C’è un trait – d’union che lega la Repubblica Cecena di Ichkeria a molti stati “maledetti” dalla guerra: il petrolio, una risorsa tanto essenziale per l’economia moderna, eppure così pericolosa per i paesi che la posseggono. Quasi tutti gli stati nei quali si produce petrolio vivono in stato di guerra civile, di instabilità politica o sono governati da regimi autoritari. I politologi hanno scritto molto su questo: è stato rilevato che l’abbondanza di materie prime è uno dei principali motivi di instabilità all’interno di un paese. Perché una tale “benedizione” dovrebbe generale conflitti anziché ricchezza? Perchè per arricchirsi con essa non servono processi di produzione complessi, i quali richiedono stabilità ed ordine per funzionare: è sufficiente possedere qualche macchinario rudimentale, magari anche artigianale. Il caso della Cecenia è emblematico.
LE ORIGINI
La Cecenia è uno dei primi luoghi al mondo dove l’estrazione del petrolio ha assunto caratteri industriali: il primo pozzo petrolifero “moderno” del paese fu aperto poco lontano da Grozny nel 1893, e da quel momento il sottosuolo ceceno ha prodotto 420 milioni di tonnellate di oro nero. La scoperta di vasti giacimenti superficiali, facili da perforare e molto produttivi, attirò i grandi trivellatori europei (Shell in primis, ma anche aziende francesi, tedesche e olandesi) fin dai primi anni del ‘900. I proprietari dei terreni locali si accontentavano per lo più di percepire una rendita annua in cambio del diritto delle compagnie petrolifere di sfruttare i pozzi. Tuttavia dagli anni ’10 del ‘900 alcuni imprenditori locali iniziarono a lavorare in proprio, costruendosi delle discrete fortune. Uno di questi fu Tapa Chermoeff, ex militare zarista che fu per qualche tempo Presidente della Repubblica dei Popoli Montanari del Caucaso (per approfondire leggi “Libertà o Morte! Storia della Repubblica Cecena di Ichkeria” Acquistabile QUI).

Con l’avvento dell’Unione Sovietica iniziò l’industrializzazione di stato. La Cecenia divenne il secondo polo estrattivo delll’URSS, giungendo nel 1971 a rappresentare il 7% dell’intera produzione sovietica, con un volume annuale di 21.3 milioni di tonnellate di petrolio estratto. Intorno all’industria estrattiva sorse una vivace industria di lavorazione: le prime fabbriche di cherosene (considerato il più redditizio prodotto petrolifero a quei tempi) furono impiantate nel 1910, mentre in era sovietica si aggiunsero le raffinerie di petrolio Sheripov (1939) Lenin (1958) e Anisimov (1959). L’apertura di questi grossi centri di raffinazione permise ai ceceni di processare non soltanto il loro petrolio, ma anche quello proveniente da altre regioni dell’URSS. Le raffinerie potevano lavorare fino a 24 milioni di tonnellate annue di petrolio, ragion per cui dagli immensi ma de – industrializzati campi petroliferi siberiani il petrolio giungeva fino a Grozny, per essere lavorato e spedito in tutta la Russia. Oltre ad impianti per la produzione di benzina sorsero fabbriche per la raffinazione di kerosene, oli combustibili e lubrificanti per aerei: prodotti per la cui realizzazione servivano macchinari di alta tecnologia e personale qualificato.
LA RIVOLUZIONE DEL PETROLIO
L’impatto del petrolio sulla società e sull’economia fu enorme: il paese, fino ad allora popolato da agricoltori ed allevatori, divenne una realtà industriale. La sua capitale, Grozny, che nel 1897 contava appena 15.000 abitanti, nel 1979 raggiunse i 375.000 residenti, ed al crollo dell’URSS sarebbe stata la dimora di 480.000 persone, oltre un terzo di tutti gli abitanti della Cecenia. Per fornire manodopera alle grandi raffinerie ed alle industrie di lavorazione nacquero numerosi istituti scolastici, tra i quali il più importante divenne l’Istituto Petrolifero di Grozny, una vera e propria città universitaria deputata alla formazione dell’élite industriale. Il successo nell’industrializzazione del paese non portò soltanto benefici: man mano che la città cresceva e si arricchiva il divario tra gli abitanti di Grozny, scolarizzati, professionalizzati e benestanti, e quelli delle campagne, semianalfabeti e poveri, divenne sempre più grande. Al conflitto sociale si sovrappose l’ostilità etnica con la minoranza russa, trasferita in Cecenia a seguito della deportazione dei ceceno – ingusci del 1944 e perlopiù inurbata nella capitale, dove occupava i posti più importanti e redditizi sia nell’amministrazione politica della repubblica che nella gestione degli impianti industriali. Il generale aumento del benessere prodottosi tra gli anni ’50 e gli anni ’70 alleggerì il peso di questi problemi, ma non li risolse: anzi, la dipendenza dell’economia dai proventi della produzione e raffinazione del petrolio divenne sempre più cronica, legando indissolubilmente i destini della Cecenia all’andamento della filiera degli idrocarburi.
Agli inizi degli anni ‘80 i pozzi superficiali iniziarono ad esaurirsi: nel 1980 la produzione era già scesa a 7,4 milioni di tonnellate annue, e cinque anni dopo raggiunse le 5,3 tonnellate. Per rilanciare l’industria estrattiva sarebbero serviti importanti investimenti tecnologici, ma in quegli anni l’URSS sguazzava nell’insolvenza, ed il governo sovietico decise di non allocare risorse per la trivellazione di nuovi pozzi e per l’aggiornamento di quelli vecchi. Il calo della produzione di greggio ebbe effetti devastanti per l’economia locale: agli inizi degli anni ’60 quasi il 70% del bilancio della RSSA Ceceno – Inguscia era costituito dalle entrate derivanti dal petrolio, e con l’affievolirsi di questa entrata il tesoro ceceno dovette affrontare le prime crisi di liquidità. Il governo di Mosca intervenne sostituendo alle entrate petrolifere consistenti trasferimenti finanziari alle casse della Ceceno – Inguscezia: in questo modo il Cremlino evitò che una disastrosa crisi economica si abbattesse sulla repubblica, ma rese il paese dipendente dagli aiuti dello stato centrale. Questa politica assistenzialista impedì all’economia locale di riconvertirsi, magari investendo nel settore agricolo (la Cecenia può vantare una antica e pregiata attività di viticoltura) o nell’industria di lavorazione. Così, mentre la produzione petrolifera scendeva costantemente (nel 1990 furono estratti 4,2 milioni di tonnellate di greggio, nel 1991 4,1 tonnellate, nel 1992 3,6 e così via) gli altri settori economici rimanevano poco competitivi e incapaci di sostituirsi alle vecchie fonti di reddito.

IL PETROLIO DELL’ICHKERIA
Quando Dudaev proclamò l’indipendenza del paese lo stato dell’economia era disastroso: dipendente com’era dalle iniezioni di capitale da Mosca, il governo si ritrovò presto con le casse vuote, impossibilitato a pagare stipendi e pensioni e senza risorse per affrontare la riconversione dell’economia. Dal Gennaio del 1992 Eltsin impose il blocco dei trasferimenti dal governo centrale, portando le finanze cecene alla paralisi. Di colpo il petrolio ed i suoi derivati tornarono ad essere l’unica fonte di finanziamento per lo stato. Dudaev tentò di governarne la produzione, ma soprattutto la raffinazione delegando il controllo del settore a Yaragi Mamodaev (direttore del Comitato per la Gestione Operativa dell’Economia Nazionale) con l’incarico di “fiscalizzarlo” e finanziare con essa l’attività dello Stato.
Mamodaev prese il controllo dell’intero settore, utilizzando “buoni benzina” per pagare gli stipendi in sostituzione del denaro (assente sia contabilmente che fisicamente a causa della gigantesca inflazione che stava investendo il rublo), ed attribuì “quote produzione” alle amministrazioni locali per finanziare la loro attività. Ad esempio Bislan Gantamirov, Sindaco di Grozny, ottenne una quota del 5% della produzione per sostenere il bilancio cittadino. I proventi dal commercio estero dell’oro nero finirono in una quantità di diversi conti correnti, alcuni dei quali anonimi e appoggiati su banche estere. La gestione delle entrate petrolifere cadde presto nel caos: il Parlamento tentò a più riprese di mettere le mani sui flussi di cassa, e quando ci riuscì scoprì un ammanco di 300 milioni di dollari in materia prima esportata dei quali non si trovò traccia. Anche gli amministratori locali finirono col fare un uso piuttosto “allegro” e personale delle “quote” accordate dal governo: Gantamirov investì le consistenti risorse derivate dalla vendita del “suo” 5% (corrispondente a 200.000 tonnellate di carburante) nell’armamento della “Polizia Municipale), un corpo armato alle sue dipendenze che non aveva nulla che vedere con i nostri vigili urbani, ma un vero e proprio esercito di qualità tale da far paura alle stesse forze armate regolari.
Nei primi mesi del 1993 sia Mamodaev che Gantemirov furono privati del diritto di gestire le entrate petrolifere. Questo provvedimento, insieme alla crisi politica che stava consumando la Repubblica, produsse il loro allontanamento dal governo ed il passaggio all’opposizione. Il 4 Giugno 1993 Dudaev organizzò un colpo di stato militare con il quale mise a tacere sia l’opposizione “politica” del Parlamento, sia quella “petrolifera” rappresentata da Mamodaev e da Gantamirov. Una volta disperse le strutture democratiche dello Stato il Generale ebbe mano libera nella gestione del commercio petrolifero, e per qualche mese sembrò che l’efficienza del sistema migliorasse: le entrate dello stato aumentarono considerevolmente, ed il cronico ritardo con il quale il governo provvedeva al pagamento di stipendi e pensioni iniziò a ridursi.
Non passò molto tempo, comunque, che la situazione tornò a complicarsi. Dopo il blocco fiscale decretato da Elstin nel Gennaio 1992, alla fine del 1993 arrivò il blocco petrolifero. Fino ad allora infatti le raffinerie e gli impianti di trasformazione di Grozny avevano processato milioni di tonnellate di petrolio siberiano e caspico (per un valore a prezzo di mercato di circa due miliardi e mezzo di dollari), il quale veniva pompato in grandi quantità per essere lavorato e reimmesso nel circuito russo, o esportato all’estero. In particolare gli impianti ceceni erano responsabili del 90% della produzione russa di lubrificanti per aerei, e per tutto il 1992 e buona parte del 1993 tale servizio era stato sistematicamente richiesto e pagato al tesoro ceceno. La condizione giuridicamente “sospesa” della Repubblica Cecena di Ichkeria e l’assenza di sazi doganali imposti dal governo separatista aveva inoltre reso il paese una sorta di “paradiso fiscale petrolifero”: pompando petrolio in Cecenia ed esportandolo da lì verso l’estero i grandi magnati del petrolio russo eludevano le tasse statali sull’esportazione dei prodotti, arricchendosi a dismisura alle spalle del bilancio federale. In questo modo nel solo 1992, 4 milioni di tonnellate di petrolio, 1,6 milioni di tonnellate di benzina, 126.000 tonnellate di cherosene e 40.000 tonnellate di gasolio erano state illegalmente esportate all’estero senza pagare un solo rublo di tasse. Con il blocco del pompaggio di petrolio “estero” le raffinerie cecene si fermarono, ed il fiorente mercato della lavorazione (e del commercio illegale di idrocarburi) si azzerò bruscamente. Di colpo la ChRI si ritrovò senza materie prime da estrarre e senza materie prime da lavorare. A questo si aggiunsero le attività dell’opposizione armata al governo Dudaev, la quale iniziò a portare audaci attacchi fin dentro la capitale, ed il dilagare del crimine. Il paese iniziò rapidamente a collassare, e nell’estate del 1994 esplose la guerra civile.

Con l’economia al collasso, l’unica ricchezza del paese, seppur sempre più misera, rimase il petrolio estratto dai pochi giacimenti ancora in grado di farlo. Nel 1993 la produzione era scesa ulteriormente, da 3,6 a 2,5 milioni di tonnellate, e nel 1994, complice lo stato di guerra civile in atto, non raggiunse il milione di tonnellate estratte. Se questi numeri non potevano in alcun modo permettere allo stato di reggersi in piedi, erano comunque sufficienti a moltissime famiglie cecene a sbarcare il lunario. Tra il 1993 ed il 1994 la stragrande maggioranza del petrolio prodotto ed immesso negli oleodotti venne sistematicamente rubato tramite la perforazione delle condutture ed il furto su autocisterne improvvisate: il petrolio veniva portato oltre confine e venduto al 50 – 60% del suo valore alle compagnie “ufficiali”, le quali lo stoccavano nei loro magazzini come petrolio prodotto da altri stabilimenti, pagando in contanti i trafficanti. Talvolta i più ingegnosi tra i ladri di petrolio riuscivano ad avviare piccole raffinerie artigianali, trasformando il greggio in benzina di bassa qualità e vendendola direttamente in strada, o trasportandola illegalmente fuori dai confini del paese.
IL PETROLIO E LA GUERRA
Nel Dicembre del 1994 scoppiò la Prima Guerra Cecena. A lungo si è dissertato su quanto il petrolio sia stato centrale tra le cause del conflitto. Alla luce di quanto raccontato nei paragrafi precedenti è abbastanza chiaro come lo scopo di Mosca non fosse quello di riprendere il controllo dei giacimenti ceceni, ormai ridotti all’ombra di quello che erano stati negli anni ‘70. Questo non significa che il petrolio non abbia avuto alcun peso nella decisione di Eltsin di rovesciare Dudaev. Certamente il fatto che il Generale ceceno avesse trasformato la piccola repubblica in una sorta di “duty – free” petrolifero ha avuto un peso importante. Basti pensare che attraverso questo “buco nero fiscale” fluirono tra il 1992 ed il 1994 circa 8 miliardi di dollari in prodotti petroliferi, tutti rigorosamente esentasse. Più importante ancora deve essere stato il fatto che attraverso la Cecenia passava l’unico oleodotto capace di trasportare il petrolio del Mar Caspio verso l’Europa. Il controllo di quell’oleodotto assicurava a Dudaev un’arma di ricatto per una Russia che aveva un disperato bisogno di soldi (la situazione economica della Federazione non era molto diversa da quella della Cecenia, nei primi anni ’90) e che non poteva permettersi il lusso che l’oro nero dell’Azerbaijian trovasse nuove vie di accesso ai mercati occidentali.
Riguardo al fatto che la Russia non fosse troppo interessata al petrolio ed alle raffinerie cecene l’esercito federale chiarì la questione bombardando fin dai primi giorni il distretto petrolifero di Grozny e lasciando bruciare per settimane le carcasse delle raffinerie, già dai primissimi giorni di guerra. Riguardo alla questione degli oleodotti, invece, alcune circostanze (o coincidenze) potrebbero avvalorare parecchio la tesi dell’intervento “interessato” al controllo della “pipeline” Baku – Novorossjisk, il principale oleodotto che trasporta il petrolio azero dal Caspio al Mar Nero e che attraversa, appunto, la Cecenia. Gli eventi in questione sono principalmente tre:
- Nel Marzo del 1995, tre mesi e mezzo dopo l’inizio della guerra, l’esercito russo arrestò l’avanzata, ufficialmente per predisporre una tregua in vista delle celebrazioni di Maggio (Il cosiddetto “Giorno della Vittoria” che commemora la fine della Seconda Guerra Mondiale). Coincidenza: l’avanzata si interruppe non appena i reparti federali si furono assicurati il controllo del tratto di oleodotto in territorio ceceno (parallelo all’autostrada che taglia in due la Cecenia, la cosiddetta “Rostov – Baku”).
- Il 14 Giugno del 1995 la Federazione Russa stipulò un accordo per il passaggio del petrolio azero dalla linea appena conquistata. Lo stesso giorno Shamil Basayev attaccò la cittadina di Budennovsk, snodo russo del medesimo oleodotto.
- A seguito dell’attacco di Basayev e del deteriorarsi della situazione militare in Cecenia, il governo di Mosca dichiarò che avrebbe diversificato le rotte di passaggio del petrolio azero, predisponendo una nuova sezione dell’oleodotto che baipassa la Cecenia e si innesta nel vecchio tracciato all’altezza di Pervomaiskoye, in Daghestan. Coincidenza: il 9 Gennaio 1996 Salman Raduev, al comando di un nutrito reparto separatista mette a segno un’incursione armata a Klizyar, sulla falsariga di quanto fatto da Basayev l’anno precedente, e nel ripiegare in Cecenia si trova assediato a Pervomaiskoye, il quale viene completamente raso al suolo durante i combattimenti.
Queste tre coincidenze non possono di per sé rappresentare una prova, anzi: sia l’operazione di Basayev che quella di Raduev furono entrambe, secondo le ricostruzioni, dei “biani B”. Basayev infatti sembra che non volesse attaccare Budennovsk ma Mineralnye Vody, o addirittura Mosca, mentre Raduev aveva sì organizzato il raid a Klizyar, ma non si era immaginato di finire assediato a Pervomaiskoye. In entrambi i casi si tratterebbe quindi di situazioni fortuite, e non del prodotto di un’azione politica volta a “convincere” i russi a negoziare un affare petrolifero con i ceceni.
IL PERIODO INTERBELLICO
Qualunque fosse il reale peso che il petrolio ebbe sullo scatenare la Prima Guerra Cecena, essa terminò con il ritiro delle truppe federali ed il riconoscimento dell’indipendenza de facto della ChRI. Ben presto, tuttavia, i separatisti si resero conto di aver conquistato una vittoria di Pirro: il paese era completamente devastato, e il governo di Grozny, già piegato dalle ristrettezze economiche prima della guerra, era più che mai ostaggio della miseria dilagante. A questo stato di cose contribuiva il governo russo, il quale non aveva alcuna intenzione di procedere con solerzia alla ricostruzione del paese, centellinava i trasferimenti al governo separatista e faceva di tutto per mantenere in un costante stato di prostrazione ed instabilità la Cecenia. Di petrolio siberiano pompato nelle raffinerie di Grozny non si parlava nemmeno. Fra l’altro queste erano state in buona parte distrutte, e non c’erano i soldi per ripristinarle. Quello che rimaneva erano una manciata di pozzi superficiali in grado di produrre un po’ meno di due milioni di tonnellate di petrolio all’anno e un oleodotto attraverso il quale il petrolio azero poteva raggiungere il terminal russo di Novorossijsk. Su queste due fonti di reddito si giocò tutta la partita politica in Cecenia tra il 1997 ed il 1999.

Aslan Maskhadov, salito al vertice dello stato separatista nel Febbraio 1997, tentò di mantenere il controllo dei pozzi petroliferi e di salvaguardare le condutture che trasportavano il greggio alle raffinerie semidistrutte ma ancora parzialmente funzionanti. Inoltre istituì un servizio di sorveglianza lungo il tratto di oleodotto di competenza cecena, impegnandosi con i russi e gli azeri a mantenerlo operativo ed a prevenire furti di petrolio. Purtroppo per lui e per il suo governo nessuna delle due operazioni riuscì. Dei due milioni di tonnellate di oro nero prodotte dai giacimenti ceceni la metà non giunse mai alle raffinerie, depredata lungo il percorso da centinaia di “rubinetti” abusivi aperti con il beneplacito (interessato) delle unità militari preposte alla sorveglianza. L’anno successivo, il 1998, vide il collasso generale di ciò che rimaneva del sistema petrolifero: vennero prodotte appena un milione e mezzo di tonnellate, la metà delle quali non raggiunse le raffinerie perché rubata. Alla fine dell’anno il comitato statistico statale stimò il furto di settecentomila tonnellate: nel solo Ottobre 1998, a fronte di 6276 tonnellate di pertrolio prodotto dall’unità di produzione di Oktyabrneft, l’80% non riuscì a raggiungere la vicina raffineria, distante dal pozzo meno di due chilometri: lungo la conduttura furono individuati più di 300 “rubinetti” attraverso i quali i saccheggiatori avevano pompato via la cifra incredibile di 5.000 tonnellate di greggio.
IL COLLASSO DEL SISTEMA
Com’era possibile che un saccheggio così indiscriminato non venisse fermato dalle autorità? Dopotutto la Cecenia è un paese grande quanto il Lazio, ed i giacimenti petroliferi sono concentrati in aree piuttosto circoscritte. La risposta è semplice quanto impietosa: perché il governo non aveva la forza sufficiente ad impedire che i pozzi petroliferi venissero assaltati dalle numerose bande armate operative in Cecenia. Alla fine del primo conflitto il 90% della popolazione era disoccupata, e Maskhadov non aveva le risorse per darle un lavoro. La stragrande maggioranza degli uomini in grado di combattere avevano servito sotto il suo esercito, comandati da capibanda senza scrupoli assurti, alla fine della guerra, all’illustre ruolo di “Generali di Brigata”. Pochi tra loro erano intenzionati a smobilitare le loro milizie, ben consapevoli che nella Cecenia postbellica il potere reale sarebbe rimasto ai “signori della guerra” che fossero riusciti a costituirsi un feudo personale e delle fonti di reddito costanti. Così leaders militari come Shamil Basayev, Salman Raduev, Arbi Baraev e perfino il Vicepresidente della Repubblica, Vakha Arsanov mantennero in armi i loro distaccamenti, e li finanziarono con il prelievo illegale di petrolio dai pozzi petroliferi che avevano occupato. Questi pozzi, alla fine del 1998, erano in grado di portare ai comandanti di campo un fatturato illegale di quasi 3 milioni di dollari al mese, con i quali mantenevano in armi migliaia di uomini, un esercito contro il quale la piccola e quasi disarmata Guardia Nazionale, l’esercito regolare ceceno, poteva poco e niente. Nel 1999 la produzione era talmente scemata (a causa della cattiva manutenzione degli impianti e dell’impossibilità di aggiornarli) che nei primi cinque mesi dell’anno si registrò una produzione di appena 96.000 tonnellate anziché le 530.000 previste. Si giunse all’assurdo che la Cecenia si trovò a dover importare petrolio dalla Russia anziché esportarlo. Anche la fornitura di energia elettrica e di acqua calda dovettero essere importate dalle centrali russe, aumentando il disavanzo finanziario dello stato e generando una montagna di debiti impossibili da pagare.
Anche la sorveglianza dell’oleodotto Baku – Novorossijsk fu talmente fallace che interi stock da centinaia di migliaia di tonnellate di petrolio azero sparirono senza lasciare traccia. Al pari dei pozzi petroliferi anche i settori dell’oleodotto furono “feudalizzati” dai signori della guerra, i quali ben volentieri accettarono che nei tracciati di loro competenza avvenissero “furti anonimi” di petrolio, o si dedicarono direttamente al suo prelievo e contrabbando oltreconfine. Ciò che non era venduto al mercato nero veniva raffinato “in casa” tramite processi artigianali di distillazione simili a quello utilizzato per produrre alcool: il risultato di questo processo era una benzina di scarsissima qualità, sufficiente comunque per mandare una utilitaria sgangherata e garantire ai ceceni disoccupati un po’ di denaro con il quale mettere insieme il pranzo con la cena. La raffinazione artigianale del petrolio ed il commercio di benzina illegale sottraeva all’erario qualcosa come duecentoquarantamila dollari al giorno.
Per conseguenza delle mancate consegne di petrolio da parte della Cecenia Mosca iniziò a non corrispondere al governo di Grozny i quasi 5 dollari a tonnellata concordati nell’Agosto del 1997, aggravando ulteriormente la già catastrofica situazione delle casse statali. L’involuzione della ChRI in un’anarchia totale era solo questione di tempo, e nell’estate del 1999 divenne realtà. Bande armate acquartierate ed addestrate in Cecenia invasero il Daghestan, scatenando la violenta reazione della Federazione Russa ed una nuova invasione del paese.
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