“C’era la guerra in Cecenia” – Esce il diario di Adriano Sofri

Leggere il “Quaderno ceceno” di Adriano Sofri è come aprire una scatola di ricordi dimenticata in una soffitta. E’ il racconto di una avventura terribile (“Grozny“, in lingua russa) rimasto sepolto per venticinque anni per mantenere al sicuro i suoi protagonisti, e rispolverato oggi. Ad una generazione di distanza, il mondo assiste all’evoluzione di quel revanscismo russo che, proprio in Cecenia, tra il 1994 ed il 1996 muoveva i suoi primi passi. Citando lo stesso Sofri: Questo diario […] Viene pubblicato a distanza di più di venticinque anni per una ragione: c’è la guerra in Ucraina.”

Per gli studiosi dell’argomento, il resoconto di Sofri è una perla preziosa: non soltanto per le testimonianze storiche che vi si possono trovare, quanto, soprattutto, per la straordinaria umanità del racconto. C’era la guerra in Cecenia attribuisce ai personaggi che determinarono il destino di quel paese una dimensione che le cronache giornalistiche ed i resoconti accademici difficilmente riescono a trasmettere.

Gli storici spesso dimenticano di dare ai personaggi che raccontano quella profondità che soltanto una scena del semplice “vivere” può dare: uno spessore che non ha alcuna valenza epica, ma che è essenziale ad osservare l’impalcatura di quotidianità nel quale si innestano i loro “grandi momenti”. Leggere il diario di Sofri, per chi ha studiato personaggi come Aslan Maskhadov, Shamil Basayev, Vakha Arsanov, è come fare un salto in un mondo che ormai rivive soltanto nei fotogrammi sbiaditi di qualche documentario.

Riportando la presentazione del libro:

Nel 1996, per «L’Espresso» e il programma televisivo «Mixer», andai avventurosamente nel Caucaso, in Cecenia. C’era una guerra spietata e insieme inverosimile: la Federazione russa contro un paese grande, cioè piccolo, come una media regione italiana, con una popolazione di poco superiore al milione. La cosa più inverosimile è che la Cecenia vinse quella guerra. Poco dopo bisognò chiamarla Prima guerra cecena, perché intanto era scoppiata la Seconda, e Eltsin aveva ceduto il posto a Putin, il quale proclamò che avrebbe stanato i ceceni fin dentro i cessi. Nel mio soggiorno feci una stretta conoscenza con persone civili, coi combattenti e i loro capi, e viaggiai per lungo e per largo, dalla capitale Grozny ai villaggi di montagna. Passò qualche mese, si era raggiunta una tregua delle armi, e un’auto che portava tre volontari italiani, due medici e un organizzatore, impegnati con l’associazione Intersos, fu fermata da banditi armati al confine fra Inguscezia e Cecenia, e i tre furono rapiti. Il sequestro si protraeva e i servizi russi e italiani mostrarono di non avere alcuna capacità di misurarsi con quella situazione. I famigliari dei sequestrati mi chiesero di usare del mio legame recente con la Cecenia, era più o meno una pazzia, partii. Per mio conto: confidando nella piena ostilità delle autorità competenti. Il secondo viaggio fu ancora più romanzesco e rocambolesco, e drammatico: il miraggio di valere a salvare delle vite è seducente, la probabilità di fallire e addirittura di nuocere è un incubo. Finì bene. Ci aiutarono in tantissimi. Fra loro i più autorevoli comandanti, che ora erano diventati massime autorità di uno Stato riconosciuto, il ragionevole Aslan Maschadov, il leggendario Shamil Basaev, perfino il famigerato intruso Ibn al-Khattab, e di lì a poco avrebbero tenuto i primi posti nelle classifiche del terrorismo mondiale.

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