L’accerchiamento di Aksai fu una manovra occorsa il 7 Gennaio 1995 tra reparti della 22° Brigata per Scopi Speciali dell’Esercito Federale ed un raggruppamento di miliziani separatisti nei pressi del fiume Aksai, nel sud montagnoso della Cecenia. L’azione portò alla cattura di più di 40 militari russi ed alla loro consegna davanti alle telecamere, sancendo una vittoria militare e politica dei dudaeviti.

IL DISPIEGAMENTO DELLE FORZE
Con l’avvio della campagna militare di terra il comando federale predispose una serie di azioni di sabotaggio e disturbo oltre quelle che si pensava sarebbero state le linee difensive cecene, una volta che il grosso dell’esercito federale avesse conquistato Grozny. Alcune unità elitrasportate avrebbero dovuto prendere posizione ai piedi delle montagne e da lì dirigere il tiro dell’artiglieria e dell’aviazione sulle formazioni militanti in fuga. Il 29 Dicembre, poche ore prima che iniziasse l’attacco alla capitale, due squadre speciali furono inviate su tre elicotteri da trasporto scortati da due elicotteri d’assalto alla periferia meridionale di Grozny. Giunti al sito di atterraggio i piloti si trovarono davanti ad una fitta coltre di fumo nero, sprigionata da pozzi petroliferi in fiamme. Impossibilitati ad atterrare, gli elicotteri si diressero a sud, dove trovarono un comodo spiazzo dove posarsi. Il luogo era tuttavia presidiato ad alcune persone, la cui affiliazione era indefinibile a causa del fatto che indossavano abiti civili. Il comandante della spedizione, Maggiore Morozov, ordinò di effettuare alcuni falsi atterraggi per confonderli nel caso si trattasse di dudaeviti, poi predispose l’atterraggio dei suoi uomini. Dopo essersi disposti sul terreno i militari russi iniziarono a dirigersi verso Nord, in modo da raggiungere il punto di partenza dell’operazione, ma ben presto si accorsero di essere sotto osservazione da parte di un piccolo gruppo di armati.
Morozov tentò di ingaggiare i separatisti, ma questi si dispersero efficacemente. A quel punto l’effetto sorpresa, garanzia di successo dell’operazione, era ormai compromesso, e Morozov chiese di evacuare i suoi uomini, ma dal Comando giunse l’imperativo di proseguire la missione. Nel frattempo sul retro dello schieramento russo si stavano concentrando decine di militanti, i quali avevano preso coraggio e minacciavano gli incursori federali. Questi, per evitare di cadere in un’imboscata continuarono a muoversi verso nord, spostandosi continuamente tra le montagne per evitare la cattura. Nel frattempo un secondo gruppo di forze speciali atterrò a poca distanza, riunendosi al primo e costituendo così una forza di una quarantina di unità. Il gruppo così rafforzato continuò a procedere verso nord, con l’intento di prendere la posizione originaria ed iniziare la azioni di disturbo e direzione del tiro. Tuttavia l’assenza di mappe aggiornate ed una certa confusione nella catena di comando resero difficile e laborioso lo svolgimento dell’azione: in particolare le unità speciali si ritrovarono a marciare su di una strada asfaltata coperta di neve, lasciando numerose impronte le quali furono prontamente notate dai residenti locali e dai miliziani separatisti. Lungo la strada i federali incontrarono alcuni uomini aderenti alle milizie anti – dudevite, i quali consigliarono ai russi di seguire un certo percorso che li avrebbe portati in una zona sotto il loro controllo nei pressi del villaggio di Goity. Tuttavia il comandante delle due unità raggruppate, Maggiore Ivanov, decise di procedere secondo i piani e confermò la direzione Nord, verso la periferia meridionale di Grozny.

L’ACCERCHIAMENTO
Gli uomini viaggiavano con un notevole peso sulle spalle, trasportando sia la dotazione tradizionale che gli strumenti per le comunicazioni e gli esplosivi per le azioni di sabotaggio. La molta neve caduta in quei giorni rallentò ulteriormente i reparti federali, ed il riacutizzarsi di una vecchia ferita alla gamba del Maggiore Ivanov ridusse di molto la mobilità del reparto. La mattina del 7 Gennaio, constatato che ormai i gruppi militanti al seguito dei federali avevano raggiunto alcune centinaia di unità, Ivanov si decise ad ordinare l’evacuazione: i suoi uomini si sistemarono su di un’altura prospiciente un comodo punto di atterraggio ed attesero l’arrivo degli elicotteri. Nell’attesa fu ordinato di preparare la colazione, ed il fumo dei falò rese facilmente individuabili le truppe di Mosca. La scelta di trincerarsi su un’altura era mutuata dalla strategia di difesa classica impiegata dai militari russi in Afghanistan. Tuttavia, a differenza delle alture centroasiatiche, per lo più spoglie di vegetazione, le colline cecene erano coperte di vegetazione, il che non favoriva l’individuazione di eventuali unità attaccanti.

I miliziani iniziarono quindi a sistemarsi ai piedi dell’altura, circondandola da tutti i lavi. Poi, non appena la nebbia iniziò ad alzarsi, questi iniziarono a risalire la china protetti dalla foschia, sbucarono di fronte alle posizioni avanzate russe ed iniziarono una fitta sparatoria, durante la quale due soldati federali rimasero uccisi. Il fuoco giungeva da tutti i lati, e gli uomini di Ivanov non riuscivano a stimare l’entità delle forze attaccanti, nascoste tra gli alberi e coperte dalla nebbia. Per contro i miliziani potevano tenere sotto controllo i federali con grande facilità, essendo le loro sagome ben visibili nel cielo chiaro di Gennaio. I militari russi poi erano stremati dopo aver trasportato a spalla pesanti apparecchiature, e non avevano alcuna preparazione militare al combattimento in montagna. Vistosi in difficoltà, Ivanov chiese urgentemente che i suoi uomini fossero evacuati per via aerea, ma il Comando russo respinse la richiesta, chiedendo alle unità sul campo di resistere fino a che le condizioni metereologiche avessero permesso di volare in sicurezza. Tuttavia le condizioni sul campo di battaglia sembravano insostenibili, ed Ivanov inviò Morozov a parlamentare coi separatisti, tentando di guadagnare tempo o di ottenere la loro autorizzazione a sganciarsi. I dudaeviti capirono presto che l’obiettivo di Morozov era quello di tenere aperti i negoziati fino all’arrivo delle forze aeree, ed ordinarono una resa immediata. Per convincere i federali ad abbassare le armi iniziarono a martellare l’altura con i mortai. Dopo alcune ore di martellamento Ivanov, convinto che un attacco dei separatisti avrebbe portato alla completa distruzione del suo reparto, ordinò la resa.

LA PRIGIONIA E LA LIBERAZIONE
In totale caddero nelle mani dei miliziani tra i 42 e i 48 soldati federali. Questi furono trasferiti a piedi presso un centro di detenzione preventiva del Dipartimento di Sicurezza dello Stato, nel distretto di Shali, situato nel vecchio centro di detenzione temporanea regionale del Ministero degli Interni. Dell’interrogatorio si occupò il capo del Dipartimento in persona, Abusupyan Mosvaev. Durante il suo svolgimento alcuni dei militari furono picchiati, e lo stesso Maggiore Ivanov riportò una grave commozione cerebrale a seguito di un colpo inferto con una bottiglia. In generale, comunque, i prigionieri non riportarono segni di tortura, né danni fisici gravi. Questo atteggiamento particolarmente “morbido” nei confronti dei prigionieri fu spiegato con la presenza di Maskhadov presso Shali (egli era contrario all’utilizzo della tortura sui prigionieri, ed era intenzionato a mostrare al mondo la “regolarità” delle sue forze armate anche tramite il rispetto delle convenzioni internazionali sui prigionieri di guerra).
I ceceni fecero largo uso delle forze speciali catturate ai fini della propaganda. Maskhadov inviò a Shali i corrispondenti di molte agenzie di stampa, sia russe che occidentali, affinchè documentassero le condizioni di vita dei prigionieri. Inoltre autorizzò le madri dei militari catturati a recarsi a Shali per riprendere i propri figli, ottenendo una gigantesca eco mediatica. Il 19 Gennaio i soldati furono consegnati ai russi presso il villaggio di Gerzel – Aul, nel distretto di Gudermes.