecena di Ichkeria, acquistabile QUI).

Ilyas Akhmadov the Minister of Foreign Affaires for the Chechen rebel government. (Photo by Alex Smailes/Sygma via Getty Images)

Presto fu tuttavia chiaro che nessuno dei governi in grado di fare la differenza in una trattativa con la Russia sarebbe intervenuto, appoggiando tout – court la posizione dei secessionisti. Così, dal 2001, il Ministro degli Esteri si mise ad elaborare un piano di pace che ponesse in essere le premesse di una separazione senza costringere il Cremlino ad accettarla sul piano formale. Il progetto, che pubblichiamo in versione italiana (scaricabile QUI in PDF) si basava sull’idea di trasformare la Cecenia in una sorta di protettorato, sotto il mandato delle Nazioni Unite,  per un periodo di 10 o 15 anni, durante i quali il paese sarebbe stato ricostruito e le istituzioni democratiche sarebbero state implementate, sul modello di quanto stava succedendo in Kosovo ed a Timor Est. Maskhadov avrebbe rassegnato le sue dimissioni, l’esercito russo si sarebbe ritirato e le forze armate cecene avrebbero smobilitato. Una volta che la situazione si fosse stabilizzata e le istituzioni democratiche avessero iniziato a funzionare sotto la protezione delle forze armate dell’ONU, nuove elezioni avrebbero portato alla costituzione di una Cecenia indipendente.

Il piano girava tutto intorno al concetto di “indipendenza condizionata”:

“Il riconoscimento condizionato di un governo o di uno Stato è il principio che consiste nel rendere il riconoscimento dell’entità in questione soggetto all’adempimento di condizioni precedentemente convenute. Una appropriata applicazione di questo principio attraverso il meccanismo di una amministrazione internazionale può risolvere il conflitto russo – ceceno con un approccio in cui vincono entrambe le parti. L’idea è semplice: la trasformazione della Cecenia in uno Stato realmente democratico e pacifico attraverso un periodo di transizione di diversi anni di amministrazione internazionale. Questa formula può non essere un miracolo, ma fornisce un modo per risolvere la sfida di soddisfare le legittime aspirazioni della Cecenia andando simultaneamente incontro alle autentiche esigenze di sicurezza della Russia, come alle preoccupazioni relative alla sicurezza della Georgia ed alla sicurezza ed agli interessi complessivi della comunità internazionale.

UNA STRADA IN SALITA

Il piano era di difficile attuazione, perché avrebbe dovuto passare dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU, del quale la Russia faceva parte, e difficilmente il Cremlino avrebbe accettato la presenza di forze di pace entro quelli che considerava i propri confini. Un segnale incoraggiante comunque giunse da Putin, che in relazione al piano proposto rispose: “Oggi la questione dell’indipendenza o meno della Cecenia dalla Russia è assolutamente non di fondamentale importanza. Ciò che è di fondamentale importanza per noi è soltanto una questione. Non vogliamo permettere che questo territorio venga usato ancora una volta come testa di ponte per un attacco alla Russia.” in questi termini, Putin poteva essere teoricamente disponibile a congelare nuovamente la questione dell’indipendenza in cambio della completa smilitarizzazione della Cecenia. Il piano venne sottoposto a Maskhadov qualche settimana dopo, sponsorizzato dallo scrittore francese Andrè Glucksmann e dal politico belga Olivier Dupuis, che si dissero disponibili a farsene relatori presso le autorità europee ed all’ONU. Esso tuttavia era debole per due motivi: prima di tutto la situazione della Cecenia non poteva essere assimilata a quella del Kosovo, perchè Russia non era la Serbia né in fatto di peso politico né in fatto di rapporti con l’occidente.

Vladimir Putin, Presidente della Federazione Russa. Allo scoppio della Seconda Guerra Cecena giustificò l’intervento armato come un’operazione volta a garantire la sicurezza della Russia. Il “Piano Akhmadov” muoveva dalla necessità di garantire a Putin il riconoscimento delle sue “ragioni di sicurezza” senza ledere il diritto della Cecenia all’autodeterminazione.

In secondo luogo, come spiegò Maskhadov nella sua risposta alla proposta di Akhmadov, “La mentalità della resistenza cecena era sempre più religiosa e sempre più frustrata rispetto all’Occidente ed alla democrazia, rispetto a quanto non fosse durante la prima guerra. […] dovete capire che quello che la gente vede riguardo alle democrazie occidentali sono dichiarazioni preoccupate di routine, gestualità vuote, che irritano soltanto la gente. Dovete capire che questo è tutto quello che hanno visto di codeste democrazie”. Maskhadov confidò che non sarebbe riuscito a tenere insieme il fragile fronte indipendentista se un simile piano fosse stato sponsorizzato da lui. In particolare, una simile soluzione avrebbe messo la resistenza in rotta di collisione coi suoi finanziatori, che erano per lo più comunità religiose mediorientali le quali mai avrebbero supportato finanziariamente un movimento che andava a braccetto con l’ONU, vista dai più come una sovrastruttura al servizio del potere occidentale. Rispose quindi che il piano poteva essere presentato, ma come una iniziativa personale di Akhmadov e dei suoi amici, e non come un documento ufficiale della ChRI.

IL PIANO NAUFRAGA

Anche all’interno di ciò che restava della gerarchia repubblicana, il dibattito sul piano fu acceso ed i funzionari non riuscirono a trovare un accordo.  Laddove Umar Khambiev, Ministro della Sanità ed inviato personale di Maskhadov in Europa, appoggiò entusiasticamente il piano, Akhyad Idigov, ex Presidente del Parlamento dudaevita, lo attaccò pesantemente accusando Akhmadov di voler vendere l’indipendenza della Cecenia e di attentare alla costituzione. Akhmadov propose il piano in via personale nel marzo 2003, ma proprio in quei mesi iniziò la seconda invasione americana dell’Iraq, e la questione cecena finì nelle ultime pagine dei giornali. Olivier Depuis, raccolse comunque le firme per presentare il piano alle Nazioni Unite, e per la metà del 2003 ne aveva già raccolte 30.000. L’azione di Depuis, che era un deputato del Partito Radicale Transnazionale, avrebbe portato, nel febbraio del 2004, il Parlamento Europeo a varare una risoluzione nella quale per la prima volta si riconosceva l’Ardakhar del 1944 come “genocidio”, ma oltre all’adozione di questa risoluzione, non ci sarebbe stato altro di politicamente rilevante. In ogni caso la discussione del “Piano Akhmadov” non riuscì neanche a decollare, giacché l’11 settembre 2001 Osama Bin Laden aveva lanciato il suo attacco terroristico agli Stati Uniti. Da quel momento il timore del terrorismo islamico si era impadronito delle società occidentali, ed anche i secessionisti ceceni avevano finito per essere considerati parte del fenomeno.

Alhyad Idigov, Deputato al Parlamento di I e II Convocazione e rappresentante del Parlamento all’Estero, criticò duramente il “Piano Akhmadov”, accusando il Ministro degli Esteri di voler sacrificare l’indipendenza della Cecenia, secondo il suo parere già acquisita nel 1991 e confermata nel Trattato di Pace del 1997. La mancanza di unità nel fronte secessionista fu una delle principali cause del naufragio della proposta di pace.

Come scrive Akhmadov: “Le cose sono cambiate radicalmente dopo l’11 settembre 2001, quando la maggior parte delle persone in Occidente, e certamente la maggior parte dei governi, ha iniziato a guardarci attraverso la lente dell’antiterrorismo. Il pretesto che l’uccisione di massa di civili ceceni da parte della Russia abbia contribuito alla guerra contro il terrorismo ha permesso all’Occidente di mantenere stretti rapporti con la Russia e di assolvere la sua coscienza collettiva ignorando le atrocità. Vedere questa guerra come uno dei fronti di guerra contro il terrorismo globale ha liberato l’Occidente dai suoi obblighi al rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale nei suoi rapporti con la Russia.”. La resistenza cecena, che per parte sua aveva compiuto atti di terrorismo e che, radicalizzandosi, aveva assunto i turpi connotati del fanatismo religioso, fu pesantemente colpita dai nefasti effetti dell’azione di Al Qaeda, che gli alienarono completamente le simpatie dell’occidente, fatta eccezione per qualche giornalista, qualche associazione umanitaria e qualche uomo politico di scarso peso. Le autorità russe si resero conto di avere campo libero nel portare a termine la loro invasione e chiusero a qualsiasi negoziato che potesse portare anche soltanto ad una tregua.

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LA LEGITTIMITA’ DELLA REPUBBLICA CECENA DI ICHKERIA

IL PROBLEMA DELLA LEGITTIMITA’

Quando si parla di legittimità di uno Stato si apre un tema molto complesso. “Legittimità” significa essenzialmente “diritto di esistere”.  La natura di questo diritto ed il suo comportamento riguardo i sistemi istituzionali possono variare a seconda del punto di vista dal quale si considera e a seconda del fatto che lo si determini come un diritto dall’alto (che promana dalla decisione operata da un’istituzione che ha facoltà di costituirne altre) come un diritto dal basso (cioè che realizza le ambizioni politiche di un certo gruppo di persone)  o infine come un diritto restaurato (cioè che è reintrodotto dopo essere stato illegittimamente soppresso). Prima di addentrarci nel caso specifico della Cecenia è importante partire da un assunto di base.

Il “Principato di Sealand”, una delle prime “micronazioni” costituita da Paddy Roy Bates nel 1969

Il mondo è un’entità spaziale finita. Nel corso dei millenni tutta la sua superficie è stata esplorata e rivendicata, ed ogni metro quadrato di terra emersa è amministrata (o rivendicata) da uno Stato sovrano. Ad oggi è quasi impossibile che un nuovo Stato possa trovare un lembo di terra emersa che non sia parte integrante di un altro. Nel corso degli ultimi decenni si sono costituiti piccolissimi stati indipendenti, le cosiddette micronazioni come la Repubblica delle Rose (costituita su una piattaforma artificiale nel Mar Adriatico) o il Principato di Sealand (nato su una struttura simile al largo delle coste inglesi). Si tratta in questo caso di “stati” tra il serio e il faceto, sviluppatisi con l’intento di realizzare utopie umanistiche o di costituire porti franchi commerciali e finanziari. Niente a che vedere, in sostanza, con Stati veri e propri, come appunto la Repubblica Cecena di Ichkeria. Un nuovo stato nasce quasi sempre sul territorio occupato da un altro stato. Questo genera una serie di problemi la cui soluzione difficilmente rende soddisfatte tutte le parti in causa. Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale sono nati più di cento nuovi stati, e la formazione di nuove entità statuali è costantemente in atto. Basti pensare al processo disgregativo che ha trasformato la Jugoslavia in un mosaico di ben 7 repubbliche indipendenti nel giro di quindici anni, per rendersi conto dell’entità del fenomeno.

LEGITTIMITA’ GIURIDICA E LEGITTIMITA’ POLITICA

La premessa appena fatta già di per sé basterebbe a capire come mai la nascita di uno stato determina quasi sempre aspri conflitti. La realtà è ulteriormente complicata dal fatto che la legittimità giuridica si compenetra con almeno altri due tipi di legittimità: quella politica e quella storica. Un nuovo stato può costituirsi in assenza di legittimità giuridica qualora consistano premesse politiche determinanti, come il crollo di un regime ideologico, la caduta di una monarchia o la condotta di un governo giudicata illecita, persecutoria o semplicemente inefficace. Il primo caso può essere quello delle Tredici Colonie americane, le quali proclamarono la loro indipendenza dalla madrepatria inglese adducendo al comportamento tirannico della corona britannica, la quale imponeva tasse ai sudditi americani ma non riconosceva loro il diritto di essere rappresentati in Parlamento. Riguardo al secondo caso possiamo citare come esempio la nascita della Repubblica del Sudan Meridionale, costituita da una maggioranza cattolica oppressa dal governo centrale, espressione di una classe dirigente islamica. Riguardo al terzo caso possiamo citare infine l’autoproclamata Repubblica del Somaliland, costituita nel nord della Somalia come reazione all’anarchia dilagante nel resto del paese.

In verde scuro il territorio rivendicato dalla Repubblica del Somaliland, stato non riconosciuto indipendente de facto dal 1991. Colonia britannica fino al 1960, divenne parte della Repubblica di Somalia, ma alla caduta del dittatore Siad Barre proclamò l’indipendenza.

Parlando della legittimità storica, possiamo citare come esempio ideale lo Stato di Israele, costituito a seguito della Seconda Guerra Mondiale per volontà del movimento sionista in un momento nel quale in Palestina la quantità di ebrei residenti nella regione era grandemente inferiore rispetto alla componente palestinese. In quel caso non erano presenti né una legittimità giuridica né una legittimità politica, ma era ben chiara la volontà dei sionisti di restaurare uno Stato che era esistito molti secoli prima.

Quindi, ricapitolando, la legittimità di uno stato è affermata sulla base di tre principi: quello giuridico, quello politico e quello storico. La situazione contingente non permette quasi mai a questi tre piani di legittimità di coesistere contemporaneamente. E in ogni caso questa generica definizione di legittimità non è sufficiente a delineare una “roadmap” sicura nella gestione del problema, perché tutti e tre i piani di questo discorso sono soggetti al contesto nel quale andiamo ad analizzarli. Infatti, quando un nuovo stato va a costituirsi, esso non soltanto occuperà l’area geografica precedentemente amministrata da un altro stato, ma andrà ad imporre la sua autorità su una popolazione composita, della quale faranno parte non soltanto i sostenitori del “nuovo” stato, ma anche quelli dello stato “vecchio”. Come riconoscere quindi il diritto dei “nostalgici” a rimanere parte del “vecchio” stato senza ledere il diritto dei sostenitori del “nuovo” stato? E viceversa, come permettere la nascita di un “nuovo” stato senza ledere il diritto dei “nostalgici”? La questione aggiunge ulteriore complicazione ad un argomento già di per sé caotico, ed è bene chiarire fin da subito che ad oggi non è stata identificata nessuna procedura condivisa tra gli stati che permetta la risoluzione di simili problemi senza generare il rischio di una guerra. Pertanto, anche nel caso della Repubblica Cecena di Ichkeria, sarà bene tenere a mente che in assenza di reciproco riconoscimento tra stato vecchio e stato nuovo non può esserci alcuna legittimità oggettiva alla quale aggrapparsi.

LEGITTIMITA’ STORICA DI UNO STATO CECENO

La Repubblica Cecena di Ichkeria (ChRI) fu soltanto “uno” stato ceceno, cioè una formazione statale indipendente de facto (e secondo alcuni anche de jure) tra il 1991 ed il 1994 (come Repubblica Cecena di Nokhchi – cho) e poi tra il 1994 ed il 2000 (secondo gli esponenti del governo in esilio la ChRI esiste ancora, ed è l’unico vero stato ceceno). Il contesto nel quale questo stato nacque e si sviluppò rende peculiare la discussione intorno alla sua legittimità, per cui partiremo da un discorso più ampio, indagando prima sulla legittimità di uno stato ceceno in senso generale.

Iniziamo valutando la legittimità storica di uno Stato ceceno. Come abbiamo detto, uno stato è storicamente legittimato se restaura uno stato precedentemente abbattuto, o se va ad inentificarsi con il luogo ancestrale nel quale si è formato il popolo che questo intende rappresentare e governare. Partiamo dal principio della restaurazione: prima del 1991 non è mai esistito uno stato unitario ceceno, o uno stato che abbia preteso di essere ceceno. Nella loro storia i “Nokhchi” (come si chiamano tra di loro i ceceni) ed in generale i Vaynakh (la famiglia etno – linguistica che accomuna ceceni, ingusci e alcune popolazioni del Daghestan e della Georgia) non ebbero mai un regno, una repubblica o una confederazione politicamente compatta. Le uniche organizzazioni che possono avvicinarsi al concetto di Stato furono il Regno di Durdzukhezia ed il Principato di Simsir, due entità certamente popolate da ceceni, ma che non pretesero mai di essere “lo stato dei ceceni”. Successivamente alla loro scomparsa la popolazione sviluppò un peculiare sistema basato su clan (Teip) i quali talvolta costituivano confederazioni (Tukkhum). Questa organizzazione non può in alcun modo essere considerata un “pro – tostato” ma anzi, per certi versi ne è una negazione. I Tukkhum erano 9, i Teip più di centocinquanta. La frammentazione politica non portò mai alla costituzione di uno Stato nell’accezione moderna del termine. Anche quando i ceceni si riunirono in organizzazioni politiche unitarie, come l’Imamato del Caucaso (1829 – 1859) o la Repubblica dei Popoli della Montagna (1917 – 1921) le suddette formazioni statali ebbero un respiro più ampio rispetto alla nazione cecena, e rivendicarono la loro sovranità su tutto il Caucaso o, al minimo, su tutti i popoli islamici del Caucaso (Ingusci, Balcari, Cabardini, Karachay, Circassi ecc..). Ne consegue che, prima della Repubblica Cecena di Ichkeria, nessuna rivendicazione “restauratrice” può considerarsi legittima.

Bandiera della Repubblica dei Popoli della Montagna

Diverso è il caso di una rivendicazione di tipo “ancestrale”: è indubbio che la Cecenia è il luogo dove il popolo dei “Nokhchi” si è formato, dove ha costituito la propria unità etnoculturale, dove ha vissuto la propria evoluzione linguistica, economica e sociale. E’ il luogo dove si sono formati i Teip e i Tukkhum. Su questa base è legittimo che i Ceceni considerino quella regione come il luogo dove la loro nazione è nata, in centro di irraggiamento della loro storia, ed è legittimo anche che lo considerino come loro e soltanto loro. Nessun altro popolo infatti ha mai fatto della Cecenia la propria casa spirituale: i popoli che nei secoli hanno invaso, e talvolta sottomesso, le tribù cecene hanno il loro centro di gravità in altre zone. Nella vicina Ossezia, ad esempio, si trova il nucleo ancestrale della nazione Alana (dai quali gli osseti affermano di discendere), mentre i popoli di stirpe turco – mongola che conquistarono le pianure della Cecenia in epoca medievale hanno il loro centro di gravità nella Mongolia e in Turchia. Se accettiamo il principio per il quale un popolo può rivendicare l’indipendenza come realizzazione della sua storia, possiamo affermare che i ceceni hanno il diritto di considerarsi i legittimi “padroni” della terra che abitano da più di quattromila anni.

LEGITTIMITA’ POLITICA DI UNO STATO CECENO

Passando al tema della legittimità politica, dobbiamo cominciare ad inserire nel discorso la variabile dello “stato vecchio” dal quale i Ceceni potrebbero aver voluto prendere le distanze, costituendone uno tutto loro. Gli “stati vecchi” in questione sono l’Impero Russo e l’Unione Sovietica. Il primo, caduto nel 1922, governò sulla Cecenia fin dal diciassettesimo secolo, e lo fece prevalentemente sotto forma di dominio. Malgrado in epoca sovietica si sia introdotto il principio della “volontaria adesione” di alcuni popoli alla Russia, è ormai evidente che il Caucaso fu sottomesso militarmente, e più volte “riconquistato” dagli eserciti zaristi. I Ceceni, al pari di numerosi altri popoli caucasici si ribellarono a più riprese, provocando la reazione militare di Mosca e portando avanti logoranti campagne di guerriglia. I russi dal canto loro procedettero spesso alla distruzione dei villaggi indigeni, alla deportazione delle popolazioni ribelli ed allo sterminio delle classi dirigenti locali, secondo uno schema che non consente di definire come “volontario” l’ingresso di questi popoli nell’Impero russo.

La permanenza della Cecenia nell’Unione Sovietica non fu meno “involontaria” né meno incruenta. Dopo la fondazione dell’URSS, il 30 Dicembre 1922, la Cecenia fu annessa come provincia autonoma nella Repubblica Socialista Federata Sovietica Russa (RSFSR) per poi ottenere lo status di Repubblica Autonoma nel 1936. Nel 1944 Stalin impose la deportazione di massa di ceceni e ingusci in Asia Centrale: quasi tutta la popolazione indigena fu trasferita su vagoni piombati in Kazakhistan ed in Siberia, dove visse in esilio forzato fino al 1957. Si trattò di un vero e proprio tentativo di genocidio, volto a far sparire per sempre il popolo ceceno – inguscio, secondo l’approccio staliniano alla risoluzione dei problemi etnici. Alla morte di Stalin l’esilio forzato fu revocato, ed i ceceni poterono rientrare nelle loro terre, nel frattempo ripopolate da famiglie russe. La tragedia collettiva vissuta dai ceceni può facilmente essere addotta a motivo politico legittimo per una separazione dall’URSS. La mancanza di una “volontaria adesione” al “vecchio stato” ed il comportamento persecutorio di questo nei confronti dei ceceni può quindi a buona ragione legittimare il desiderio di questi ultimi di costituire uno stato proprio, nel quale vivere da uomini liberi senza il timore di essere fisicamente eliminati.

Veicoli militari dell’NKVD fanno la spola tra i villaggi d montagna della Cecenia e le stazioni di carico dei deportati durante l’Operazione Lentil (1944)

LEGITTIMITA’ GIURIDICA DI UNO STATO CECENO

Abbiamo visto come la Cecenia può vantare ragioni storiche e politiche per rivendicare la propria indipendenza. Quali ragioni poteva addurre dal punto di vista giuridico al crollo dell’URSS? L’Unione Sovietica si definiva come un’unione di stati governata secondo il principio del federalismo socialista. Nel corso della sua storia promulgò svariate costituzioni, ed in ognuna di esse confermò il rispetto del principio di volontarietà dei soggetti che la componevano. Ciò non significa che queste avevano il potere effettivo di secedere: i paesi del cosiddetto Blocco Sovietico furono costantemente sotto occupazione militare da parte dell’esercito del Patto di Varsavia, e qualsiasi tentativo di guadagnare l’indipendenza fu stroncato nel sangue, come nel caso dell’Ungheria e della Cecoslovacchia. Ma qui stiamo parlando di legittimità giuridica, e dal punto di vista della legittimità giuridica ogni soggetto dell’URSS, dalle “RSS” (Repubbliche Socialiste Sovietiche) alle “RSSA” (Repubbliche Socialiste Sovietiche Autonome, tra le quali vi era la RSSA Ceceno – Inguscia) tutte potevano dichiarare la secessione e costituirsi in stati indipendenti.

Il 3 Aprile 1990 Gorbachev varò una legge ancora più permissiva rispetto al tema della secessione, normando in maniera molto precisa il meccanismo da mettere in atto qualora un soggetto dell’Unione o della RSFSR avesse voluto uscire dall’URSS. Si tratta di una legge molto lunga e cavillosa, ma nella sostanza essa stabiliva che il Soviet Supremo locale avrebbe potuto organizzare un Referendum, e se questo avesse dato esito positivo si sarebbe potuto avviare il meccanismo di uscita. In particolare, con riferimento alle repubbliche autonome, la legge diceva: “una decisione di cambiare lo status e la secessione di una repubblica autonoma o di una regione autonoma dall’URSS è possibile solo mediante referendum“. Esisteva, quindi, un legittimo sistema previsto dallo “stato vecchio” per la formazione di uno “stato nuovo”, e questo sistema era disponibile anche per la Cecenia.

LA REPUBBLICA CECENA DI NOKHCHI – CHO

Nell’estate del 1990 cominciò a farsi largo sia tra i movimenti extraparlamentari, sia tra le correnti di opposizione del Soviet Supremo Ceceno – Inguscio la necessità di mettere sul piatto il tema dell’indipendenza. La maggior parte degli esponenti di questa nuova ondata nazionalista intendeva utilizzare il diritto alla secessione come elemento negoziale di un nuovo trattato dell’Unione, tirando la corda il più possibile per ottenere migliori concessioni dal governo centrale. Una frazione del movimento nazionalista, tuttavia, sosteneva la necessità di secedere per davvero, costituire una repubblica indipendente e separare la strada della Cecenia da quella della Russia. In questa sede non ci soffermeremo sulle dinamiche politiche che portarono alla Dichiarazione di Indipendenza ed alla nascita della Repubblica Cecena di Nokhchi – cho (come si definì la repubblica separatista fino al Gennaio 1994), ma ci concentreremo sulla legittimità di tale processo.

Come abbiamo visto, la Cecenia aveva in quel momento tutte le giustificazioni storiche, politiche e giuridiche per portare avanti la secessione. Conseguentemente a ciò, il 25 Novembre 1990 un organismo informale chiamato Congresso Nazionale Ceceno, convocato da tutte le anime della politica e della cultura nazionali, votò una Dichiarazione di Sovranità, nella quale si proclamava “la sovranità statale della Repubblica cecena, con la supremazia, indipendenza, pienezza ed indivisibilità della sua autorità statale all’interno dei confini esistenti della Repubblica Socialista Sovietica Autonoma Ceceno – Inguscia, ad eccezione del territorio dell’ex autonomia di Inguscezia[…].” Inoltre si dichiarava: “L’unica fonte del potere statale nella Repubblica Cecena è il popolo di questa repubblica, composto da tutti i cittadini della Repubblica Cecena.” Il Soviet Supremo Ceceno – Inguscio, allora comandato dal leader fresco di nomina Doku Zavgaev, recepì le indicazioni del Congresso e due giorni dopo varò una Dichiarazione di Sovranità con valore di legge, dai toni molto simili a quella del Congresso: “Il Soviet Supremo della Repubblica Ceceno – Inguscia, che esprime la volontà del popolo, consapevole della responsabilità storica per il destino della Cecenia e dell’Inguscezia e della loro sovranità nazionale, nel rispetto dei diritti e degli interessi di tutti i gruppi etnici che vivono nella Repubblica […] proclama solennemente la sovranità statale della Repubblica […] e dichiara la decisione di creare uno Stato di diritto democratico.” La Dichiarazione di Sovranità votata dal Soviet Supremo Ceceno – Inguscio garantì alla Cecenia le premesse per una corretta separazione dalla RSFSR e dall’URSS. Tuttavia Zavgaev, al pari di molti altri esponenti del Congresso Nazionale non aveva alcuna intenzione di secedere: anch’egli voleva negoziare migliori condizioni con l’Unione Sovietica sventolando lo spauracchio della secessione. Di diverso avviso erano i cosiddetti “radicali nazionali” i quali trovarono un eccezionale campione nel Generale Dzhokhar Dudaev, eletto Presidente del Comitato Esecutivo del Congresso nel Dicembre 1990.

il Generale Dzhokhar Dudaev tiene un discorso attorniato dai suoi seguaci

Il tentato colpo di stato dell’Agosto 1991 accelerò enormemente gli eventi, e dette ai radicali nazionali l’opportunità per forzare il meccanismo istituzionale di secessione. La leadership della Repubblica Autonoma, infatti, non prese chiaramente posizione contro i golpisti, facendo intendere alla maggioranza dei ceceni che Zavgaev ed i suoi uomini non fossero disposti a procedere oltre sulla strada dell’indipendenza. I nazionalisti ebbero gioco facile nel mobilitare le masse, e tra la fine di Agosto e la fine di Ottobre del 1991 rovesciarono il governo, occuparono gli edifici pubblici ed indissero elezioni politiche per la costituzione di un Parlamento e per la nomina di un Presidente della Repubblica nella persona del Generale Dudaev. Una volta svolte le elezioni Dudaev proclamò l’indipendenza della Cecenia. La Rivoluzione Cecena non rispettò neanche in parte il processo di separazione “legale” previsto dalla legge del 3 Aprile 1990: nessuno indisse un referendum, il Soviet Supremo non lo ratificò né lo discusse, il popolo non poté partecipare alle consultazioni nelle forme e nei modi previsti. Pertanto, da un punto di vista giuridico, la secessione della Cecenia fu illegittima.  Questo stato di cose fu immediatamente rilevato dal governo centrale, ma la situazione politica stava precipitando velocemente, e dopo un flebile tentativo di introdurre lo Stato d’Emergenza il Presidente della RSFSR, Boris Eltsin, decise di desistere e riprendere le negoziazioni con i ceceni una volta che la situazione si fosse calmata.

LA FINE DELL’URSS E LA NASCITA DELLA FEDERAZIONE RUSSA

Abbiamo visto come, a termine di diritto, la secessione della Cecenia fu messa in atto contrariamente alle procedure previste dalla Costituzione dell’URSS. A complicare non poco la situazione giunse, il 25 Dicembre del 1991, lo scioglimento dell’Unione Sovietica. Dalla mezzanotte di quel giorno l’URSS cessò di esistere come soggetto del diritto. Di conseguenza le sue leggi ed i suoi ordinamenti persero di qualsiasi validità. La Repubblica Cecena di Nokhchi – cho si ritrovò in uno stato giuridicamente sospeso: essa si era proclamata sovrana nel rispetto della legge, si era proclamata indipendente in violazione della stessa legge, e l’Unione dalla quale si era separata aveva cessato di esistere. Chi invece continuava ad esistere era la Repubblica Socialista Federale Sovietica Russa, della quale la Cecenia faceva ancora formalmente parte. Il suo Presidente, Boris Eltsin, ed il suo Parlamento consideravano il paese ancora parte dello stato, e non intendevano riconoscere come legittima la Dichiarazione di Indipendenza.  Ecco che nella disamina sulla legittimità della Repubblica Cecena di Nokhchi – cho si inserisce un nuovo interrogativo: è da considerarsi illegittima la secessione di una repubblica autonoma dal più vasto consesso di un’unione tra stati anche quando questa unione ha cessato di esistere? Il tema è estremamente complicato, ed è difficile dare una risposta precisa. Certo è che non esistendo più come soggetto giuridico, l’URSS non poté più avanzare pretese sulla Cecenia. Il discorso è diverso se si considera la questione dal punto di vista della RSFSR Russa: essa esistette ancora fino alla fine del 1993, e non riconobbe mai l’indipendenza della Repubblica Cecena di Nokhchi – cho. Da un punto di vista giuridico, di fatto, la Cecenia continuò a far parte della repubblica sovietica russa nonostante che l’Unione Sovietica avesse cessato di esistere, e che la definizione di “socialista” fosse ormai puramente formale, un “cadavere giuridico” in piena putrefazione, ma pur sempre consistente dal punto di vista legale.

Dal Gennaio del 1992 Eltsin iniziò a riformare la Federazione Russia in modo da spogliarla del suo passato sovietico senza perdere i pezzi che la componevano. Per questo motivo iniziò una fitta serie di negoziati “testa – testa” con i 92 soggetti che componevano la RSFSR, con l’obiettivo di farli aderire tutti ad un nuovo Trattato Federativo che ridisegnasse i rapporti politici tra centro e periferia. Un “nuovo trattato” significa una nuova negoziazione tra soggetti di pari diritto, i quali hanno facoltà di sottoscriverlo, ma anche di non farlo. Intorno a questo principio si articolò la posizione dei secessionisti: se la Cecenia era un soggetto dotato di piena capacità giuridica al punto da poter scegliere se sottoscrivere o meno un trattato federativo, era evidente che questa era uno stato indipendente, e che come tale poteva essere riconosciuto dalla Russia, ma anche da qualsiasi altro governo. Da questo punto di vista era evidente come la nascente Federazione Russa, pur non riconoscendo la Repubblica Cecena di Nokhchi – cho direttamente, lo faceva “indirettamente” riconoscendole i poteri tipici di uno Stato sovrano. Dudaev decise quindi di subordinare qualsiasi negoziazione con la Federazione Russa al riconoscimento ufficiale della repubblica cecena.

Forze armate della Repubblica Cecena di Ichkeria sfilano in parata

Questo atteggiamento provocò uno stallo nelle negoziazioni, perché i russi non erano affatto intenzionati a riconoscere “prima” l’indipendenza e “poi” l’adesione, ma a riconoscere l’indipendenza “contemporaneamente” all’adesione. In sostanza Mosca intendeva riconoscere la Cecenia indipendente soltanto quando questa avesse accettato di rinunciare all’indipendenza. Una differenza sottile ma molto sostanziale per i nazionalisti ceceni, i quali volevano sentirsi liberi di percorrere un binario parallelo con la Russia senza necessariamente divenire un vagone del suo treno. Su questo tema i negoziati tra Mosca e Grozny si impantanarono per 3 anni senza produrre alcun risultato tangibile. Tra la fine del 1992 e la primavera del 1993, tuttavia, il Parlamento secessionista iniziò ad oscillare verso una maggior accondiscendenza nei confronti della Russia, complici la devastante crisi economica che stava colpendo il paese ed il blocco economico e finanziario operato da Mosca come rappresaglia per la mancata adesione della Cecenia al Trattato Federativo. Il fronte nazionalista iniziò a frammentarsi, ed il 4 Giugno 1993 Dudaev forzò la situazione sciogliendo il Parlamento ed instaurando una dittatura personale. Questo evento portò la Cecenia alla guerra civile, e funse da casus belli per l’intervento armato della Russia. Alla fine del 1993 la “nuova” Federazione Russa varò la sua costituzione, nella quale la Cecenia era riconosciuta come parte integrante del nuovo stato. In reazione a questo gesto dal pesante valore politico, Dudaev decise di ribattezzare la Repubblica Cecena di Nokhchi – cho in “Repubblica Cecena di Ichkeria” (ChRI), in modo da rimarcare anche sul piano ufficiale la non – appartenenza dello Stato ceceno alla Federazione Russa.

LEGITTIMITA’ E RICONOSCIMENTO: RELAZIONI RUSSO – CECENE TRA IL 1995 E IL 2000

Prima di proseguire sulla questione dei rapporti Russia – Cecenia, fermiamoci a valutare uno degli effetti tipici della legittimità, ovvero il riconoscimento. Esso non può essere considerato come una prerogativa alla legittimità (un diritto esiste o non esiste a prescindere del fatto che questo sia riconosciuto da qualcuno) ma certamente né è uno degli effetti principali. Uno stato non riconosciuto da nessuno difficilmente potrà operare in maniera normale, perché le sue leggi, le due autorità ed i suoi titoli non saranno riconosciuti da nessuno. Il caso della Repubblica Cecena di Ichkeria è esattamente questo. Allo scoppio della Prima Guerra Cecena la ChRI era stata riconosciuta soltanto dal Presidente (decaduto) della Georgia, Zviad Gamsakhurdia. Si trattava di un riconoscimento simbolico e privo di effetti reali (In quel periodo Gamsakhurdia era stato deposto da un colpo di stato militare e si era rifugiato in esilio proprio in Cecenia). Nessun altro governo accettò di considerare la questione cecena come qualcosa di diverso da “un affare interno della Russia”. Emblematica in questo senso è la differenza nel comportamento dei governi occidentali nei confronti della Cecenia (la quale fu sostanzialmente ignorata) ed il Kosovo, altra piccola repubblica autoproclamata nel 1992, la quale a partire dai primi anni 2000 iniziò ad essere ufficialmente riconosciuta da molti paesi, compresi gli Stati Uniti (che lo riconobbero nel 2008).

Abbiamo detto che il riconoscimento non è una prerogativa de iure alla legittimità di uno stato, ma certamente uno dei suoi principali effetti de facto. Sulla base di questo ragionamento possiamo andare ad indagare sui rapporti intrattenuti tra la Federazione Russa e la Cecenia, cercando di capire se, in assenza di accordi formali, il comportamento tenuto da Mosca nei confronti di Grozny può lasciar intendere un riconoscimento pratico a fronte di un non – riconoscimento teorico. Il primo evento da tenere in considerazione è l’ingresso delle truppe russe in Cecenia nel Dicembre del 1994. Conformemente con la sua politica del “non riconoscimento” Eltsin autorizzò non già un’invasione, ma un’operazione volta a “ristabilire l’ordine costituzionale”, cioè un’azione avente come obiettivo il disarmo di “milizie armate illegali” resesi responsabili di usurpazione delle istituzioni legittime dello Stato. Non una guerra, quindi, ma un’operazione di disarmo. Niente guerra, niente Ichkeria.  La situazione cambiò quando fu chiaro che la “piccola guerra vittoriosa” progettata da Eltsin iniziò a rivelarsi per niente “piccola” e nemmeno “vittoriosa”: i russi si trovarono impantanati in una logorante guerra partigiana che sarebbe terminata nell’Agosto del 1996 la vittoria dei separatisti.

Boris Eltsin eZelimkhan Yandarbiev a Mosca per i negoziati sul cessate – il – fuoco durante la Prima Guerra Cecena, 1996

Già dal Giugno 1995 il governo russo iniziò a firmare accordi e protocolli di pace nei quali si riconoscevano di fatto le forze armate della ChRI, il suo governo e le sue strutture politiche. In un accordo militare firmato a Grozny il 30 Luglio 1995 il Governo della Federazione Russa riconosceva i suoi interlocutori come “Il Governo della Repubblica Cecena di Ichkeria”, manifestando gli effetti di un riconoscimento politico. In particolare si autorizzava l’apertura di un “ufficio di rappresentanza” della ChRI a Mosca, qualcosa di molto simile ad un consolato, o ad un’ambasciata. Da quella data il governo federale firmò almeno una decina di documenti nei quali erano presenti i riferimenti alla Repubblica Cecena di Ichkeria. Il più importante di questi fu certamente quello definito come “Accordi di Khasavyurt”, il cui punto 1 recita: “Il trattato che regola i fondamenti di base delle relazioni tra la Federazione Russa e la Repubblica Cecena, governata dai principi e dalle norme universalmente accettati dal diritto internazionale, dovrà essere raggiunto entro il 31 Dicembre 2001.” La frase non lascia alcun dubbio: il diritto internazionale regola i rapporti tra stati, e non i rapporti tra uno stato e una sua provincia. E se Russia e Cecenia hanno deciso di comune accordo di regolare i loro rapporti sulla base del diritto internazionale, ne consegue che si riconoscono a vicenda come soggetti di diritto internazionale, quindi stati sovrani.

Accordi di questo tenore si susseguirono per tutto il 1996 e la prima parte del 1997: il 23 Novembre 1996 il Primo Ministro della Federazione Russa, Viktor Chernomyrdin ed il Primo Ministro del governo ceceno, Aslan Maskhadov firmarono un accordo nel quale la Russia si impegnava a ripristinare i normali rapporti commerciali e politici con la Cecenia dal 1 Dicembre successivo, consegnando ai ceceni il controllo delle frontiere, degli aereoporti e delle vie d’accesso e di uscita dal paese, oltre alla piena disponibilità della infrastrutture. Il 3 Febbraio 1997, pochi giorni dopo lo svolgimento delle elezioni per il rinnovo del parlamento separatista e per la carica di Presidente della Repubblica, le autorità russe inviarono missive nelle quali si congratulavano con il neoeletto Capo dello Stato, Aslan Maskhadov: un atteggiamento non molto coerente con la politica di “Non riconoscimento” pubblicamente presentata dalle autorità federali. Il documento che tuttavia fa la differenza in tutta questa storia fu firmato il 12 Maggio 1997 a Mosca, e malgrado contenga termini molto generici a livello pratico, ha una chiarezza formale assoluta e inequivocabile.  Si tratta del “Trattato di Pace e Principi di Interrelazione tra la Federazione Russa e la Repubblica Cecena di Ichkeria.”.

IL TRATTATO DI PACE

Prima di addentrarci nel documento analizziamo il titolo. Un “Trattato di Pace” è un accordo basato sul diritto internazionale in base al quale due stati assumono una serie di obbligazioni, prima tra tutte il rifiuto della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie. I trattati di pace sono firmati da due stati che si riconoscono vicendevolmente come legittimi interlocutori. La locuzione “Tra la Federazione Russa e la Repubblica Cecena di Ichkeria” toglie ogni dubbio: uno stato chiamato “Ichkeria” non ha mai fatto parte della Federazione Russa, la sua denominazione non è inclusa tra quelle dei soggetti federati nella Costituzione del 1993. Si tratta evidentemente di un soggetto di diritto esterno alla Federazione, e pertanto il trattato di pace può essere interpretato come un gesto di “tacito riconoscimento”.

Mosca. Eltsin e Maskhadov firmano il Trattato di Pace del 12 Maggio 1997. Alexander Sentsov, Alexander Chumichev/TASS –осси€. 12 ма€ 1997 г. ¬

Procediamo con l’analisi del testo:

Le stimate parti dell’accordo, desiderose di porre fine al loro secolare antagonismo e sforzandosi di stabilire relazioni solide, uguali e reciprocamente vantaggiose, concordano:”

Anche in questo caso, malgrado la genericità della frase, si fa riferimento ad un accordo tra due soggetti che non soltanto sono separati, ma che si sono in qualche maniera “sentiti come altro da sé” per secoli. In questo senso la Federazione Russa sembra intenzionata a riconoscere anche la legittimità politica della secessione cecena.

Andiamo avanti con i primi 3 dei 5 articoli del trattato (il IV ed il V sono di natura circostanziale e di scarso interesse ai fini di questa trattazione):

“Art. 1 – Rifiutare per sempre l’uso della forza o la minaccia della forza per risolvere tutte le questioni di disputa”.

Il primo articolo del Trattato di Pace ricalca una formula espressa in centinaia di documenti simili, tutti sottoscritti da stati sovrani.

Art. 2 – Sviluppare le loro relazioni su principi e norme di diritto internazionale generalmente riconosciuti. Nel fare ciò le parti devono interagire sulla base di specifici accordi concreti”.

Di nuovo il richiamo al diritto internazionale come linguaggio di base nelle relazioni tra i due Stati presuppone la loro parità istituzionale.

“Art. 3 – Il presente trattato fungerà da base per la conclusione di ulteriori accordi e intese sull’intera gamma di relazioni

Non soltanto, in questo caso, si presuppone un rapporto paritetico tra Federazione Russa e Repubblica Cecena di Ichkeria, ma addirittura si condizionano tutti i futuri accordi tra i due paesi ai principi stabiliti in questo trattato.

Qualunque fossero i rapporti tra Russia e Cecenia prima del Trattato di Mosca del 12 Maggio 1997, dopo di esso non si può più affermare che la Federazione Russa non riconobbe la Repubblica Cecena di Ichkeria. In questo senso il testo del trattato è più che chiaro. Secondo lo scrivente, quindi, da questo momento in poi la Cecenia esiste a tutti gli effetti come Repubblica indipendente, ed è legittimata sia su base storica e politica, sia su base giuridica, perché dal 12 Maggio 1997 la Federazione Russa iniziò a rapportarsi con la Cecenia come ci si rapporta con uno stato estero.  L’11 Luglio successivo i governi ceceno e russo firmarono una serie di accordi volti ad integrare i rispettivi sistemi bancari e doganali. Nell’Agosto dello stesso anno i plenipotenziari Khozh Akhmed Yarikhanov ed Akhmed Zakayev firmarono un accordo tripartito con il Vice Primo Ministro russo, Boris Nemtsov ed il Vice Primo Ministro Azero, Abbas Abbasov riguardo la gestione congiunta del gasdotto che attraversava la Cecenia. In questo caso è interessante notare un aspetto procedurale: normalmente negli accordi tra la Federazione Russa e paesi esteri riguardanti questioni inerenti una delle repubbliche federate, il testo del documento finale reca la firma della repubblica federata, ma la procedura non prevede che i suoi rappresentanti possano partecipare autonomamente alle negoziazioni. In questo caso invece gli incontri preparatori bilaterali videro negoziati russo – ceceni e negoziati ceceno – azeri, come da prassi per accordi trilaterali tra stati sovrani. Su questa base potremmo spingerci a teorizzare che lo stesso Azerbaijian, firmando l’accordo sul gasdotto, abbia implicitamente riconosciuto la ChRI. La percezione che la Cecenia fosse uno stato indipendente a tutti gli effetti d’altro canto è rintracciabile nella dichiarazione di chiusura di Abbasov alla stampa: “Oggi, firmando un accordo trilaterale tra la Federazione Russa, la Repubblica Cecena di Ichkeria e L’Azerbaijian abbiamo rimosso anche l’ultimo ostacolo della repubblica nel fornire oro nero ai partner europei.

LA SECONDA GUERRA CECENA

Riepilogando brevemente possiamo dire che la Repubblica Cecena di Ichkeria, pur avendo forti motivazioni storiche e politiche per rivendicare l’indipendenza, ottenne la secessione tramite metodi illegittimi. Tuttavia il comportamento del governo della Federazione Russa tra il 1995 ed il 1996, ed ancor più l’atteggiamento avuto nei confronti del governo di Grozny dopo la fine della Prima Guerra Cecena fecero sì che tale secessione fosse, se non ratificata ufficialmente, quantomeno riconosciuta di fatto da Mosca, stabilendo uno stato di cose per le quali la ChRI potè operare come uno stato indipendente almeno fino al Dicembre 1999.  A tale scopo sono esemplari le parole di Vladimir Putin, successore di Eltsin alla presidenza federale, il quale il 13 Dicembre 2001 dichiarò: “Voglio solo ricordare che nel 1996 la Russia ha ritirato tutte le sue forze armate dalla Cecenia, avendo creato lì uno stato di fatto completamente indipendente. Non di diritto, ma di fatto. Per questo motivo nessuno può dirci che usiamo tutta la nostra forza per distruggere il desiderio del popolo ceceno di essere indipendente. Lo abbiamo fatto una volta, abbiamo dato loro tale indipendenza”.

Dalla fine del 1999 le truppe federali penetrarono nuovamente in Cecenia, e da allora fino al 2003 sottoposero il paese ad una occupazione militare. Nel 2003, infine, si tenne un referendum costituzionale volto a ricostituire l’unità federale tra la Cecenia e la Federazione Russa. La vittoria plebiscitaria del “SI” (95,97% dei voti espressi) per quanto viziata da diffuse irregolarità (non molto diverse, in effetti, da quelle registratesi alle elezioni dell’Ottobre 1991, quando furono eletti il Parlamento ed il Presidente secessionisti) sancì il reintegro della Cecenia nel sistema federale russo, delegittimando il governo della Repubblica Cecena di Ichkeria e rendendola un’organizzazione a tutti gli effetti illegale. I secessionisti bollarono il referendum come una farsa, e a tutt’oggi continuano a considerare la ChRI come l’unico governo legittimo di un paese sotto occupazione militare. Secondo quanto riportato in una disamina pubblicata su numerosi siti separatisti, la ChRI sarebbe equiparata ai governi occupati dalla Germania nazista durante la Seconda Guerra Mondiale:

“Ad esempio, durante la Seconda Guerra Mondiale, il re belga Leopoldo III costrinse l’esercito belga ad arrendersi e sebbene cercasse di formare un governo fantoccio guidato dal filo – nazista Henri De Mans, il governo in esilio, chiamato “Governo dei Quattro” continuò le sue attività a Londra dal 1940 al 1945. Allo stesso modo il governo polacco in esilio rimase in vigore dal 1939 al 1990, prima in Francia e poi in Inghilterra, e fu riconosciuto come il vero rappresentante del popolo polacco.”

Il governo polacco in esilio. Costituitosi a Londra dopo l’occupazione nazista della Polonia, non fu riconosciuto al termine della Seconda Guerra Mondiale, quando il paese entrò nel Blocco Sovietico, ma rimase formalmente in carica fino al 1990, passando i poteri al primo governo democraticamente eletto nel paese.

Il tema della legittimità dell’attuale governo della ChRI in esilio è ancora oggi oggetto di dibattito, prima di tutto tra gli stessi esponenti della diaspora separatista (ad oggi esistono almeno tre gruppi di ex funzionari della ChRI che si contendono la leadership della repubblica). Il governo stabilmente al potere in Cecenia, guidato da Ramzan Kadyrov non riconosce alcuna legittimità a nessuno degli esponenti della vecchia leadership, e si ritiene legittimo sulla base del referendum costituzionale del 2003. Anche la Federazione Russa ritiene legittimo il governo di Kadyrov, e nelle sue rappresentanze ufficiali la Repubblica Cecena federata con la Russia viene riconosciuta come istituzione ufficiale dalla maggior parte dei governi del mondo.

LEGITTIMITA’ POSTUMA DELLA ChRI

Ad oggi l’eventualità che la ChRI venga ricostituita o ottenga un qualche tipo di riconoscimento estero è piuttosto remota. Anche evitando diatribe politiche di attualità, e presupponendo che il separatismo abbia un seguito di qualche rilievo tra la popolazione cecena, il percorso per la ricostituzione della Repubblica Cecena di Ichkeria sarebbe comunque assai tortuoso. L’ultima manifestazione di volontà popolare in merito risale al 1997, e da allora le elezioni hanno sempre riconfermato alla guida del paese il fronte unionista. D’altra parte, lo stesso fronte unionista ha sistematicamente impedito che forze politiche contrarie al federalismo potessero liberamente esprimersi, ed i sostenitori di tale approccio vivono uno stato di semiclandestinità, essendo la ChRI considerata come un’organizzazione criminale, ed i suoi esponenti soggetti ad arresto.

Volendo fare un esercizio di teoria politica, la ChRI non ha mai cessato di esistere. Molti dei suoi funzionari ed esponenti politici nel corso degli anni sono passati al governo unionista di Kadyrov, assottigliando le file dei separatisti, e la costituzione dell’Emirato Islamico del Caucaso Settentrionale, avvenuta nell’Ottobre del 2007 ha privato la ChRI delle sue “forze armate” su suolo ceceno. Questo non ha comunque eroso, almeno in linea teorica, il legame delle strutture “ad interim” della repubblica in esilio con le istituzioni uscite dalle elezioni del 1997. L’eventualità di rivendicare nuovamente il diritto alla secessione della Cecenia dalla Federazione Russa sarebbe comunque ostacolata dall’esplicito divieto presente nella Costituzione della Federazione a qualsiasi azione volta a minare l’integrità territoriale dello Stato.

Sostenitori della Repubblica Cecena di Ichkeria manifestano a Ginevra, 2019