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L’ECONOMIA AGRICOLA DELLA CHRI – PRIMA PARTE

DALLE ORIGINI ALLA “RIVOLUZIONE CECENA”

INTRODUZIONE

Tra le tante mancanze che la storiografia occidentale ha in relazione alla storia recente della Cecenia, c’è sicuramente quella di non aver mai approfondito le ragioni del conflitto sociale che fu all’origine della Rivoluzione Cecena, della secessione dalla Russia e delle due sanguinose guerre che dilaniarono il paese. Anche i più attenti tra i giornalisti che si sono occupati di questo tema si sono fermati alla definizione del conflitto russo – ceceno come di una “guerra per il petrolio” intrecciata con un confronto politico tra il regime ultranazionalista di Dudaev ed i revanscisti russi del cosiddetto “partito della guerra”. Tutto questo è vero: certamente nazionalismo radicale ed interessi petroliferi furono due elementi essenziali a spingere la Cecenia sulla via dell’indipendenza, e da lì nella spirale autodistruttiva dell’anarchia e del fondamentalismo. Tuttavia entrambi i fenomeni sono “concause”, derivanti da un problema socioeconomico precedente, mai risolto, detonato al crollo dell’URSS. Questo problema non stava nelle raffinerie, né nelle assemblee legislative, ma tra i campi e i pascoli dove la maggior parte dei ceceni risiedeva.

Questo ciclo di articoli è un focus sulla storia agricola della Cecenia. Che poi è la storia della maggior parte dei ceceni fino al 1991.

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LA GEOGRAFIA PLASMA I POPOLI

Guardando la carta fisica della Cecenia salta subito all’occhio come questa sia divisa in due aree geografiche ben distinte: c’è una “regione delle pianure” a Nord, ed una “regione delle montagne” a sud. Fin dal loro insediamento in queste terre, gli antenati dei ceceni si organizzarono in clan (i cosiddetti “Teip”) che si identificavano con la loro collocazione geografica: quelli del sud si definirono “teip della montagna” e si dedicarono all’allevamento, mentre quelli del nord divennero i “teip della pianura” e svilupparono l’agricoltura. Tra i due gruppi di clan si svilupparono fitti rapporti economici, con i pastori del sud che ogni anno scendevano a valle per commerciare i prodotti dell’allevamento in cambio di frumento per i loro animali e di farina per sfamarsi, ma parallelamente si produssero anche delle differenze culturali: gli abitanti del sud rimasero culturalmente più rigidi, meno inclini alla contaminazione con la nascente cultura slava, animati dalla convinzione di essere i depositari di una genuina “cecenità” in contrasto con la “meticcia” popolazione delle pianure. Anche il progressivo acuirsi delle differenze economiche tra i due gruppi, dovuto al sempre maggior sviluppo agricolo del nord e il conseguente “emanciparsi” dei benestanti che abitavano quelle terre, rafforzò negli abitanti del sud montagnoso la convinzione di essere lo “zoccolo duro” della nazione, il suo cuore incorruttibile, disposto a combattere e a morire pur di non piegarsi alla dominazione straniera o alla pervasività di culture più evolute come quella russa la quale, tra una guerra e l’altra, penetrava nella Cecenia settentrionale con le sue strade, le sue scuole, i suoi telegrafi e infine la sua industrializzazione.

Geografia fisica della Cecenia. E’ evidente la divisione tra una “Cecenia delle Pianure” situata a Nord, ed una “Cecenia delle Montagne” a Sud.

Agli inizi del ‘900, mentre le pianure del nord conoscevano la loro prima industrializzazione (intorno agli allora ricchi giacimenti di petrolio) e nel bel mezzo di quel territorio prosperava una cittadina moderna di trentamila abitanti (Grozny, originariamente costruita dagli stessi Russi come fortezza militare) il sud rimaneva una terra aspra e povera, formalmente parte dell’Impero Russo ma di fatto indipendente, nella quale la figura dell’Abrek (il “Brigante d’Onore” che ruba ai ricchi e distribuisce i frutti delle sue razzie ai poveri contadini affamati) era considerata quasi un’istituzione politica, ed ogni forma di governo combattuta come un esercito invasore. Le Montagne rimasero fino al 1944 il rifugio di chiunque intendesse opporsi al governo imperiale russo, e tra le loro gole si armarono e partirono all’assalto numerosi eserciti di volontari determinati a “Liberare” la Cecenia dal giogo di Mosca.

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IL POTERE SOVIETICO

Come tutti i popoli pre – industriali, anche i ceceni presentavano alti tassi di natalità e una piramide sociale fortemente sbilanciata verso le giovani generazioni. Gli anziani erano pochi (l’età media era inferiore ai cinquant’anni, mentre i bambini e gli adolescenti erano tantissimi. Questo continuo afflusso di forze giovani, per lo più disoccupate, veniva assorbito principalmente dalle coltivazioni del Nord, cosicché le popolazioni montane “scaricavano” le loro eccedenze sulle fattorie localizzate nelle pianure, o le inurbavano a Grozny, Gudermes, Urus – Martan e nelle altre cittadine stabilite lungo il corso dei due principali fiumi del Paese, il Terek ed il Sunzha.

Questo fenomeno si ingrossò ulteriormente con la nascita dell’URSS, allorché il governo di Mosca lanciò il programma di collettivizzazione delle terre, dirigendo gli investimenti pubblici sulle aziende collettive (i famosi Kolchoz e Sovchoz) con l’intento di costringere i piccoli agricoltori ad associarvisi. Il piano di collettivizzazione fu iniziato proprio dalle regioni del Caucaso, ed in particolare la Repubblica Socialista Sovietica Autonoma Ceceno  – Inguscia (lo stato – fantoccio costituito dai sovietici per governare la regione) fu tra le prime a sperimentarne gli effetti. Laddove le misure di incentivo non funzionavano, il potere sovietico non si riguardò ad usare la violenza, come nel caso della persecuzione dei Kulaki (i contadini “ricchi” che si opponevano alla collettivizzazione delle loro proprietà) attuata tra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ‘30.

I ceceni di montagna, da sempre abituati a vivere in modo indipendente, non accettarono le imposizioni di Mosca. Questo atteggiamento, se da un lato mantenne vivo e fiero il sentimento nazionale dei ceceni, acuì per contro il divario da la popolazione del nord, la quale cominciava a sperimentare il benessere derivante dall’industrializzazione del lavoro, e quella del sud, che rimaneva ancorata ad un modello economico di sussistenza. Gli effetti di questo stato di cose sono facilmente rilevabili nell’arretratezza cronica nella quale rimase il settore dell’allevamento, motore trainante l’economia del Sud, rispetto alla sempre maggior produttività del comparto agricolo, caratteristica dell’economia del Nord: Per dare qualche numero, nel 1944 nelle fattorie collettive risiedevano soltanto tra il 6 ed il 19% dei capi di bestiame, mentre il resto rimaneva sparpagliato in piccole e piccolissime realtà economiche di sussistenza e non produceva praticamente alcun tipo di surplus.

contadine al lavoro in un Kolchoz

La deportazione operata da Stalin nel 1944 sconvolse bruscamente l’equilibrio secolare tra il Nord e il Sud del paese. Nell’ottica di pacificare una volta per tutte quella regione di confine il dittatore russo decise di sbarazzarsi del problema alla “sua” maniera: fedele al motto “niente uomini, niente problemi” Stalin ordinò la fulminea deportazione di tutta la popolazione cecena dalla regione ed il suo trasferimento in Asia Centrale, con l’intenzione di non permettere più ad un solo ceceno di nascondersi tra quelle montagne così impervie e inespugnabili. Per tredici anni i Ceceni (ma anche gli Ingusci) vissero in uno stato di esilio permanente che fu interrotto soltanto dalla morte dello spietato leader sovietico.  Il suo successore, Khrushchev, permise un graduale rientro dei Vaynakh nelle loro terre, ma ebbe cura di impedire loro di reinsediarsi in massa nei distretti montani, volendo evitare che il problema così brutalmente risolto da Stalin si riproponesse alla prima difficoltà politica dell’URSS.  Gran parte dei ricchi pascoli della Cecenia meridionale rimasero quindi spopolati e improduttivi, ed i profughi russi inviati a sostituire i ceceni non si arrischiarono ad avviare attività in montagna, preferendo la vita di città e le occupazioni industriali. D’altro canto le autorità sovietiche tentarono di limitare l’afflusso dei ceceni anche nella capitale, Grozny, la quale, nel frattempo, era passata dai 170.000 ai 250.000 abitanti, per lo più immigrati russi inviati là da Stalin per sostituire i ceceni deportati. La misura era volta ed evitare che il tumultuoso ritorno dei ceceni alle loro terre generasse conflitti sociali con la minoranza russa, ma il primo effetto che produsse fu quello di allontanare geograficamente gli indigeni dal principale centro industriale e culturale del paese, generando il germe della discriminazione tra i ceceni, destinati a rimanere poveri agricoltori analfabeti, ed i russi, avvantaggiati dalle opportunità offerte dallo sviluppo di Grozny e preferiti dalle autorità sovietiche nelle attività pubbliche e politiche.

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LA CECENIA SOCIALISTA

Tra gli anni ’60 e 70 le autorità stimolarono l’inurbamento degli abitanti delle regioni montane tramite campagne pubbliche, attraendo un sempre maggior numero di giovani provenienti dai remoti distretti montani di Itum – Khale e Sharoy nei villaggi alla periferia di Grozny, il cui distretto passò dai 250.000 ai 400.000 abitanti tra il 1960 e il 1990.  La città divenne un corpo esageratamente pesante rispetto alla capacità del territorio rurale di provvedere al suo mantenimento. Questo cronico deficit alimentare si acuiva man mano che le montagne si spopolavano, e l’allevamento perdeva sempre maggiori quote di produttività a vantaggio dell’agricoltura: basti pensare che nel 1990 il seminativo produceva il 61% dell’ammontare loro di produzione agricola, pur estendendosi su appena il 30% del territorio, mentre l’allevamento ed i prodotti di filiera, pur avendo a disposizione il 60% del territorio, raggiungevano appena il 39% del prodotto lordo. Altro indicatore dell’arretratezza del settore era la sua scarsa redditività: l’allevamento presentava una redditività media del 7% (intorno al livello di sussistenza) mentre l’agricoltura raggiungeva il 22,7%, un dato non molto confortante, considerato che era uno dei più bassi dell’URSS, ma comunque ancora sufficiente a garantire un decoroso livello di benessere agli occupati. Per effetto di questo disinteresse (come abbiamo visto, in parte “voluto”) verso l’allevamento la Cecenia, che pure aveva tutte le carte in regola per diventare un grosso produttore di carne e latticini, si ritrovò ad importare quasi la metà dei prodotti da allevamento da altre regioni dell’URSS.

L’ECONOMIA DEL PETROLIO

Come abbiamo accennato in questo articolo (e spiegato approfonditamente QUI) lo sviluppo dell’industria di prospezione petrolifera aveva trasformato la Cecenia in uno dei principali fornitori di petrolio dell’Unione Sovietica. Negli anni ’70 la produzione di greggio iniziò a calare, per effetto del progressivo esaurirsi dei pozzi superficiali. Il governo di Mosca decise di convertire il settore estrattivo in quello della lavorazione dei prodotti petroliferi, favorendo la costruzione di uno dei più grossi complessi di raffinazione di tutta l’Unione. Alla periferia di Grozny sorserò così tre grandi raffinerie, ed una estesa rete di impianti per la produzione di lubrificanti, oli combustibili e refrigeranti per motori. Questo piano avrebbe permesso di sfruttare la manodopera specializzata già presente nel paese, oltre alle infrastrutture per il trasporto della materia prima già presenti, ma non solo: non potendo sopperire da sola, con le sue sempre più scarse risorse naturali, all’alimentazione delle sue raffinerie, la Cecenia sarebbe stata sempre più dipendente dalle forniture di petrolio provenienti da altre regioni dell’URSS, integrandosi maggiormente nel sistema politico. Nell’ottica di mantenere uniti tutti i soggetti sottoposti al regime socialista, Mosca aveva ideato un sistema di interdipendenze economiche per le quali ogni repubblica aveva bisogno delle altre per poter sostenere il proprio benessere. Nel caso della Cecenia si era scelto di sviluppare il settore della lavorazione dei derivati del petrolio, impiantando fabbriche, magazzini, oleodotti e scuole atte alla formazione dei lavoratori del settore. La Cecenia non doveva emergere come piccola potenza agricola, ma dedicarsi alla sua “missione” socialista: la produzione di idrocarburi industriali per l’armata rossa e per le industrie pesanti. In cambio, l’agricoltura locale, povera e arretrata, sarebbe stata tenuta in piedi con laute sovvenzioni pubbliche. Così, se nel 1975 il debito delle fattorie collettive e delle altre imprese agricole ammontava a circa 6,2 milioni di rubli (circa 137 milioni di euro attuali) nel 1980 questo era lievitato a 40,2 milioni, corrispondenti a circa 900 milioni di euro odierni. Giusto per dare un ordine di paragone, questa cifra era circa dieci volte il PIL della Cecenia di allora.

Dietro alla politica dei sovvenzionamenti statali c’era anche l’altra faccia della medaglia dei rapporti tra Russia e Cecenia. Se gli investimenti nel settore industriale servivano a rendere la piccola repubblica dipendente dal sistema socialista, le sovvenzioni agricole servivano principalmente a mantenere i ceceni fuori da Grozny. La città si era infatti accresciuta principalmente grazie all’insediamento di russi e discendenti di russi trasferiti qui da Stalin nel 1944 – 46, mentre i ceceni che progressivamente rientravano dall’esilio in Asia Centrale veniva ostacolato il reinsediamento nelle grandi città. Per loro il progetto socialista prevedeva un futuro da “eccedenza rurale”, cioè massa lavoratrice scarsamente qualificata dedita all’agricoltura o al lavoro stagionale. Come specificato nel pezzo dal titolo “Battaglia per la Cecenia: guerra della storiografia” di D.B. Aburakhmanov e di Ya. Z. Akhmadov:

“Quindi, misure appositamente adottate dal 1957 hanno fortemente limitato il permesso di soggiorno dei ceceni e degli ingusci a Grozny e parti del distretto di Grozny, e senza un permesso di soggiorno non hanno potuto accedere a lavori in un certo numero di industrie (ad eccezione del commercio, dei lavori stradali e dell’edilizia ). Inoltre, le principali imprese di produzione di petrolio e costruzione di macchine, che avevano salari alti, fondi per appartamenti , ecc., non permettevano ai ceceni e agli ingusci di “sparare colpi di cannone”. C’era una garanzia reciproca che permetteva al partito e alla marmaglia economica di ignorare anche le decisioni del Comitato centrale del PCUS di correggere gli squilibri nella questione nazionale nella Repubblica socialista sovietica autonoma ceceno-inguscia ”

Il sovvenzionamento dell’agricoltura da parte del governo sovietico era funzionale a mantenere quieta questa massa sempre più grande di cittadini semianalfabeti e privi di qualifiche professionali, la quale negli anni ’90 avrebbe costituito la massa d’urto della Rivoluzione Cecena. Così, nel 1990, il 70% della popolazione rurale della RSSA Ceceno – Inguscia era costituito da Vaynakh mentre soltanto il 15 – 20% dei ceceni era impiegato nel settore secondario.

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I timidi passi messi in atto dal 1985 dal governo di per correre ai ripari e limitare il divario tra i residenti russi, per lo più istruiti e impiegati nei settori secondario e terziario, ed i Ceceni, per lo più non istruiti e dediti all’agricoltura (e per entrambi i motivi sempre più insofferenti verso la minoranza russofona) non ebbero il tempo di produrre risultati tangibili. L’esercito dei lavoratori stagionali cresceva di pari passo con la crisi economica che attanagliava l’URSS in quegli anni. Il calo delle sovvenzioni pubbliche all’agricoltura generava sempre maggior surplus di manodopera, la quale per sopravvivere si dedicava al cosiddetto “shabaskha”, o “lavoro festivo”. Gli storici dibattono sulla consistenza numerica di questo fenomeno, ma le cifre più frequenti si aggirano tra gli Ottantamila e i Duecentomila individui, per lo più capifamiglia.

Raffineria a Grozny, foto scattata negli anni ’60

L’ERA GORBACHEV

I.G. Kosilov, in una monografia del 2012 scrive:

“Fino al 1991, ⅘ della popolazione normodotata, per lo più uomini ceceni, erano impegnati nel cosiddetto ‘shabashka’, o lavoro festivo, come era consuetudine designare questo tipo di attività lavorativa. Praticamente dall’inizio della primavera all’autunno, hanno lavorato in varie regioni del paese alla costruzione di manufatti – case, locali per il bestiame , ecc. – avendo concordato la consegna rapida di questo oggetto su base “chiavi in ​​mano”,  utilizzando la cosiddetta “brigata” [cioè una squadra di lavoratori organizzati in una sorta di “cooperativa” informale NDR]. Va notato che l’alto salario non ha compensato i lavoratori per le perdite in un’altra area: isolamento prolungato dalle famiglie, soggiorno spesso in luoghi lontani dal Caucaso, mancanza di cure mediche e comfort di base. I “Sabbat” erano i principali capifamiglia della popolazione cecena. Questo era il principale tipo di etnoeconomia nella repubblica. Gli uomini ceceni per la maggior parte non avevano specialità industriali moderne, la professione principale tra loro era quella del muratore o del pastore. Erano questi costruttori e pastori (delle zone rurali) che lavoravano in tutti i cantieri dell’URSS ”.

Allo scoppio della Prima Guerra Cecena la “Brigata” sarebbe diventata l’unità di base dell’esercito separatista, ed i suoi comandanti avrebbero attinto a piene mani da questa formula di inquadramento già sperimentata in campo civile. A ben guardare, quindi, gli elementi sociologici che avrebbero assicurato da una parte la vittoria della prima guerra, dall’altra l’anarchia degli anni successivi erano già presenti in un popolo gravemente traumatizzato dall’esilio, poi dalla discriminazione economica e infine dalla discriminazione sociale.

E’ evidente, dagli studi storici effettuati, che la base sociale del nazionalismo separatista ceceno era proprio questa “eccedenza rurale” che alla fine degli anni ’80 era ormai ridotta alla fame, o aveva ingrossato per necessità le file del crimine organizzato, destinato a diventare tristemente noto col termine di “mafia cecena”. Questa massa di disperati, facilmente mobilitabili e disposti a lottare per cacciare la nomenklatura sovietica (considerata la causa della miseria degli strati popolari) e la minoranza russa (considerata una sorta di grande parassita sulle spalle dei lavoratori indigeni) covava un sentimento rivoluzionario che trovò terreno fertile anche tra le altre anime della società cecena: prima fra tutti la nascente borghesia privata, nata dalle riforme di mercato di Gorbachev, la quale vedeva nella caduta del sistema socialista l’opportunità di mettere le mani sulle risorse statali, privatizzandole, e andando a costituire la punta di lancia di un modo capitalista di intendere l’economia.

Militanti separatisti radunati intorno a Dzhokhar Dudaev. Sullo sfondo il motto dei rivoluzionari: “Morte o Libertà!”

A dare una veste “politica” alle rivendicazioni socioeconomiche c’erano gli intellettuali e gli idealisti, appartenenti per lo più ai settori accademici ed ai comparti più scolarizzati della popolazione, i quali sostenevano le tesi dei primi e dei secondi nell’ottica di democratizzare la vita politica e scrollarsi di dosso l’ormai incagliato sistema a partito unico. Per motivi fondamentalmente diversi, quindi, la gran parte della popolazione convergeva sulla necessità di rivoluzionare il sistema: cosa si sarebbe dovuto fare dopo era oggetto di aspri dibattiti i quali, come vedremo, avrebbero scatenato una vera e propria guerra civile.

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